DAI GIORNI BADOGLIANI ALL'8 SETTEMBRE 1943

DAI GIORNI BADOGLIANI ALL'8 SETTEMBRE 1943 DAI GIORNI BADOGLIANI ALL'8 SETTEMBRE 1943 Quei generali fucilatori Come ai tempi di Umberto I, gli uomini del re dimostrano di non sapersi sollevare al di sopra dello stato d'assedio - L'ordine pubblico va mantenuto a tutti i costi: "Poco sangue versato inizialmente risparmia fiumi di sangue in seguito" - In omaggio a questa "dottrina", le truppe sparano sulla gente per le strade, nelle carceri, nelle fabbriche: ci sono morti da Torino a Bari - Caduto il fascismo, la libertà è ancora lontana Roma, agosto. I quarantacinque giorni di trentanni fa sono una storia che sarebbe difficile immaginare più. triste. Per l'insipienza e l'inefficienza della quale dette prova — e che la doppiezza politica aggravava — il governo militare costituito il 25 luglio dal re può far rimpiangere persino la dittatura fascista, anche dei momenti peggiori. Se l'Italia ha prodotto statisti mediocri nel secondo ventennio dì questo secolo, sicuramente Vittorio Emanuele fu di gran lunga inferiore a Mussolini, né furono migliori del re i generali suoi, fortunosamente entrati in politica. Come già ai tempi di Umberto I — nel '98 — i militari del '43 mostrarono di non sapersi sollevare al di sopra della concezione dello stato d'assedio. Fin dal suo primo proclama letto alla radio da Giovan Battista Arista alle 22,45 di domenica 25 luglio (che interruppe una trasmissione di musica leggera dell'orchestra Zemej il nuovo capo del governo maresciallo Pietro Badoglio dette del resto un annuncio formale: « La consegna ricevuta è chiara e precisa: sarà scrupolosamente eseguita e chiunque si illuda di poterne intralciare il normale svolgimento, o tenti di turbare l'ordine pubblico, sarà inesorabilmente colpito ». Dopo due giorni e mezzo, alle 3,30 della notte sul 28 luglio, dal comando « Superesercito operazioni » il capo di Stato Maggiore generale Mario Roatta prescriveva ai reparti dipendenti le istruzioni pratiche del caso, incominciando a filosofare: «Poco sangue versato inizialmente risparmia fiumi di sangue in seguito ». Nel desiderio di versarne inizialmente solo poco egli indicava la maniera migliore per tutelare l'ordine pubblico: «Siano assolutamente abbandonati i sistemi antidiluviani quali i cordoni, gli squilli, le intimidazioni e la persuasione, e non sia tollerato che i civili sostino presso le truppe o intorno alle armi in postazione. I reparti debbono assumere e mantenere sempre grinta dura». In sosta e in movimento essi dovevano tenere il fucile a « pronti », non a « spail'arm »; procedere in formazione di combattimento e aprire il fuoco a distanza, anche con mortai e artiglieria, « senza preavviso di sorta», secondo che si usa quando si avanza contro truppe nemiche: « Non è ammesso il tiro in aria. Si tira sempre a colpire, come in combattimento ». Sempre allo scopo di ver- sare poco sangue, il capo di Stato Maggiore di Badoglio insisteva a ordinare: « I caporioni e gli istigatori di disordini, riconosciuti come tali, siano senz'altro fucilati (...). Chiunque anche solamente compia atti di violenza contro le forze armate o di polizia, o insulti le stesse e le istituzioni, venga immediatamente passato per le armi. Il militare che compia il minimo gesto di solidarietà con perturbatori dell'ordine, o si ribelli e non obbedisca agli ordini o vilipenda superiori e istituzioni, venga immediatamente passato per le armi ». I primi caduti Allegri, libertà. Ma ancora prima della circolare del capo di Stato Maggiore dell'esercito, già nella serata del 26 luglio il generale Vittorio Ruggiero, comandante della «piazza» di Milano, aveva fatto intervenire la truppa contro i comizi e i cortei popolari: a Porta Venezia carri armati mossero contro i dimostranti, e in via Molino delle Armi ed in via Carlo Alberto ci furono due morti e una ventina di feriti. Trenta feriti a Firenze il 28. Altri cinque feriti alla Pirelli di Milano il 6 agosto, e « alcune esecuzioni sommarie» nette locali carceri di San Vittore, compiute da un battaglione del 7" fanteria per porre fine ad un ammutinamento di detenuti politici. Alcuni di essi — per la verità — furono risparmiati: « Questi li fucileremo domani », disse difatti il colonnello comandante il 7" reggimento. Nella prigione romana di Regina Coeli i morti furono cinque ed in più si contarono varie decine di feriti. A Torino, sia nelle carceri sia nelle fabbriche, « diversi furono i morti e i feriti, ma poiché gli eccidi avvennero in parecchi punti — scrive Ruggero Zangrandi nel suo 1943: 25 luglio-8 settembre, Milano 1964, pag. 190 — non si è mai potuto stabilire il numero complessivo ». In complesso, però, si può arrischiare il giudizio che netta mentalità dei comandanti militari dette cosiddette « piazze » ogni manifestazione politica era sempre considerata sovversiva e insurrezionale, specialmente se pacifista. A Reggio Emilia, uscite in corteo le maestranze dette « Officine Reggiane » con bandiere sabaude, ritratti del re e cartelli « W Badoglio », una compagnia di bersaglieri aprì il fuoco non appena un'operaia gridò imprudentemente: « Viva la pace! ». Fu uccisa insieme ad altri otto, ed i feriti furono 42. Un'altra donna, tornitrice, fu ammazzata a La Spezia dalla milizia fascista impiegata in servizio d'ordine, ed un ragazzo a Sesto Fiorentino. In occasione di uno sciopero bianco ne* cantieri triestini di San I reo furono estratti a soi\ nomi di due operai da fucilare a mo' di esempio; ciò che poi per fortuna non seguì per l'opposizione delle autorità civili. A Bari, invece, un corteo di studenti che si stava avviando al carcere per accogliere all'uscita i detenuti politici (tra i quali erano i professori Guido De Ruggiero e Tommaso Fiore) fu bloccato da forze dell'esercito che aprirono «il fuoco a distanza, senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche », e i morti furono ventitré, tra i quali il figlio più giovane dì Tommaso Fiore, dì nome Graziano. Sessantadue i feriti. Vecchio nemico Una dette maggiori preoccupazioni dei generali di Vittorio Emanuele era che le truppe cadessero nella tentazione di fraternizzare con il cosiddetto popolo, sempre considerato da oltre mezzo secolo il nemico naturale della monarchia. In realtà i lavoratori si tenevano tranquilli, ma il generale Antonio Sorice, ministro della Guerra nel governo Badoglio, non se ne lasciava ingannare e in una circolare del 30 luglio metteva in guardia: « L'apparente calma delle masse operaie non deve far scivolare verso l'euforia nell'apprezzamento della situazione. E' invece perfettamente logico pensare che la gente vada organizzandosi per tentare in grande quello che in piccolo ha visto non poteva riuscire ». Come se si trattasse di preservare un esercito occupante dal contagio della popolazione di un Paese militarmente occupato, il generale Sorice raccomandava ai comandi di curare « con coscienza e passione » le truppe dipendenti: « E' necessario soprattutto parlare spesso ai soldati, aprendo loro gli occhi sulle false ideologie; spiegare, sull'esperienza del passato, a quali conseguenze può condurre l'arrendevolezza e il lasciarsi illudere; ricordare che in Italia si professa la religione cattolica, basata sul culto dei più alti valori morali e spirituali; fare, infine, appello al sentimento della famiglia e, particolarmente, alla gelosa salvaguardia delle nostre donne e dei nostri figli, che debbono esserci più cari dei nostri stessi occhi ». La pedagogia dette circolari militari era in quei giorni più insistente di quella detta stampa quotidiana, allora sottoposta a una censura preventiva non conosciuta neppure durante il ventennio fascista. Nella cronaca del Corriere della Sera del 28 luglio, a proposito dei fatti nette vie Molino dette Armi e Carlo Alberto si leggeva difatti: « Nelle prime ore di ieri mattina l'autista Giulio Bertolucci si è trovato in mezzo a un parapiglia in piazza Cordusio, quando è stato colpito da un proiettile di rivoltella alla bocca. E' deceduto. Analoga sciagura è toccata al meccanico Virgilio Donati di Pietro. Durante una colluttazione, una rivoltellata, sparata non si sa da chi, l'ha raggiunto al torace. E' deceduto ». I giornalisti che ritenevano la libertà a portata di mano vissero giorni difficili. Era già stata sequestrata, la notte sul 26 luglio, un'edizione speciale del Messaggero « che gettava olio sul fuoco delle passioni », secondo quanto valutò la ps (cfr. Carmine Senise Quando ero capo della polizia, Roma 1946, pag. 217). Il trapasso del regime era avvenuto in forma equivoca, e in ogni modo la classe dirigente di prima continuava a esercitare il potere, con tanto maggiore attaccamento quanto più forte era il suo timore di perdere i vecchi privilegi. Scriveva il quotidiano finanziario di Milano, 24 ore, che bisognava fare affidamento sui ceti « buoni e saggi» della borghesia, non guasti dalle seduzioni sovversive. Dal canto proprio il giornale di Bari, La Gazzetta del Mezzogiorno, aveva informato dell'accesso al potere di Badoglio con un editoriale intitolato secondo la vecchia formula littoria « Il cambio detta guardia ». Dopo due giorni, il nuovo direttore. Luigi De Secly, ebbe il coraggio di scrivere « Viva la libertà », ma fu arrestato la notte seguente sotto l'accusa di incitamento all'insurrezione. I quotidiani erano ridotti a un solo foglio, che appariva con larghi spazi bianchi per le manomissioni della censura affidata ai funzionari del ministero della Cultura Popolare, sempre gli stessi del tempo fascista. Il Popolo di Roma diretto da Corrado Alvaro vantò allora il primato di quelle finestre aperte fra le righe di piombo, e andava a ruba nella capitale grazie all'intuizione del pubblico che nei molti vuoti fossero andate perdute verità e rivendicazioni. In fondo, la sola libertà che ci era stata concessa fu quella dello scandalo e del pettegolezzo sulla vita privata dei gerarchi e dello stesso Mussolini. Tutto difatti fu reso pubblico, dagli arricchimenti illeciti di taluni gerarchi agli amori del Duce con Claretta Petacci ed ai favori concessi dall'ex ministro detta Cultura Popolare Alessandro Pavolini alle attricette di Cinecittà. Solo pettegolezzi Il lettore del giornale radio aveva informato il 25 luglio, secondo la lettera del proclama di Vittorio Emanuele, che « nessuna deviazione sarà tollerata e nessuna recriminazione consentita », ma un po' tanto di chiacchiere fu dato in pasto — nonostante la miseria di spazio dei quotidiani — atta curiosità morbosa dei lettori. Sembra del resto che lo stesso Badoglio se ne divertisse, magari anche immaginandosi che la pubblica opinione sì potesse accontentare di tali scampoli di revisione di una storia dì vent'anni. La consegna dìfatti era comunque di non esagerare, attenti a non superare i margini detto scandalismo minore, come racconta bene Carmine Senise, nel suo libro (op. cit. pag. 219). Egli narra che un giorno Badoglio convocò i ministri del Viminale e saggiamente parlò sul tema: « Senonché, poco dopo, tre o quattro di essi mi fecero segno — lamenta Senise — ad una specie di attacco frontale, rimproverandomi di non essere abbastanza energico contro i fascisti e, soprattutto, di non dare alla stampa tutte le notizie che io pure dovevo avere sulle loro passate malefatte». Egli allora eccepì di essere capo detta polizia e non informatore della stampa, ma si dovette accorgere che non tutti la pensavano a quel modo: « Alcuni ministri, come il Riccardi, il Severi, in parte il Galli, il sottosegretario Baratono ed altri rappresentavano la tendenza, si potrebbe dire, di sinistra del ministero, e mettevano la lotta contro il fascismo come caposaldo della politica del governo ». Insistevano infatti nell'esigere energia, « ed allora non seppi astenermi dal dir loro: "Ma noi ci conosciamo tutti! Voi fino a pochi giorni addietro siete stati dei fascisti disciplinati ed ossequenti; donde si viene adesso tutto questo zelo?"». Surtout pas trop de zéle, fu appunto la consegna dì quei nefasti quarantacinque giorni. Vittorio Gorresio Milano, estate 1943. Il fascismo è caduto, ma non c'è gioia o sollievo nel volto di questi dimostranti: presto li disperderà la repressione "11 solo finalista del Campiello che abbia sempre riscosso l'unanimità dei voti durante tutte le votazioni" Enrico Falqui, giudice al Campiello mm il piacere di ritrovare una parte di noi stessi Carlo Sgorlon IL TRONO DI LEGNO Premio di Selezione Campiello 1971 ARNOLDO MONDADORI EDITORE