Un eroe della prosa

Un eroe della prosa TACCUINO DELLA MEMORIA; DE GASPERI Un eroe della prosa Sono vent'anni che la Carne-1 ra, quasi a vendetta per il mancato « scatto » della legge elettorale maggioritaria, rovesciò il suo ultimo ministero; e diciannove da che, dopo mesi di amarezza, di solitudine, di abbandono, di celata ed inconfessata, ma cognita e fatale, malattia, De Gasperi quasi repentinamente si spense nel suo borgo di Valsugana. Forse per un inconscio tributo alla sua grandezza, grava, da allora, il silenzio: un silenzio tanto più profondo e avvertibile, dopo la coraggiosa e protestataria biografìa non apologetica della sua figliola, quanto più, in occasione di congressi, anniversari o cerimonie di parte, si rievoca il suo nome: ma non si imita, ed anzi si continua ad ignorare di fatto, od a contaminare surrettiziamente, l'opera sua. Nemmeno si è provveduto, che io sappia, a raccogliere in edizione ufficiale e integrale i suoi discorsi parlamentari. Sarebbe una lettura sorprendente, quand'anche non letteraria, né letterariamente piacevole: rivelatrice dell'uomo e della nostra storia antica e recente. Parlava a fatica, improvvisasse o leggesse, sgraziato, la voce aspra e dura, da montanaro, solo ingentilita qua e là dalle inflessioni venete del suo dialetto trentino. Pareva non si curasse dell'uditorio, non parlasse a un'assemblea o ad una folla, ma a se medesimo. Gli mancava, dunque, l'eloquenza, il fascino della comunicativa, il fluido carismatico dei grandi oratori? O dell'oratore non aveva egli, invece, tutte le doti, perché ne possedeva quell'unica e massima, la sincerità? La sincerità dell'uomo, la sua « credibilità », la consapevolezza d'ogni ascoltatore che De Gasperi credeva alle proprie parole (e appunto per questa sua « credibilità » s'imponeva), erano immediate, indubitabili, irresistibili e irrevocabili. Ir» ciò, dunque, la sua « eloquenza »: o in quella che si può forse definire l'antitesi dell'eloquenza, la sua prosa, la sua prosastica costruttività ed efficienza. Potremmo perciò quasi ripeter di lui ciò che di Matteotti disse Gobetti, quando lo definì: « eroe tutto prosa ». Il piemontese Gobetti avrà probabilmente pensato, per elogio comparativo del veneto-polesano Matteotti, ai grandi della sua terra, dal Giolitti al Cavour. 11 parallelo è, comunque, tanto più appropriato nel caso del veneto-trentino De Gasperi. E conferma l'unicità e la solitudine dell'uomo, la rarità nostrale di questo tipo d'uomo. E', invero, e non è caso che gl'individui più operosi e più benemeriti per la costruzione o la ricostruzione d'Italia siano stati uomini come Giolitti, Cavour e De Gasperi, che non rientrano in nessuna delle tradizionali o convenzionali categorie dell'» Italiano ». In un paese dove tutti erano e si professavano, e magari si professano tuttavia, colti, eloquenti, fascinatori, almeno «intellettuali » (o pratici e furbi), non erano certo né intellettuali né oratori Cavour, Giolitti e De Gasperi, di cui era parimenti piana e disadorna la parola e la pagina. Artefici d'una patria italiana, erano scevri di qual si voglia boria ed alterigia nazionalistica, e guardavano come a modello fuor dai confini del proprio paese: il Cavour àaW'enfer intellectuel della Torino restaurativa a Ci nevra, Parigi e Londra; il De Gasperi, cittadino italiano dell'Impero absburgico, ad una ci vile entità, ad un'ordinata organizzazione e amministrazione statale, o sovra-statale, in cui cooperassero libere e livellate le singole, piccole patrie. Perciò non facevano distinzione fra politica interna e politica estera, l'una e l'altra considerando come le facce d'un solo prisma o gli aspetti d'un solo problema. Per essere libera e indipendente, l'Italia, fosse l'Italia monarchica post-1848, fosse l'Italia repubblicana postseconda guerra mondiale, dove va essere libera, democratica, riformatrice, livellatrice. Il suo « europeismo » le imponeva la via da seguire e l'unica via da seguire, all'interno, era quella che conducesse, o riconducesse, all'Europa. Uomo di frontiera ed « eroe tutto prosa », De Gasperi quasi naturalmente si sentì, già in regime absburgico, patriota italiano, ma (perciò appunto) anti-nazionalista: e pertanto, nel diverso contesto storico al termine della seconda guerra mondiale, convintissimo e risoluto « europeista ». Per essere « europeista », e per far l'Italia «europeista », o addirittura « europea», De Gasperi, tuttavia, sapeva di dover avere con sé o dietro sé un'Italia che non fosse più oltre nazionalistica o « mutilata »; che non fornisse, obiettivamente, materia di propaganda nazionalistico-patriot tarda col proprio eventuale « rinunciatarismo » e neutrali¬ smo: e con le proprie mutilazioni. Perciò la tutela dell'incolumità territoriale, quanto meno la rivendicazione dell'incolumità territoriale, erano, comunque potessero faziosamente interpretarla i critici malevoli, stranieri e italiani, della politica degasperiana, la premessa e l'irrinunciabile precondizione d'una situazione interna della Penisola in cui non allignassero i miasmi universalmente esiziali d'un'a//ra infezione nazionalfascista o totalitaria. Negoziare, quindi, per l'autonomia altoatesina, ma non rimuovere dal Brennero la frontiera della Repubblica. Negoziare con la Jugoslavia e con gli alleati per rimuovere l'assurdo logico e storico del cosiddetto (e non libero, ma soffocato e soffocante) Territorio libero di Trieste. Negoziare con chiunque, ma sempre in condizioni di leale parità, mirando sempre all'interesse comune, cioè all'ampliamento dell'area della libertà eu- ropea, anziché all'ampliamento territoriale d'un impero, d'una ideologia o di un sistema. Uomo di libertà e uomo di religione, De Gasperi trovava i suoi pari, i suoi amici più veri, in uomini di libertà e di religione, quand'anche lontanissimi dalle sue ferme premesse confessionali. Cattolico osservantissimo, per due volte artefice e leader d'un partito cattolico, non fu mai né uomo di Chiesa né uomo di parte. Rivendicò la dignità e laicità del¬ la Repubblica italiana, anche di contro al Pontefice, con un rigore di accenti che allo Spadolini parvero giustamente « ricasoliani ». Volle capo provvisorio dello Stato e primo suo presidente De Nicola ed Einaudi. Volle, anche dopo il trionfo « totalitario » del suo partito alle elezioni del 18 aprile 1948, presiedere sempre e soltanto governi di coalizione democratica, insegnando ai democristiani la collaborazione con liberali e socialisti. Ebbe care le personalità più diverse, le sentì vicine e fraterne: l'anti-cattolico Croce e l'ebreo Leon Blum, il laborista e puritano Sir Stafford Cripps, il protestante e popolano Beviti, il romagnolo mangiapreti Pietro Nenni, del quale conosceva il gran cuore, la profonda bontà e umanità (fin dai giorni del comune asilo in Laterano, durante l'occupazione tedesca di Roma). Quando gli chiesero se vedesse alcuna differenza politica fra Nenni e Togliatti, ed erano i giorni del « fronte popolare », della campagna « unitaria » contro il Piano Marshall e il Patto Atlantico, contro l'occidentalizzazione dell'America e l'europeizzazione dell'Italia, De Gasperi, con la sua disarmante semplicità, od apparente semplicità, rispose lapidario: «Nenni ha cuore; l'altro al posto del cuore ha un sasso ». Il cuore, dunque, l'immediatezza del sentire, la fede contro i tatticismi di parte o di frazione o di tendenze. E governò, infatti, il suo partito senza tatticismi, correnti o tendenze; lasciandosene, anzi, travolgere, nella sua superiore severità ed onestà, quando apparvero e prevalsero, a detrimento della « credibilità » non pur d'un partito, ma d'una intera politica, e classe politica, italiana. La sua « credibilità » fu la sola, e vera, sua forza. Fin da quando si presentò, profeta disarmato, ai convegni inter-alleati di Lancaster House nel settembre del 1945 o del Lussemburgo nell'agosto del 1946. « Fuor che la vostra personale cortesia, tutto è contro di me... »: benché nessuno, tranne l'americano Byrnes, avesse poi il coraggio, dopo il discorso, di stringergli pubblicamente la mano. Eppure, il tono stesso della voce, la fermezza virile, spesso velata dalla commozione e talvolta da un senso di immeritata ed incolpevole vergogna, incutevano rispetto, incidevano sull'animo dell'ascoltatore, conquidevano. E non sol tanto i politici. Se v'era un paese dove il cattolico De Gasperi pareva non dovesse riuscir popolare, quest'era- l'Inghilterra: tanto l'Inghilterra del governo laborista di Attlee, Bevin e Cripps, quanto l'Inghilterra dell'opposizione conservatrice, che aveva, con Churchill e Eden, già deciso, fra Yalta e Potsdam, i termini territoriali punitivi da imporre all'Italia e la bipartizione europea. Ma non credo che in nessun paese, neanche nell'America di Truman o nella Francia di Schumann, prima che sorgesse o risorgesse la Germania di Adenauer, De Gasperi sia stato così popolare come oltre Manica. E a lui, solo fra i politici e i « non intellettuali » italiani, l'Inghilterra concesse l'onore della laurea ad Oxford. Al termine della giornata di Oxford lo vedemmo singolarmente inquieto e commosso. Avvertiva, forse, che quell'unicum, nel mentre lo consacrava alla storia, segnava tuttavia l'acme della sua carriera, politica e meta-politica? Era salito troppo in alto, si era avanzato tropp'oltre? Troppo più che non potessero capirlo e seguirlo i suoi compagni, i suoi concittadini, i suoi elettori? Questo fu, storicamente, il destino di De Gasperi. Come la storia degli ultimi vent'anni ha comprovato la futilità medesima dell'odio con cui Io perseguirono i comunisti in fregola di nazionalismo anti-italiano ed anti-europeo. Ma odio in se medesimo giustifìcatissimo, perché l'avversario era inconciliabile, religiosamente irriducibile: ed era stato fra i primi ad avvertire l'antitesi fra comunismo e libertà, l'incompatibilità, pertanto, nella dimidiata Europa del dopoguerra, fra comunismo ed Europa. Ci abbiano o non ci abbiano pensato i suoi ospiti e colleghi di Oxford, v'era perciò un motivo profondo, non meramente di cortesia o di apprezzamento, per questa laurea ad honorem. L'avevano concessa anche a un altro politico, ma loro concittadino, questi, e allievo di quell'Università, e letterato e dotto quanto e più che meramente politico. Ma nell'offrirla al Gladstone, e il Gladstone nell'accettarla, si era coniata la formula del Christian statesman. E questa formula ben si attaglia a De Gasperi, il quale giustamente se ne compiacque, o se ne sarebbe potuto compiacere, vi avesse nella sua non mai smentita modestia anche solo pensato. Perché in questo riconoscimento di lui e della sua grandezza concordavano, e concordano tuttavia, quanti, non partecipi né della sua fede né della sua parte, egli salutò ed ebbe collaboratori in un'opera « cristiana », cioè di umana e italiana civiltà. Non istupisce perciò che vent'anni di silenzio ci separino da quelle vette... Pietro Treves Alcide De Gasperi