I grappoli dell'ira

I grappoli dell'ira FRA GLI UNIVERSITARI DI CALIFORNIA I grappoli dell'ira A Berkeley, dove s'accese la fiaccola della contestazione, i militanti si battono a favore dei lavoratori dell'uva - Adesso sono rimasti in pochi: "In autunno, dicono, ricominceremo con Watergate e il Cambogia" (Dal nostro inviato speciale) Berkeley, Calif., 18 agosto. Sono andato a Berkeley una mattina verso le 10, nel campus c'erano pochi studenti, camminavano in fretta, a piccoli gruppi. Ora ci sono i corsi estivi, frequentati da pochi universitari, la grande massa arriverà verso l'autunno. Ma all'Associazione degli studenti i capi sono in piena attività, organizzano per mezzogiorno una manifestazione a favore dei lavoratori dell'uva. Con il segretario dell'Associazione giro per il campus, lui porta i volantini ai militanti che li distribuiscono agli ingressi, e mi spiega di che si tratta. Gli studenti fanno la ma¬ nifestazione per boicottare il più grosso produttore di vini della California, appoggiare i lavoratori chicanos di Caesar Chavez e impedire che cadano sotto il controllo del sindacato trasporti, che fa capo a Hoffa, anni fa processato e condannato. Il sindacato di Chavez ha obiettivi politici: tutela i lavoratori di origine messicana, denuncia gli effetti degli anticrittogamici sulla salute degli operai. Gli studenti dicono che bisogna boicottare il vino per evitare il completo dominio, nella zona, di un sindacato corporativo e compromesso con i produttori. La tecnica fu già collaudata qui: il boicottaggio dell'uva da tavola durò due anni per ragioni analoghe. « In questo momento è un problema molto sentito. Adesso c'è poca gente, ma in autunno faremo grandi manifestazioni, per Watergate o per il Cambogia se riprenderanno i bombardamenti » dice una studentessa che distribuisce volantini. Viene dal New Mexico, ha fatto per anni la raccoglitrice di cotone, ha tre figli, adesso studia legge. Ammette che anche a Berkeley gli studenti impegnati nel lavoro politico sono piccoli gruppi, gli altri sembrano disinteressati. Alcuni dicono che l'insuccesso elettorale di McGovern, un anno fa, ha dato l'ultimo colpo alle speranze dei giovani, altri parlano del Vietnam. « E' stata una dura esperienza per tutti — dice un insegnante —, la prima guerra non vinta dall'America, da qualunque lato si voglia vederla. Ma per i giovani è venuto meno un grande motivo di mobilitazione: la protesta contro le bombe, la denuncia degli errori, le accuse al governo, i corrisi pacifisti, la distruzione delle cartoline precetto, la disobbedienza civile. Inoltre, l'università era anche un modo per rinviare il servizio militare, in un certo senso per opporsi alla guerra. Ora è finita, e cominciano già a diminuire gli iscritti ». Berkeley, da dove partì la prima fiammata contestativa, conserva ancora antichi fermenti, malgrado l'estate e le indifferenze. A mezzogiorno comincia la manifestazione con un breve atto unico, letto al microfono da tre ragazzi, sulla condizione dei lavoratori dell'uva, nello stile del teatro di guerriglia. Poi parlano uno studente e un dirigente del sindacato di Chavez, infine Elaine Brown e Bobby Seale, due esponenti delle « Pantere nere ». Seale mesi fa si presentò candidato all'elezione di sindaco nella vicina Oakland, ma ottenne solo 45 mila voti e fu sconfitto. Davanti a lui si riuniscono circa trecento studenti, ascoltano tranquilli, ogni tanto applaudono. C'è chi arriva su vecchie biciclette da corsa, qualcuno fa colazione in piedi, con un vassoio di cartone in mano. Attivisti girano tra i gruppi vendendo giornali, intorno a una vasca giocano bambini biondi e neri. Bobby Seale incita dal microfono, «Boycott», e racconta che da ragazzo si ribellò a suo padre che lo sfruttava mandando lui e le sorelle a lavorare sema pagarli. Così organizzò in famiglia il primo sciopero. Ha i toni taglienti e aggressivi di un tribuno che spinge alla lotta, ma l'uditorio, sotto il sole alto, non vibra; sembra convinto, d'accordo. Il leader delle Pantere nere parla dalla gradinata della Sproul Hall, lo stesso punto da cui il 2 dicembre 1964 Mario Savio, studente di filosofia, incitò alcune migliaia di giovani ad occupare l'Università per ottenere V diritto dì fare attività politica nel campus. La polizia irruppe e arrestò centinaia di studenti. Fu l'inizio di una lunga storia di lotte che da Berkeley innescarono la rivolta nelle altre Università, in America e in Europa. Il bersaglio ricorrente della protesta era la guerra. I leaders dei movimenti studenteschi dicevano: non vogliamo che le Università siano «fabbriche della conoscenza» che alimentano le «fàbbriche della guerra»; e chiedevano la fine dei rapporti con istituti che lavoravano per il Pentagono. Molti insegnanti si associarono sostenendo che i frutti della ricerca scientifica non dovevano servire per la distruzione. Nel 1967 ad Harvard il ministro della Difesa McNamara fu fischiato e costretto a lasciare l'Università. Non era solo protesta, ribellismo, guerra a un sistema definito repressivo e follemente consumistico. Lo slogan «Vogliamo il mondo e lo vogliamo subito » apparso in tutte le lingue del «maggio mondiale», alla Columbia e alla Sorbona, alla Freie UniversitUt di Berlino e alla Normale dì Pisa, a Tokio e a Città del Messico, era solo il grido di battaglia, l'oriflamma da sventolare nel campus. C'era anche un sentimento nascosto, la consapevolezza di essere i protagonisti del futuro sviluppo scientifico e tecnologico di un Paese ricchissimo, l'intelligenza dell'n industria del sapere », perfino quantificata in una cospicua percentuale del prodotto nazionale lordo. Gli studenti delle Università americane, a cominciare da Berkeley, avevano a disposizione mezzi rilevanti, ingenti fondi per i sussidi audiovisivi e la ricerca, un rapporto allievi - insegnanti da uno a dieci. Anche questo sentimento, al limite aristocratico, era una componente delia ribellione, una molla per la richiesta di uno student power che contrattasse con gli altri poteri la gestione non solo delle Università e del sapere, ma di tutta la società. E lo scontro avvenne con questa società, non disposta a tale contrattazione in un clima dì rivolta, non aperta ancora a tutte le prospettive della partecipatory democracy. Oggi è difficile scoprire che cosa è rimasto sotto la cenere di quei fuochi di guerra. A Berkeley, dieci anni dopo, c'è chi dice « In autunno ricominceremo ». Questo, o un altro autunno? Forse non si tratta di sapere se ci saranno nuove esplosioni; è più interessante vedere che cosa è cambiato nella società americana dopo quelle rivolte. Senza dubbio la grande maggioranza dei giovani è rientrata nell'alveo, ma con uno spirito diverso. Molti hanno fatto l'autocritica, si sono resi conto che accendere una rivoluzione nei campus non^gnificajcambìare la società che sta fuori; che la realtà non coincide con i desideri, e il « sistema », dichiarato moribondo più volte, ha molteplici capacità di ricupero. Sarebbe tuttavia semplicistico ignorare che quelle spinte confuse hanno provocato atteggiamenti nuovi nella coscienza del Paese per quanto riguarda la guerra, i diritti civili, le minoranze. Spesso questi giovani hanno oggi un modo più semplice e essenziale di vita, rappresentano uno strato lucido e consapevole dell'America, anche grazie alla traversata del disagevole pianeta delia contestazione. In un momento di forti crisi e tensioni, sembra di capire che i giovani non vedono uomini-guida. I profeti degli «anni brucianti» sono lontani. Pochi parlano di Marcuse e di Goodman, i manifesti di Guevara sono ripiegati, Debray ha ritrattato, i testi di Camus e di Fanon sono ridiventati strumenti di studio, non più armi di battaglia. Resta il prestigio di uno studioso come Noam Chomsky, che scrive su giornali « d'alternativa » per pochi cents la riga, come i più oscuri collaboratori. Anche i loro uomini politici sono scomparsi, uccisi come i Kennedy o stritolati dalle macchine elettorali come Eugene McCarthy, il poeta, e George McGovern, candidato dei diciottenni, dei pacifisti, della gente di colore. Gli esperti elettorali dìcono che, ad ogni stagione, l'America scopre i suoi leaders, carichi di potere suggestivo e carismatico. Ma si affaccia un'altra ipotesi: che questi giovani non cerchino uomini-guida, ma idee-guida. Roberto Franchini Berkeley. Distribuzione di giornali all'ingresso dell'Università (Foto Grazia Neri)