IL LIBRO DI RIPELLINO di Guido Ceronetti

IL LIBRO DI RIPELLINO IL LIBRO DI RIPELLINO a perduta Esiste, dove sarà, la capitale dell'infelicità? Migliaia di città si disputano questo titolo e a nessuna mancano i meriti per farselo attribuire. Il libro Praga magica di Ripellino il Praghese, edito da Einaudi, invita a eleggere capitale dell'infelicità Praga, ma i piaceri strani e vischiosi di questa infelicità rendono l'elettore esitante. E se la magia di Praga consistesse, essenzialmente, nella sua arte alchemica di trasformare l'infelicità in oro? Ripellino non trascura niente perché vinca Praga: la livida funebrità, la malevolenza di Praga; la sostanza afflitta di Praga; la fatiscenza di questa città senza gioia; la ciclotimia di Praga; il torbido Logos, la nera sostanza di Praga; la sepolcrale cupezza di Praga; teratologia architettonica; edilizia del malaugurio; città per i vecchi, mestissima; città funeraria, dove si mangiano dolci che hanno parvenze e nome di piccole bare; città cimmeria che non sorride. Giustamente, l'autore dice di aver scritto, in armonia con questa costante mestizia, un libro lugubre. Scrivere di Praga così appassionatamente e a lungo affretta la senescenza. Il contagio del miasma di Praga ha trasformato il capo brillante di una giovane scuola di slavistica in un vecchio stanco, in un cavallo stramazzato nella giornata della Montagna Bianca. Chi lo conosce, sa che è cosi. In Praga magica — un film lento dal montaggio concentricamente schizoide, con sequenze ripetute, didascalie incessanti, nessun taglio — si agita da cima a fondo una compagnia sterminata, con nomi e curriculum, di commedianti e di fantasmi. Lavoro dell'ottica ripelliniana o sostanza praghese? Idolo costante di Ripellino è la palingenesi scenica della realtà, la riduzione degli esseri che patiscono (compreso se stesso) a ombre recitanti, spolpate e deformate dalla rapina di un regista espressionista. Tuttavia un personaggio di Jaroslav Hasek dice che l'intero popolo ceco è una banda di simulatori. Cioè di attori. Ed è come dire: un popolo inafferrabile, un popolo di fantasmi. E questo popolo sfuggente ha per simbolo e centro il lumacoso labirinto della sua capitale. Il libro di Ripellino fornisce, senza trattarne esplicitamente, spiegazioni psicologiche e metafisiche dello straziante fallimento della rivoluzione praghese di cinque anni fa, mostrando quasi ineluttabile, e scritta nella nera sostanza di Praga, la conclusione infelice di quell'episodio felice. Nelle cifre magiche di Praga si legge questo, in lettere chiare: non poteva finire altrimenti... Nella partita, Mosca — arrogante, violenta, onnipotente — ha il ruolo del bruto. Praga è la vittima leggera, che non può sottrarsi alla sua vocazione di testa posata sul ceppo, la segnata negativamente dagli astri. Il suo vero principe è Saturno, l'invincibile distributore di malinconia e di disgrazie. Certamente, a Mosca, lo sapevano. Basta vedere la faccia sfarinata e dubbiosa di Dubcek, che è da finis Bobemiae, da primavera di nessun luogo. Anche nei brindisi, tra giovani in festa, sembra un foglio di carta caduto nella Moldava. Il rappresentante massimo della novità di Praga è un signore triste, con un cattivo oroscopo, che pochi mesi dopo, in frac, una maschera fabbricatagli in fretta dai suoi persecutori, sarà spedito a fare per un poco l'ambasciatore in Turchia. Era un uomo giovane, e Praga ne fa in pochi mesi un vecchio che raspa l'orlo di un precipizio, un povero pendolare di fabbrica che si muove come Josef K. nelle maglie di un processo da cui non può uscire vivo. Quando arrivano gli imperiali, nel novembre 1620, Praga si lascia smontare come un orologio; è finita. Diventa un mercato di stracci. Nella Storia di Vienna dell'austriaco Kralik, la vittoria della Montagna Bianca è cantata come la salvezza di Vienna. E' naturale, che la fine di Praga sia la salvezza di qualcun altro. (Anche di Mosca, adesso, ma altre forze distruttive la premono). Bella la storia di Wallenstein, che nel suo morboso palazzo di Mala Strana, con la minaccia delle armi, proibiva ai rumori di entrare. Neanche la voce umana doveva violare il silenzio delle sue stanze. Ma anche il 1918, quando nasce la repubblica di Masaryk, è da mettere tra i giorni infausti di Praga. Nello stesso anno, Vienna e Praga conoscono insieme (Praga senza saperlo) la stessa disgrazia. Da Trieste alla Moldava, quante pale d'incolti beccamorti! Il principio dell'autodeterminazione, sbriciolando l'unità austriaca, porta in sé la rovina futura di qualsiasi Cecoslovacchia indipendente. Monaco, Yalta, sono la brutale risposta storica alle illusioni nazionaliste. Sempre (marzo 1939, febbraio 1948, agosto 1968) Praga cede agli Dei contrari. Dai suoi capi, sempre lo stesso invito: non resistere, è inutile. Cosi si salvano dalla distruzione le vecchie pietre, e l'anima si nasconde là dentro. Le facce, nel calco dell'afflitta sostanza praghese, dicono una dignità senza grido, uno scoraggiamento infinito. Motivo di riflessioni morali (non astratte, con volto umano) resta il drammatico sforzo di una parte, forse la maggior parte, del partito comunista ceco, unico e feroce detentore del potere, di umanizzarsi, di purgarsi del sangue, dell'asservimento e dell'impostura, lottando contro la propria natura totalitaria, offrendosi alle sferze dell'intelligenza e della satira, cercando a tastoni una verità che fosse di tutti. Un miracolo di Praga, un'operazione di alta magia! Questo sforzo, se non si fosse esaurito, avrebbe condannato il partito a una sicura autodistruzione. Era un puro, magnifico desiderio di dissoluzione, la sua unica primavera, ed è ingenuo credere che non andasse diritto al proprio sfacelo. Ma c'erano uomini capaci di rischiare, per un po' di luce, finalmente, questo suicidio mai visto — non è strano? E' stato un grande delitto fermarli, perché avremmo conosciuto meglio l'uomo. Il celebre quartiere ebraico di Praga, dopo mille anni di esistenza, fu tagliato come un piede marcio nel 1893, ma se Praga non zoppica è perché il piede continua, diventato invisibile, a tenerla in equilibrio. Chi dice che i quartieri scomparsi hanno cessato di esistere? Non questo, di sicuro! Il marcio di Praga, anche tagliato, è Praga. Sempre gli ebrei si aggirano per quel quartiere, diceva Kafka a Janouch, mentre il Rabbi Low sorrideva nell'ombra. Nei vari capitoli dove si tratta del Golem, uno dei più grandi Misteri di Praga, trovo una traslitterazione di parola ebraica che, giusta per un tedesco, può sviare il lettore italiano. Si tratta di shem (nome, che qui allude unicamente al Nome segreto di Dio), che Ripellino scrive schem. L'aspirazione è rifiutata dal lettore italiano, che legge come schema, ed è indotto a credere che uno schema troncato regoli la vita del Golem. Mi commuove l'evocazione delle logore sedie Thonet nei caffè praghesi del Venti, nobile suppellettile delle discussioni letterarie del tempo, su cui salivano i giovani poeti, per recitare i versi amati del troppo facile e retorico Apollinaire. Adoravano Zone, poema falso, noioso e impuro! (Interessante, a pag. 322, la ricerca dell'albergo praghese al quale Apollinare accenna in Alcools). Ho una pubblicità di Casabella dove un distinto commerciante fuma un sigaro di beatitudine, circondato di mobili Thonet che venderà di sicuro. In quante capitali dell'infelicità hanno portato, i mobili Thonet, conforto e confort? Li ricordo benissimo, nelle migliori case di Torino, e anche nelle peggiori. Tra le infinite storie che racconta il matto di Praga, stupenda quella del cavaliere Dalibor, prigioniero in una torre del Castello, di cui si udiva singhiozzare il violino per il Fossato dei Cervi. In realtà, violino era uno strumento di tortura che strappava a Dalibor urli spaventosi. La leggenda praghese l'ha trasformato in un melodioso strumento. Anche il museo ebraico di Praga è stato chiuso. Scrittori dispersi, o ammutoliti, o suicidi. E una data, alla fine del libro: 10 giugno 1972. Il Teatro alla Porta, diretto da Otomar Kreica, è obbligato a chiudere: si recita, per l'ultima volta, Il Gabbiano di Cechov. Dice Kostantin Trepliòv, poco prima di suicidarsi: « Sono solo, non mi riscalda nessun affetto, ho freddo, come in un sotterraneo, e tutto quello che scrivo è arido, duro, accigliato ». Questo teatro venne a Roma nel '68 e la sua recita delle Tre sorelle fu un momento memorabile. La Volgarità, davanti a quella straordinaria finezza, ebbe un colpo apoplettico. Le lacrime di Masha Prozorova, nell'addio a Versclnin, erano vere, inaudite, contagiose lacrime. Ma il Bello è veramente intollerabile; chiuda presto, chiuda. Guido Ceronetti