Ruffini, buon maestro

Ruffini, buon maestro DAL TACCUINO DELLA MEMORIA Ruffini, buon maestro Quasi per dovere d'ufficio, quest'anno « manzoniano » mi riconduce, o restituisce, a Francesco Ruffini. Tolgo dallo scaffale i due vecchi volumi laterziani della Vita religiosa di Alessandro Manzoni e comincio a rileggerli. Tutto è cògnito e antico, per me: non fosse il fascino rinnovato e perpetuamente rinnovantesi della lettura. M'incanta (fortunatamente) ancora il rigore, e il nitore, di questa prosa: classica, alquanto aulica ed antiquata, magari, tanto più ammirabile in lui piemontese, felicemente immune da quelle cadute, da quelle libertà (i nostri vecchi e i manuali scolastici tuttavia le chiamano « solecismi ») in cui sovente precipitano i piemontesi, tra dialettismi, francesismi, studiate « cruscherie » ottocentesche o non meno studiate imitazioni e scioltezze manzoniane. Il manzoniano Come sia divenuto lo scrittore che fu, e che resterà, non saprei dire. Probabilmente, lui canavesano d'industre e non doviziosa famiglia, precocemente orfano, si è fatto sui libri, sulle buone letture dei nostri classici, a cominciar dai Promessi Sposi, il cui autore era l'idolo di sua madre. Certo, quant'egli ha scritto, di prosa storica o storico-oratoria, e sulla nostra storia, soprattutto dell'Ottocento, dal Cavour al Manzoni, rimane stilisticamente, e vorrei sperare di poter aggiungere: storiograficamente, esemplare. Eppure, debbo interrompere la rinnovata lettura, a ogni tratto. L'occhio segue attento le fitte pagine, eleganti sempre, ma sempre austere e severe. Il cuore se ne allontana; e l'onda dei ricordi, l'affollarsi delle immagini e delle memorie, finiscono a prevalere. Oltre la pagina, rivedo l'uomo, il suo ambiente, la sua scuola torinese, l'Italia liberale, l'Italia civile (com'ebbe a chiamarla il suo discepolo Norberto Bobbio): con le sue debolezze e cedevolezze bensì, ma anche con la sua fierezza, la sua tenacia, la sua resistenza. Né solamente al fascismo. Spero, tuttavia, non riesca difficile, anche a chi non lo abbia veduto o conosciuto mai (si è spento al Mauriziano di Torino il marzo del '35 — e il tempo immemore seppellisce ormai non solo i morti, ma i vivi...), ritrovare l'autore alla mera lettura delle sue pagine. Com'è, infatti, ornata e semplice, o semplicemente elegante, la pagina, così era l'uomo. Si cambiava, passando dall'abito chiaro all'abito scuro, da pome¬ riggio, per venire a lezione, che faceva appunto di pomeriggio. Saliva lento, ma sicuro di sé, conscio o inconscio che fosse della propria, anche fisica, autorevolezza e imponenza, i gradini della cattedra a pùlpito. Posava entro o accanto al cappello duro i guanti, deponeva la mazza, si ravviava la barba con la mano. Iniziava ogni lezione così, con questa specie di cerimoniale o di galateo, come per dare anche al più sprovveduto matricolino il senso del rispetto (quasi direi, della sacertà) del compito cui si accingeva, e cui chiamava cooperatori i discepoli. Un uomo all'antica, dicevano già negli Anni Venti. Un figlio del vecchio Piemonte, dissero e ripeterono molti, di lui vivo e morto, a cominciare dall'affettuoso e « impegnato » necrologio del Croce. Vero. Ma è anche vero che questo figlio del vecchio Piemonte sapeva adeguarsi ai tempi, al nuovo Piemonte dei giovani allievi, dei giovani e non giovani che convenissero nella sua mutevole Torino. Ricordo l'affetto che votò subito a Piero Gobetti; ricordo la quasi umile venerazione con cui ne proseguì la memoria dopo la immatura sua morte a Parigi. Ricordo la benevolenza comprensiva per discepoli non certo cresciuti nella sua tradizione liberale - sabauda, e ritmo ancora nella memoria le obiezioni e gli elogi suoi alla discussione della tesi del nostro compagno Garosci: la quale verteva su Jean Bodin lo, come usava dire l'eccellente francesista Ruffini, giusta l'antica tradizione dei nostri eruditi, il Bodino). Forse l'ultimo dei suoi giovani fu Leone Ginzburg, il quale al professore non giurato, pochi mesi dopo il rifiuto del giuramento fascistico, arrecava, in un articolo sulla Cultura del '32, l'omaggio postumo di Henri Bremond, illustre accademico di Francia, inarrivabile decifratore ed interprete d'anime religiose, il quale, pur professandosi a un tempo incompetente ed impersuaso, si diceva, tuttavia, colpito e ammirato della profondità e acutezza introspettiva con cui Ruffini aveva scandagliato l'esistenza, il travaglio cattolico-giansenistico, di Alessandro Manzoni. Ci parve, quindi, solo conforme al suo magisterio, al suo lavoro storico di scopritore o restauratore della spiritualità religiosa del liberalismo risorgimentale, il rifiuto di giuramento opposto al fascismo e da lui e dal suo figlio. Direi che un gesto siffatto l'aspettavamo da lui, come dal Martinetti i nostri compagni milanesi e dal De Sanctis, i nostri compagni torinesi e di Roma. Ci avrebbe, schiettamente, sorpreso il contrario: quand'anche l'impegno dei nostri Maestri ci paresse ovviamente vincolante anche per noi, e tosto l'attestarono, a tacer d'altri, Ginzburg, De Rosa e Garosci. Più, se mai, ci colpì e ci commosse il nongiuramento del suo figlio, che non aveva (come allora usava dire) né esperienza né responsabilità politica, pur essendo naturalmente anti-fascista (e buon difensore dell'antifascismo studentesco nell'Università di Gobetti e di Chabod). Ci colpì, in quanto attestava che il liberalismo, l'antifascismo liberal-risorgimentale erano,, dunque, consciamente od inconsciamente, divenuti, in casa Ruffini, un retaggio e un dovere domestico, una religione che non si poteva tradire, cui era necessità serbarsi fedeli, quali ne fossero il rischio ed il prezzo (e il prezzo, fra parentesi, che parve allora alla gente più alto e più amaro, e più difficile da pagare, era la rinunzia alla cattedra, alla carriera, alla vanità e agli onori: un misto, dunque, di paura che non si riusciva a vincere e di ambizione cui non si sapeva rinunziare). Di qui, per questa coerenza inflessibile dello studioso e del maestro, del politico e dello storico, del difensore a Palazzo Madama dei « diritti di libertà », quella che oggi si direbbe la « credibilità » di Francesco Ruffini. E la sua « credibilità » fu poi la sua forza, dinanzi ad amici e a nemici, a scolari devoti ed avversi, o magari pavidamente dimentichi e trànsfughi, i quali sentivano davanti a lui la propria inferiorità, la vergogna e il rimorso, avviandosi così, e quasi loro malgrado, ma per suo merito, verso il prossimo ravvedimento. Mentre la « credibilità » del Ruffini valeva, per lui e per noi, anche fuor dall'ambito politico, dall'antitesi, pur determinante e dirimente allora, tra fascismo ed anti-fascismo: valeva per la sua opera di scrittore come per la sua attività, e gli eventuali errori suoi, di politico. Uomo di Uberto Uomo di libertà e uomo di religione, senza che le due cose per lui differissero, almeno da quando aveva rivendicato il carattere non meramente politicodiplomatico, ma intrinsecamente religioso, del liberalismo cavouriano, della stessa formula apparentemente contraddittoria: « Libera Chiesa in libero Stato », è naturale che il Ruffini fosse nel '15 interventista e che alla guerra, pur capeggiata dall'assai chiuso ed ottuso Cadorna, subito desse un carattere «democratico», di cui restano memorabili capisaldi l'esaltazione del Battisti e la propaganda per il sionismo e per la Società delle Nazioni. Ed è naturale ch'egli generosamente credesse il Re, Cadorna e i suoi colleghi (ministri o parlamentari) pervasi della stessa sua fede « wilsoniana », mentre vigoreggiavano e si diffondevano, invece, i miasmi dell'autoritarismo, dell'autocrazia militare o in uniforme, con i risultati universalmente esiziali che non tardarono a manifestarsi. "Rifare l'Italia" Ebbene, il Ruffini, che pur si era acquistato, specialmente a Torino, fama immeritata di reazionario e di cadornista, fu tra i primi a riconoscere quanto di consapevolmente cavouriano e risorgimentale od universalmente italiano fosse nel programmatico discorso parlamentare di Filippo Turati, Rifare l'Italia (quasi, dunque, un ponte o un raccordo fra liberalismo e socialismo; od un riconoscimento del socialismo democratico quale inveramento del liberalismo risorgimentale). Né volle negare il suo voto, egli ch'era stato collega di governo col Sonnino, al Trattato di Rapallo, concluso da Sforza e Giolitti in antitesi consapevole alla cieca politica nazionalistica del Patto di Londra. I letterati, gli intellettuali in frégola di giovinezza, dal Vitelli al Del Lungo, votavano contro e si associavano ai dalmatòmani, ai presto venienti e vincenti fascisti. Ma il Ruffini, nella sua superiore saggezza e serenità, ricordava, invece, che Vittorio Veneto valeva, e imponeva, questa rinunzia territoriale, come l'unità liberal-cavouriana della Penisola aveva pur imposto il prezzo d'una simile rinunzia a Nizza e Savoia. Questo senso della continuità storica, quest'impegno morale di vivere nella storia e conforme alla tradizione etico-storica del nostro Paese, furono guida costante all'opera storiografica e all'esistenza di Francesco Ruffini. I suoi libri l'attestano — e perciò restano. E basteranno, io confido, a ricostruire, a conservare intatta ed inalterata, la serena e severa sua immagine: per quelli che non abbiano, come noi abbiamo avuto, il privilegio di vederlo e di conoscerlo; di ammirare, fatta in lui persona ed umana gentilezza, un'epoca intramontabile della nostra storia migliore. Piero Treves