Le poltrone del legittimismo

Le poltrone del legittimismo DAI GIORNI BADOGLIANI ALL'8 SETTEMBRE 1943 Le poltrone del legittimismo In quel drammatico mese e mezzo spicca la pochezza di Vittorio Emanuele - Invecchiato e querulo, professa un prudente gradualismo sia nel rapporto con i fascisti, sia nella condotta della guerra: una intesa da re a re continua a sembrargli possibile in un mondo sconsacrato - Badoglio vede più chiaro: ritiene inevitabili talune concessioni al Paese; desideroso di vendetta contro i gerarchi che lo avversano, ha bisogno di nuove solidarietà Roma, agosto. La pochezza del re Vittorio Emanuele è il primo dato che aiuta a capire la storia dei quarantacinque giorni del 1943. Nel suo Diario di un anno (Milano 1947, pag. 3) ce ne fornisce una sensibile documentazione Ivanoe Bonomi, Collare dell'Annunziata, presidente del Consiglio fra il 1921 e il 1922, infine capo del governo dei Comitati di Liberazione nel 1945. Ammesso in udienza dal re, costui gli apparve molto invecchiato: «Ma la voce, il tono, il modo di interrompere, l'insistere su qualche dettaglio inutile, mi hanno riaffacciato nettamente alla memoria l'uomo di ventidue anni prima. E' sempre il re che evita di pronunciarsi, schiva le affermazioni recise e quando deve dare un giudizio quasi lo annulla in un nugolo di confessioni sulla sua ignoranza, sulla sua pochezza, sulla quasi inutilità della sua opinione ». Querulo come un male invecchiato, Vittorio Emanuele chiedeva compassione in nome dei suoi acciacchi, della vista scemante, dei suoi dolori artritici: « Aveva l'aria di dirmi — racconta Bonomi —: è ad un uomo simile che si possono chiedere risoluzioni estreme? ». Bonomi andava nominandogli uomini, movimenti, correnti che gli risultavano avere seguito nel Paese; si soffermò a parlare dei liberali e dei democratici, poi dei cattolici (« ricordandogli qualche nome noto ìi) e finalmente dei socialisti: « A questo punto il re ha trovato modo di ironizzare su Roosevelt, presidente di una repubblica plutocratica e ora alleato della Russia comunista ». Non c'era molto da sperare dal re in fatto di comprensione delle realtà politiche e strategiche. In ogni modo, poiché Bonomi gli suggeriva di costituire un governo misto — un capo militare e ministri politici — egli convenne sull'opportunità di formarlo in « pochi giorni ». Ammise anzi che « la nazione ha sempre il diritto di fare ciò che vuole», e poteva quindi apparire che fosse in buona disposizione, ma poi sul punto di concludere l'udienza ricadde nell'atteggiamento lamentoso di prima: «Si mostra vecchio, stanco, sfiduciato. Pare voglia dire: questo disegno è troppo grande per me che sono così piccolo! In sostanza lascia cadere ogni proposta. Non la discute, non la oppugna: la contempla con l'occhio di un incredulo che reputa la cosa impossibile ». Ciò non gli impediva di essere cortese con il suo ospite: « Mi ringrazia delle mie buone intenzioni, si congratula per il mio aspetto ancora robusto, e torna a lamentarsi della sua salute che è invece cosi malferma e precaria. Ma non una parola, non un gesto tradisce il suo pensiero ». Bonomi Milano, estate 1943. Inquietudine e disorientamento: capannelli di civili osservano i soldati in Galleria infatti uscì deluso dal Quirinale, con l'impressione che Vittorio Emanuele dissimulasse abilmente o — più probabile — che non avesse propositi chiari: « Forse non ama averne. Si regolerà secondo le circostanze, e se si deciderà ad agire vi si deciderà per un impulso o una convenienza improvvisa, ma non per un disegno premeditato (...). Gli irresoluti hanno qualche volta questi sussulti di energia. Ma allora farà male e fuori tempo». Re d'Albania In pratica, Vittorio Emanuele professava il gradualismo, al pari del suo ministro della Real Casa, duca Pietro Acquarone. Se era arrivato alla decisione di sbarazzarsi di Mussolini non se la sentiva di « prendere di fronte l'intero fascismo ». Quanto alla guerra, era contrario all'idea di troncarla ad ogni costo, e anzi aveva voluto far dire subito che essa continuava, appellandosi a tutti gli italiani perché vi si impegnassero con un irragionevole vigore. Alla maniera dei vecchi monarchi di diritto divino, persisteva nel credere che tutto si potesse risolvere sul piano dell'antico legittimismo. Senza timore del ridicolo firmava ancora i suoi atti con il titolo di re d'Italia e d'Albania, imperatore d'Etiopia (mentre Halle Selassiè da vari mesi era tornato sul proprio trono) ed al re d'Inghilterra indirizzava messaggi incoronati da arcaici convenevoli: « Mi dico, signor mio fratello, di Vostra Maestà buon fratello Vittorio Emanuele». Una intesa da re a re continuava a sembrargli possibile in un mondo di fatto sconsacrato. Bisogna riconoscere che invece il suo nuovo primo ministro, Pietro Badoglio, vedeva un po' più chiaro. Trovandosi a confronto con i colleghi del governo costui difatti considerava ineluttabili talune concessioni, e d'altra parte anche lo animava un rancore, non già per il regime che lo aveva beneficato, bensì contro i gerarchi stati suoi concorrenti od avversari. Era desideroso di vendette e quindi bisognoso di nuove solidarietà; pauroso — d'altro canto — cercava alleati fuori dell'antica cerchia per rilanciarsi ambizioso a ulteriori fortune. Consentì per esempio con il suo ministro dell'Industria Leopoldo Piecardi — un magistrato di idee aperte — sulla necessità « di attingere agli esponenti del sindacalismo prefascista per nominare i commissari alle organizzazioni sindacali, ancora strutturate secondo il modulo corporativo e rimaste dal 25 luglio senza dirigenti » (cfr. Sergio Turone, Storia del sindacato in Italia, 1943-1969, Bari 1973, pag. 26). Era in questione decidere se anche sindacalisti comunisti potessero essere inclusi nel numero. Il socialista Oreste Lizzadri nel suo diario Il regno di Badoglio (Roma 1963, pag. 101) notò alla data 4 agosto: « Piccarci i è perplesso: personalmente non sarebbe contrario, ma Badoglio, gli altri ministri e, in definitiva, Vittorio Emanuele, difficilmente ingoieranno un rospo di tale portata ». I rospi ingoiati E invece lo ingoiarono, e difatti quando Leopoldo Piecardi ne presentò la proposta al Consiglio dei ministri facendo i nomi dei designati, Badoglio nulla obbietta, onde il comunista Giovanni Roveda fu nominato vicecommissario per i lavoratori dell'industria, ed a Giuseppe Di Vittorio — ancora trattenuto al confino — fu riservata alla fine di agosto V organizzazione dei braccianti. Fatti di questo genere non piacevano al re. Bonomi aveva parlato dal balcone di palazzo Wedekind in piazza Colonna la sera del 26 luglio, pur limitandosi a elogiare l'ordine: « Rispettiamo l'ordine — aveva detto — la libertà deve nascere nell'ordine»; ma subito gli era giunta notizia che « si deplora nelle alte sfere della Corte perfino il mio moderatissimo discorso alla folla ». Non contento di deplorare il « sovversivo » Bonomi, Vittorio Emanuele trovò maniera di dissentire anche da Badoglio, come ci racconta l'aiutante di campo del monarca, generale Paolo Puntoni (cfr. il suo Parla Vittorio Emanuele III Milano 1958, pag. 154): «Il sovrano mi dice che ha parlato molto duramente a Badoglio: "Gli ho detto anche di far cessare la propaganda antimonarchica e di ricordarsi che il suo deve essere un governo militare e di funzionari, e non un governo politico"». Scrive Puntoni che a questo punto « si alterò » il tono della voce di Sua Maestà che soggiunse: « Gli ho parlato in maniera cosi secca e risentita che se fosse a capo di un governo parlamentare Badoglio dovrebbe dare le dimissioni. Ma non è il caso di parlare di dimissioni in questo momento ». Si vede così quale idea si facesse Vittorio Emanuele di un governo parlamentare, il capo del quale non è responsabile davanti al sovrano, ma si deve piuttosto assicurare la fiducia delle Camere. Comunque — sempre nel racconto di Puntoni — il re concluse: «E non bisogna dimenticare, anche, che alla sua poltrona Badoglio ci tiene molto! ». Ci teneva tanto, difatti, che lo ossessionava la paura di essere estromesso da un colpo dì mano fascista o tedesco. Questo vero terrore di Badoglio è il secondo ele¬ mento che assieme alla pochezza del re aiuta a capire la storia di quei tristi quarantacinque giorni. Egli pensava di avere nemici dappertutto e ricorreva al Sim (Servizio informazioni militari, diretto allora dal generale Giacomo Carboni) per difendersi dai complotti. La sua ricca abitazione — tra via Bruxelles, via di Villa Grazioli e via Salaria, adesso sede dell'ambasciata cinese — fu cintata da cavalli di frisìa, contornata da trincee di sacchetti di sabbia, e vigilata da un battaglione di granatieri rinforzato da una ventina di cannoncini di fanteria. Un giorno informatori segreti dissero a Badoglio che tedeschi e fascisti concertavano un colpo su Roma: «Il maresciallo mi comunicò la cosa — racconta Carmine Senise nel suo libro Quando ero capo della polizia, Roma 1946, pag. 235 — ma io gli dissi che a questo complotto non credevo affatto (...). Il maresciallo, però, ritenendo seria la notizia data dal Sim mi disse di procedere in tutto il regno all'arresto dei fascisti pericolosi ». I suoi nemici Pericolosi furono giudicati, per cominciare, il maresciallo d'Italia Ugo Cavallero vecchio nemico personale di Badoglio, il generale Ubaldo Soddu già sottosegretario alla Guerra, Achille Starace, Attilio Teruzzi, Giuseppe Bottai, Emo Galbiati già comandante generale della Mvsn, e altri, come Ettore Muti, già segretario del partito fascista, luogotenente generale della milizia nonché tenente colonnello dell'aeronautica in servizio attivo, un eroe militare decorato dì una medaglia d'oro e di una mezza dozzina di medaglie d'argento, ben meritate a giudizio di tutti. Era stato un violento durante gli anni dello squadrismo, ma quando era succeduto a Starace nella guida del pnf si era fatto apprezzare per una certa sua avversione alla rituale stupidità littoria. A differenza di quella degli altri, la sua cattura finì in maniera tragica, come racconta Carmine Senise (op. cit. pag. 235): « I carabinieri si recarono nottetempo a Fregene, dove il Muti abitava in un villino insieme con una sua amica, l'attrice polacca Edith Ficherowa. I carabinieri picchiarono, Muti usci di casa; vistosi circondato, tentò di fuggire dirigendosi verso un vicino accampamento militare e i carabinieri gli tirarono dietro: un colpo lo raggiunse in parte vitale e mori immediatamente ». Così i fascisti ebbero il loro Matteotti, scrisse il generale Puntoni nel suo diario il 22 agosto 1943, e difatti una grande speculazione fu successivamente orchestrata durante i mesi del governo di Salò. Il 19 dicembre 1944 la radio repubblichina dava l'informazione che Badoglio aveva a suo tempo mandato a Senise un ordine formulato in termini convenzionali: « Muti è sempre una minaccia. Il successo è solo possibile con un meticoloso lavoro di preparazione. Vostra Eccellenza mi ha perfettamente compreso ». Tutti i giornali dell'Italia occupata dai nazisti pubblicarono la riproduzione dell'autografo badogliano, che non era che un falso. Con un accorto fotomontaggio erano state infatti ricavate parole e frasi dalle minute dei telegrammi inviati dal maresciallo a Mussolini nel corso della campagna in Africa Orientale, e quindi pubblicati in facsimile nel suo volume La guerra d'Etiopia (Milano 1936, pagg. 88 e 152). Il nome di Muti che appare nel presunto biglietto a Senise risulta difatti un composito della prima sillaba «Mu» di Mussolini, nella prima riga, con l'ultima sillaba della parola «tutti», nella settima. I termini «meticoloso» e «preparazione» si trovano nella seconda riga del documento allegato a pag. 88 dell'opera citata. Il «con un lavoro» si incontra alla settima riga, e «successo» si trova alla nona. «Minaccia» è un'amputazione del participio «minacciata» alla riga seconda del documento presso la pagina 152, e così via sino alla frase chiave («V. E. mi ha perfettamente compreso»; che figura alle righe seconda e terza del telegramma riprodotto a pagina 88. Si sa che i falsi ebbero gran parte nella propaganda repubblichina, ed è certo difatti che Badoglio mai ordinò a Senise di ammazzare Muti. Non gli sarebbe stato conveniente, ma ciò non toglie che il suo governo fu insipiente e delittuoso sia nei riguardi dei fascisti sia degli antifascisti, cioè di tutti gli italiani. Vittorio Gorresio Polemiche in Danimarca per il film su Cristo Copenaghen, 27 agosto. Radio, tv e stampa danese danno ampio rilievo alle dichiarazioni di condanna del Pontefice nei confronti del film La vita amorosa di Cristo che il regista Thorsen intende realizzare, grazie anche al finanziamento di 60 milioni di lire accordatogli dall'Istituto statale del cinema. Nel Paese, la polemica prò e contro la concessione del sussidio ha assunto toni accesi. Tre pastori della Chiesa popolare danese hanna dato inizio ad una petizione nazionale mirante a provocare la revoca del contributo. Anche la scrittrice di sinistra Elsa C-ress, nota nel Pae per le sue battaglie di stampa contro ogni forma di ipocrisia e grettezza, afferma che è ingiusto aiutare un film che « offende l'intelligenza e il buon gusto ». Nonostante il coro di proteste, l'amministrazione dell'Istituto del cinema ha deciso all'unanimità di confermare il provvedimento. (Ansa)