Perché può capitare a chi va in bicicletta dì finire esausto sopra nn carro di fieno di Francesco Fornari

Perché può capitare a chi va in bicicletta dì finire esausto sopra nn carro di fieno Torino-Rimini, senza fretta, impiegando il tempo che occorre Perché può capitare a chi va in bicicletta dì finire esausto sopra nn carro di fieno Basta fare i conti senza badare troppo alle nostre forze - Ma non sempre si trova un contadino disposto a "ospitare" gli imprudenti - Una serie di avventure e di scoperte da Salice Terme a Sassuolo - Esiste ancora il ballo "campagnolo" all'aperto dove servono acqua e menta - Visita alla più vecchia fabbrica di fisarmoniche a Stradella - Come si diventa mungitore di mucche - A Langhirano, paese celebre in tutto il mondo per i suoi prosciutti (Dal nostro inviato speciale) Sassuolo, 9 agosto. Martedì all'alba ripartiamo da Salice Terme. Risaliamo in sella abbastanza fiduciosi: il giorno di riposo ha giovato al fisico e al morale. Siamo ottimisti: Rimini non ci sembra più quella meta irraggiungibile del primo giorno di viaggio. La nostra bella sicurezza riceve un primo, fiero colpo mentre consultiamo la carta stradale per decidere l'itinerario della giornata. E' una carta del Touring, di quelle automobilistiche in scala 1:200.000, dove c'è segnato tutto, o quasi, quello che può servire a chi si mette in viaggio per l'Italia. Ebbene, su questa carta Rimind non c'è. Mi spiego: non è stata dimenticata dal cartografo, semplicemente fa parte di un altro settore, di un'altra carta geografica. Per comodità, l'Italia è stata divisa in vari spicchi, Rimini è ancora cosi lontana da noi che non figura sulla carta che stiamo consultando. Il ballo Tentiamo un conto dei chilometri che ci separano dall'Adriatico, ma dopo i primi 200 preferiamo fermarci. Sarà quel che sarà, meglio non pensarci. A Salice abbiamo goduto di un'intera giornata di riposo. Ed abbiamo fatto cose che non facevamo da tempo. Anche questo è merito della bicicletta. Moisio, per esempio, ha rotto un incantesimo che durava da tre anni ed è andato a vedere un film. Io, invece, ho scoperto il ballo « campagnolo », di quelli in voga nelle nostre campagne ancora nell'immediato dopoguerra. Allora ero bambino e non potevo andarci, poi ho preferito le più sofisticate discoteche, i nights fumosi. In un ballo all'aperto non avevo mai messo piede. Così ho fatto questa nuova esperienza. All'ingresso mi hanno dato un biglietto azzurro, con stampigliata la dicitura « ballo uomo ». Per averlo ho pagato 1500 lire e mi sono acquistato il diritto ad entrare. Una pista di legno che cigolava sotto i piedi dei ballerini, sedie e tavolini tutto intorno, un'orchestrina che faceva un gran baccano, una cantante che gridava a squarciagola. Camerieri, col fiocco di traverso sotto il colletto sgualcito della camicia, portavano in giro bicchieroni colmi di un liquido verdastro. Acqua e menta, una specie di bibita ufficiale visto che la bevevano quasi tutti. I più sofisticati ordinavano del lambnisco, ad un tavolo ho visto sturare una bottiglia di spumante. L'orchestrina aveva il suo repertorio: valzer, polche, mazurke e tanghi. Ogni tanto il direttore annunciava al pubblico che era il tempo del «riposino», i suonatori riponevano gli strumenti e andavano di corsa al bar. Shake ed altri balli moderni venivano eseguiti soltanto « a gentile richiesta », ma sempre a ritmo di mazurka o qualcosa del genere. La pista era affollata: coppie di giovani, signori di mezza età, signori che la mezza età l'avevano già passata da un pezzo, ragazze sole che ballavano allacciate fra loro seguite dagli sguardi carichi di cupidigia dei giovanotti soli che stazionavano nei pressi e si spostavano nei punti strategici per essere visti e poter vedere. Sto proprio ripensando a questi avvenimenti quando accade l'incidente. Siamo nei pressi di Montebello della Battaglia, la strada è in leggera salita, pigio sui pedali per raggiungere Moisio che si sta involando e mi blocco. Per qualche misterioso motivo la ruota posteriore della mia bicicletta si è spostata di lato, finendo contro la forcella. La nuova posizione deve piacerle, perché non c'è più verso di smuoverla. Lotto con la catena, il « galletto » che ferma il mozzo e non vuole aprirsi, i raggi tra i quali finisco sempre con l'incastrare le dita. Per fortuna arrivano i salvatori: un gruppo di ragazzi in bicicletta, preceduti da un signore non più giovane. fisarmoniche Sono «allievi» della Polisportiva Padana che si stanno allenando: Franco Gandino, 47 anni, l'accompagnatore, li porta ogni giorno a fare «passeggiate» di circa 100 chilometri «Così si fanno le gambe », mi spiega mentre con estrema facilità e senza fatica alcuna rimette a posto la ruota della bicicletta. Fra i ragazzi, tutti di 17, 18 anni, c'è un campione in erba. Secondo Volpi. « L'anno scorso — dice Gandino con voce che vibra d'orgoglio — ha vinto sette gare ». Si offrono di accompagnarci per un tratto di strada. Accettiamo con piacere, ma non se ne fa nulla. Per loro un'andatura è turistica quando si pedala a 30 chilometri all'ora. Noi forse andiamo alla metà, così dopo pochi chilometri ci salutiamo. Si chinano sui manubri, aumentano il ritmo della pedalata e si allontanano in un battibaleno. Arriviamo a Stradella, la patria delle fisarmoniche. Visitiamo la più antica fabbrica di questo popolare strumento, quella del dr. Amleto Dallapè. Il titolare è assente, ci accoglie il capofabbrica, tecnico, collaudatore e suonatore dilettante Vittorio Coralli, di 50 anni. Un grande stanzone odoroso di legno e colla dove pochi operai lavorano seguendo una tecnica secolare. In trenta costruiscono una fisarmonica al giorno. « Il nostro è ancora un lavoro artigianale », spiega Coralli. Mi fa vedere come vengono montate le « voci »: un lavoro di precisione, ci vuole una pazienza da certosino per incollare tutte quelle sottili lamelle d'acciaio, ognuna sagomata in maniera diversa, differenze invisibili a occhio nudo, siamo nella scala dei valori millimetrici, per ottenere le varie tonalità. In un ufficio è conservata la prima fisarmonica prodotta dalla ditta. « L'ha costruita il cav. Mariano, nonno del padrone, nel 1876 ». Era un suonatore ambulante, l'idea di fare ur fisarmonica gli era stata suggerita dall'organetto che si portava appresso di fiera in fiera. Ha pensato di fare uno strumento più maneggevole ed è nata questa fi¬ sarmonica « semitonata », dove i bottoni dei tasti erano stati ricavati dal fondo dei cucchiaini d'alpacca. Accanto a questa antenata, fa bella mostra di sé una «borgafìsa», la più grossa fisarmonica prodotta nel mondo, una specie di organo portatile il cui costo supera il milione. Da Stradella ripartiamo in direzione di Piacenza. La stra- da è un continuo saliscendi che ci spezza le gambe. Tiriamo avanti con i denti, forse perché nessuno di noi due vuol essere il primo a cedere. Questo antagonismo che è sorto fra Moisio e me, ci spinge a fare sforzi che non ci saremmo mai creduti in grado di sopportare. In auto, per esempio, è facile quando qualcuno ti sorpassa spingere a fondo sull'acceleratore per andare a riprenderlo e dimostrargli « che il più bravo sono io ». In bicicletta, invece, è diverso. Se uno aumenta l'andatura, l'altro per stargli dietro deve mettercela tutta. Ma nessuno di noi si sognerebbe di dire all'avventuroso compagno, che sembra aver scoperto in sé l'insospettabiìe qualità di velocista, di andare più piano. La "cotta,, Così, su queste salitelle che ci portano a Piacenza, Moisio ed io finiamo col darci battaglia, senza esserci dichiarati guerra, cercando di fare uno meglio dell'altro. Quando passa lui a « tirare » pigia sui pedali come un dannato e affronta le salite come fossero discese. Quand'è il mio turno, con studiata indifferenza cambio rapporto e metto su quello più grande, che sviluppa una pedalata poderosa, e filo via. Va da sé che questo giochetto non può durare a lungo: dopo una ventina di chilometri ci ritroviamo seduti sull'erba sotto un albero senza fiato e abbastanza vergognosi di questa nostra bravata. Dopo Piacenza decidiamo di abbandonare la statale, monotona e insicura per il gran traffico di auto e camion, e ci avventuriamo sulle colline alla ricerca di nuovi paesaggi. L'intenzione è ammirevole e degna d'encomio, ma abbiamo fatto i conti senza badare troppo alle nostre forze. Così, superato Castell'Arquato, sulla salita che porta a Vernasca dobbiamo fermarci. E' inutile negarlo: si tratta della famosa « cotta ». Le gambe pesano una tonnellata, il cuore sembra impazzito, la mente è appannata dalla fatica. E' un momento difficile: vien voglia di buttare le biciclette alle ortiche e piantare lì tutto. Ci rendiamo conto che è colpa nostra, che abbiamo voluto strafare e questo fa ancor più rabbia. Troppo tardi abbiamo compreso che in bicicletta la vita acquista un ritmo diverso, più pacato, tranquillo. Per fortuna lo scoraggiamento passa e, sia pure con riluttanza, visto che non riusciamo ad andare avanti, decidiamo di tornare indietro e proseguire lungo la statale. La nostra vergognosa ritirata viene fermata sul nascere dall'arrivo di un trattore che traina un carro pieno di fieno. L'anziano contadino, che divide lo scomodo sellino di guida con la moglie, accetta di caricarci. Così issiamo le biciclette sul fieno, ci arrampichiamo a nostra volta e si riparte. Che sollievo starsene sdraiati nel fieno odoroso tagliato di fresco, cullati dal dondolio del carro che avanza lentamente, ogni giro di ruota ritmato dal pulsare del motore. Uccellini volteggiano sulle nostre teste: i più coraggiosi si avventurano rapidi sul fieno, becchetta¬ no qualcosa e se ne vanno sbattendo le ali. Alla fine anche i più timidi superano la diffidenza provocata dalla nostra presenza e si posano sul carro. In questo modo raggiungiamo Vigoleno, dove pranziamo nella taverna del castello. Per guadagnare il tempo perduto, rinunciamo al riposo e partiamo subito dopo, sotto il solleone. Adesso non ci sono più difficoltà: la strada è in discesa, scendiamo veloci sotto il sole a picco, cercando di sfruttare l'ombra degli alberi, immobili in questo afoso pomeriggio d'estate, dove anche l'aria pare essersi fermata e non si muove neppure una foglia. La strada è deserta, l'asfalto è reso molle dal calore, lontano si sente ogni tanto l'abbaiare di un cane, nei campi vediamo gli aratri abbandonati, i contadini sono chiusi nelle cascine, usciranno più tardi, quando il sole volgerà al tramonto e lavoreranno fino a notte, sfruttando l'ultimo raggio di luce. Attanagliati dall'arsura, verso le sedici ci fermiamo in una cascina della frazione Scipione Bocca. Sull'aia ci vengono incontro anatre e galline, tre bambini sbucano dal fienile e ci guardano incuriositi, sulla porta si affaccia una donna e ci offre un secchio d'acqua del pozzo fresca, limpida, così diversa da quella che siamo abituati a bere in città. Quest'acqua ha un buon sapore, un sapore di cose antiche, di ricordi dimenticati, di anni che non tornano più. Mentre beviamo, dalla stalla esce un contadino con un secchio di latte. Scopro che le mucche sono animali abitudinari: guai se si lascia passare l'ora della mungitura, si mettono subito a protestare muggendo tutte insieme e non smettono fino a quando non vedono arrivare il padrone col secchio. Sono anche animali rispettosi, nessuna mucca si sognerebbe mai di passare prima dell'altra: ognuna rispetta il proprio turno, se qualche volta il contadino fa dei cambiamenti ci rimangono male. Prosciutti Tutte queste cose mi vengono spiegate dal fattore, Sergio Botti, mentre va avanti con la mungitura. Imparo che ogni mucca mangia circa 120 chili di fieno fresco al giorno oppure 40 di fieno secco, inoltre bisogna anche darle 5 chili di mangime. In media una mucca produca 40, 45 quintali di latte all'anno, un po' più di dieci litri al giorno. Ma ci sono anche quelle («come la Umberta, vede che mammelle grosse ha»), che a ogni mungitura danno 20 litri di latte caldo. Il fattore mi invita a mungere una delle mucche. Non l'ho mai fatto prima e confesso di aver accettato con riluttanza. Ma ero curioso e poi c'erano i figli dei conta dini che mi guardavano e bisbigliavano fra loro. Sono sicuro che si dicevano l'un l'altro che avevo paura. Così mi sono ficcato in testa un cappellaccio (è essenziale averne uno perché bisogna appoggiare la testa sul fianco della mucca e premere forte), mi sono seduto sullo sgabello e, seguendo i consigli che mi venivano dati (.«afferri i capezzoli con le mani, pieghi la prima falange del pollice e prema verso l'alto»), ho incominciato. Sulle prime la mucca non sembrava per niente soddisfatta, girava la testa indietro per guardarmi, si spostava di continuo sulle gambe, sferzava l'aria (e anche me) con violenti colpi di coda. Poi si è rassegnata, complice anche il fattore che le ha dato una dose supplementare di mangime per farla star cheta, ed io ho potuto mungerla. E' sera inoltrata quando entriamo in Parma. Per la prima volta mettiamo in funzione i fanalini delle biciclette alimentati da una dinamo che si carica mediante una rotellina zigrinata che gira sfregando contro l'esterno della ruota anteriore. Il tutto viene azionato da noi, dalle nostre pedalate. La bicicletta, insomma, insegna ad essere autosufficienti. Mercoledì ci alziamo piuttosto tardi: quella del giorno prima è stata una tappa dura, circa 116 chilometri, un record per gente come noi. La prossima sarà invece una marcia di trasferimento: meno di sessanta chilometri lungo la Pedemontana, verso Sassuolo. Facciamo una deviazione per raggiungere Langhirano, celebre nel mondo per i suoi prosciutti. Ci sono oltre settantacinque stabilimenti per l'essiccamento e la produzione di questi prelibati cosciotti di maiale. Con l'aiuto di un cantoniere che « conosce tutti », riusciamo a scovare una vecchia cascina dove i prosciutti vengono ancora lavorati alla maniera di 100 anni fa. « Diventano buoni perché invecchiano al sole e all'aria, senza ricorrere a nessuna macchina, nessun artificio », spiega il figlio del padrone, Walter Boni. Producono circa 6000 prosciutti all'anno, occorrono 12 mesi perché un prosciutto diventi stagionato e pronto all'uso. Qui li vendono ai grossisti a 2100 lire al chilo, nei negozi si pagano 2800 lire. A Torino, mi pare di ricordare, un etto di prosciutto di Parma si paga anche 650 lire. Il suo prezzo si triplica durante il viaggio dal produttore al consumatore. Con questa amara riflessione, riprendiamo a pedalare: la nostra fatica si conclude a Sassuolo, dove oggi facciamo una giornata di riposo. Francesco Fornari , , a o i Breve sosta per bere e recuperare le forze, dopo la fatica di Castell'Arquato (Moisio)