Una congiura nella notte

Una congiura nella notte za violenza. Alle cinque del mattino, tutto è finito e il principe Mohamed Daud Khan che, più tardi, parlerà di sette morti, può proclamare alla radio che la monarchia è abolita, la Repubblica instaurata. Il colpo di Stato ha lo scopo di porre fine alla « pseudo-democrazia » che aveva condotto il Paese « sull'orlo del precipizio »; i cambiamenti che seguiranno daranno all'Afghanistan « una democrazia vera e salvaguarderanno i diritti del popolo ». Subito dopo nelle strade di Kabul regna l'euforia. Gli afghani, difatti, apprezzano Mohamed Daud, generale dell'esercito afghano, primo ministro dal 1953 al 1963 e parente prossimo del re deposto. Benché sia rimasto nell'ombra per dieci anni, il popolo si ricorda benissimo del profilo un po' mussoliniano, del cranio rasato e del sorriso bonario del sardar (principe) Daud, il cui prestigio si è mantenuto intatto in tutto il Paese: è infatti l'unico « uomo forte » che l'Afghanistan abbia conosciuto dall'avvento di Zaher Chah, quarant'anni fa. Il capo Tuttavia, per grande che fosse la sua popolarità, Daud, si capisce, non era solo nel colpo di Stato: i suoi compagni sono giovanissimi ufficiali subalterni. Chi ha preso l'iniziativa, il principe o i militari? E' probabile che siano questi ultimi. E' dubbio infatti che Daud, nel semiritiro in cui viveva, abbia potuto prendere contatto con elementi di secondo piano dell'esercito. Se avesse preso l'iniziativa, si sarebbe certamente appoggiato sui suoi vecchi amici, molti dei quali gli erano rimasti fedeli. Dal punto di vista tecnico, il colpo di Stato in questo caso sarebbe andato meno bene. Dall'altra parte, i giovani ufficiali avevano invece, dopo una minuziosa preparazione, ogni possibilità di riuscire. Ma per ottenere la fiducia del Paese, era necessario un portabandiera: il migliore era Daud. I cospiratori sapevano quello che avevano da guadagnarci, ma anche quello che potevano perderci. Daud infatti è tutt'altro che un uomo che si lasci manovrare. E' persona autoritaria, posseduta dalla passione di governare. Aspettava il suo ritorno al potere dal giorno in cui l'aveva lasciato, dal 10 marzo 1963. « Ciò che desideravo da dieci anni si è finalmente realizzato », ha confidato ad uno dei suoi intimi. Oltre alle sue attività d'armatore (egli e il fratello posseggono varie navi immatricolate a Karachi), il generale si teneva molto al corrente degli affari del regno, riunendo perfino a casa sua ogni settimana una ! specie di « consiglio dei ministri », al quale partecipavano alcuni dei suoi ex collaboratori. Comunque sia, se il regime monarchico è caduto come un frutto maturo, se l'annuncio della proclamazione della Repubblica ha ricevuto di primo acchito un'accoglienza favorevole, è perché i motivi non mancavano. Il primo, e non il meno importante, è la carestia che poco fa ha duramente colpito gli afghani. Due anni di siccità eccezionale, 1970 e 1971, hanno portato l'agricoltura sull'orlo della catastrofe e certe regioni ai limiti della rivolta. Le scorte e le colture hanno talmente sofferto che il Paese ha dovuto chiedere 500 mila tonnellate di grano all'assistenza straniera. Le mancanze d'una amministrazione sempre più corrotta non facevano che peggiorare le cose. E' così che certi funzionari hanno venduto a proprio profitto una parte del grano offerto dall'assistenza straniera e che avevano l'incarico di distribuire. Ciò non era tale da ispirare al popolo fiducia nei propri dirigenti. Per di più, una parte della popolazione detestava il primo ministro Moussa Chafik, rimproverandogli di non essere di origine afghana — i suoi antenati erano a quanto pare dei pengiabesi, stabilitisi in Afghanistan da due generazioni soltanto — e di vivere come un play-boy, pur invitando la popolazione all'austerità. D'altronde egli non si COME FU ROVESCIATO IL RE DELL'AFGHANISTAN Una congiura nella notte Mentre il vecchio sovrano si trovava in Italia per una cura termale, il 17 luglio scorso un fulmineo "colpo" di pochi ufficiali, guidati da un principe del sangue, proclamava la repubblica ■ Carri, autoblindo, mitra spianati attorno alla reggia Nessuno può resistere - Il regime è caduto come un frutto maturo, lo stesso sovrano deposto ne ha preso atto, abdicando Deposto il 17 luglio da un colpo di Stato militare mentre si trovava in vacanza in Italia, il re Zaher Chah dell'Afghanistan ha reso pubblica nei giorni scorsi a Roma una dichiarazione in cui fa sapere di aver deciso di abdicare ponendosi « sotto la bandiera afghana come un semplice cittadino ». Di quel colpo di Stato, che ormai il re deposto ha accettato come fatto compiuto, pubblichiamo una ricostruzione dell'inviato di «Le Monde» Olivier VTarin. Kabul, agosto. Nella notte sul 17 luglio, il frastuono dei carri armati che percorrevano le vie della città non stupì nessuno. Proprio in quei giorni, ogni anno, le guarnigioni di provincia raggiungono la capitale per le grandi manovre d'estate e la sfilata tradizionale del Jachen-i-Esteqlal, la festa dell'indipendenza. Ciò nonostante, questo fragore preoccupò la principessa Belkiss, figlia maggiore del re Zaher Chah. La serata era stata calma. Nella reggia aveva assistito con suo marito, il generale principe Abdul Wali, capo dell'esercito, ad una proiezione privata, pretesto per una riunione dei membri della famiglia e degli intimi della corte. Il re, che si trovava per una cura in Italia, non vi aveva partecipato. Il cannone La principessa richiama l'attenzione del marito che, con qualche parola, la rassicura: ha dato lui stesso alle truppe l'ordine di riunirsi a Kabul. Comunque dà un'occhiata dalla finestra della sua villa — situata ad un tiro di sasso dal palazzo del suocero — e trasale: un gruppo di carri armati sta circondando la residenza. In fretta e furia si mette l'uniforme, si arma e va a raggiungere le sentinelle all'ingresso della casa. Quando arriva nel cortile, non sente alcun rumore, i carri armati si sono fermati. Spara alcuni colpi in aria, si fa riconoscere e chiede spiegazioni. Per tutta risposta, scoppia una raffica di mitra. Le sue due guardie cadono ed una voce gli ordina di arrendersi. «Mai!», risponde il principe, scarica il revolver a caso, si precipita nella villa, vi si rinchiude. Immediatamente, uno dei carri armati si fa avanti, rovescia un muro di cinta e spara tre colpi di cannone sulla casa. Un obice attraversa la camera d'una delle figlie del principe senza colpirla, un altro incendia una parte del pianterreno. Qualsiasi resistenza è impossibile e, per salvaguardare la sua famiglia, Abdul Wali annuncia che si arrende. Immediatamente, si presenta un giovane ufficiale. Sorpresa umiliante: è un membro del «clan» del principe; egli stesso l'ha personalmente aiutato a studiare, facendogli ottenere borse di studio e corsi d'aggiornamento all'estero. E fa anche parte del commando speciale creato con il preciso scopo di resistere per almeno ventiquattro ore ad un eventuale colpo di Stato — ventiquattro ore, il tempo sufficiente, secondo i maestri della guerriglia, per far fallire ogni tentativo di cambiamento di regime. « Chi ti manda? », chiede Abdul Wali, consegnando la sua arma. «E' tuo cugino Daud Khan, l'ex primo ministro ». E due soldati si fanno avanti per scortare il principe. Con un gesto questi li allontana, si strappa le insegne di generale e procede da solo verso la jeep che l'aspetta, Il veicolo s'allontana; tre razzi salgono lentamente nel cielo, già più chiaro. In pigiama I giovani militari, sparsi ai quattro angoli della città, sanno ormai che lo « scudo » della monarchia si trova in mano loro e che il colpo di Stato di cui il principe Daud è il portabandiera è riuscito. In realtà, altri avvenimenti sono accaduti in questa notte d'estate: spari intorno al palazzo reale e alla residenza del principe ereditario, Ahmed Chah; il conducente di un carro armato, probabilmente non del tutto sveglio, ucciso dalla caduta del suo veicolo nel fiume che attraversa la città: il primo ministro Moussa Chafik sorpreso in pigiama e portato a spasso per la città con le mani legate; i membri dello stato maggiore della polizia ammassati senza quasi colpo ferire nel giardino zoologico; tutti i ministri arrestati senza difficoltà; gli edifici pubblici occupati sen¬ manteneva in carica che facendo concessioni su concessioni alle forze reazionarie ed arretrate del Paese, come il clero tradizionale: divieto per le donne di fare il bagno nelle piscine, chiusura degli spacci di bevande alcoliche ecc. Un ultimo fatto aveva poco prima suscitato l'indignazione generale. Da molto tempo iraniani ed afghani si contendono l'utilizzazione delle acque dello Helmand, fiume che nasce in Afghanistan e si va a perdere in Iran nel deserto del Seistan. Ora, Moussa Chafik aveva appena firmato un trattato con Teheran sulla divisione delle acque. L'accordo era forse vantaggioso per il Paese, poiché in cambio l'Iran doveva fornire del petrolio all'Afghanistan che ne è sprovvisto, ma esso era psicologicamente inaccettabile: non si vende l'acqua di un Paese che poco prima ne è stato gravemente privo per due anni. Una caricatura, apparsa nella stampa dopo il colpo di Stato, illustra i sentimenti degli afghani a questo proposito. Vi si vede Moussa Chafik nella sua prigione mentre si fa rasare la testa a secco. «Potreste almeno mettere un po' d'acqua, egli recrimina. Impossibile, gli risponde il parrucchiere, non ce n'è più, l'hai venduta tutta all'Iran...». Questo trattato ha suscitato delle reazioni tanto più vivaci in quanto una parte della popolazione è persuasa che in cambio delle loro firme il re ed il suo primo ministro abbiano ricevuto una «bustarella» formidabile dall'Iran. A tale proposito, è difficile farsi un'idea precisa della fortuna personale di Zaher Chah. Gli afghani ritengono che essa sia enorme e, si capisce, depositata all'estero. Le orge In ogni caso, le voci più svariate corrono ora sul re. Si racconta volentieri, per esempio, che il palazzo era teatro di orge degne del marchese di Sade e che certi familiari del re si sarebbero allontanati da lui a causa del disgusto per i suoi costumi dissoluti, lasciandolo circondato soltanto dai cortigiani avidi di lucro e di lussuria. Vere o false, il semplice fatto che si raccontino queste storie si cumula con l'apparente disinteresse del re per il suo Paese, con i suoi soggiorni troppo frequenti all'estero, con l'incertezza della sua successione — i figli del re non hanno mai avuto una personalità politica e non erano evidentemente fatti per assicurare, in questo Paese molto religioso e tutto sommato piuttosto puri¬ tano, l'avvenire della monarchia. Tanto più che da quando questa, nel 1964, s'era dotata d'una Costituzione, le istituzioni non avevano mai funzionato così male. Benché si vantasse di essere molto democratico, il re s'opponeva alla creazione di partiti politici, facilitando così l'accesso al Parlamento di notabili provinciali unicamente preoccupati dei propri interessi. Inoltre, quando si poneva una questione d'importanza generale, dato che nessuna maggioranza stabile poteva formarsi per rispondervi, la sola forza dei parlamentari risiedeva in un veto quasi inconsulto. In tal modo alcune leggi essenziali per lo sviluppo economico del Paese erano bloccate dal Parlamento da vari anni. L'Afghanistan si trovava quindi da tutti i punti di vista in un vicolo cieco dal quale soltanto un cambiamento radicale di regime poteva farlo uscire. E' vero che per l'uomo della strada la parola «Repubblica» non sembra essere altro che un termine privo di significato, che egli accompagna sempre con un sorriso indulgente che pare voler dire: «La sai, amico mio, l'ultima storia di re Daud?». Olivier Warin Copyright di « Le Monde » e per l'Italia de « La Stampa »