Tra la baita e il robot

Tra la baita e il robot LUNGO VIAGGIO DENTRO IL PIEMONTE Tra la baita e il robot Nella regione piemontese i contrasti si presentano particolarmente numerosi e spettacolari: basta passare dai paesini semispopolati del Cuneese ai congegni avveniristici della Fiat Mirafiori - Sopravvive una "cultura" arcaica fatta di rassegnazione, di un'assurda concezione del dovere - Non è un marginale reperto etnologico: qui, su 1209 comuni, 677 sono "depressi" (Dal nostro inviato speciale) Cuneo, agosto. Due immagini emergono con insistenza dal materiale (appunti, interviste, documenti) che ho raccolto nel corso d'un lungo giro attraverso il Piemonte. La prima è quella d'una povera casa della Val di Stura dove sono stato a parlare con un contadino di 84 anni, Pietro Bagnis detto Pierotu. La seconda è quella d'una sezione dello stabilimento di Mirafiori, a Torino, dove ho visto i « robot » (diciotto congegni giallastri capaci di movimenti antropomorfici) lavorare alle carrozzerie d'una automobile di media cilindrata. Queste due ! immagini racchiudono, mi pare, un'«idea del Piemonte» piuttosto precisa. Non solo, infatti (come accade per altre regioni), il Piemonte accoglie nei suoi confini una realtà contraddittoria: ma è forse la regio¬ ne italiana meno omogenea, quella dove i contrasti si presentano più numerosi e spettacolari. La casupola della Val di Stura e i « robot » di Torino sono le due facce estreme di questo ventaglio di differenze, ed è da qui — dall'impasto di vecchio e nuovo di cui è fatto il Piemonte — che comincia la nostra inchiesta. La casa di Pietro Bagnis, a Pianche (frazione di Vinadio, provincia di Cuneo), è una delle pochissime ancora abitate in questo paesino di mezza montagna. Due stanze divise da una tenda, un focolare, un lavandino — niente servizi igienici —, e tre o quattro sedie attorno al tavolo. Sul focolare qualche recipiente ricavato da vecchie scatole di conserva, ai muri un paio di santi, una madonna e il decreto con cui Bagnis è stato fatto cavaliere di Vittorio Veneto (cinquemila li¬ re al mese da aggiungere alle ventiquattromila della pensione di coltivatore diretto). A Pianche sono giunto una mattina di domenica, accompagnato da Nuto Revelli che sta raccogliendo da tempo, per un suo libro, le testimonianze dei vecchi contadini del Cuneese. Pierotu Bagnis e la moglie Caterina Arnaudo (pure lei ottantaquattrenne) mostravano di possedere una memoria intatta, strabiliante. Minuti, i volti rugosi, le giunture sformate dall'artrite e dalla fatica, risposero per oltre un'ora alle domande che Revelli rivolgeva loro con fare affettuoso, nel dialetto della zona. Venivano fuori racconti d'un interesse straordinario, la storia di questa terra poverissima e della gente che la abitava e ancora vi abita. Dai tempi in cui i due vecchi si sposarono (una sessantina d'anni fa: quando i contadini di queste parti acquistavano, disse Caterina, soltanto due generi di consumo, il sale e il petrolio) sino al secondo dopoguerra quando la miseria spaccò la famiglia, costringendo i figli dei Bagnis ad emigrare in Francia. Decenni di fatiche avvilenti, di diete appena al limite della sopravvivenza («Un po' di polenta, un po' di formaggio, piselli selvatici conditi di solo sale... »), di malattie combattute coi mezzi delle società primitive. Pierotu raccontò la storia del topo. Doveva essere la fine del secolo scorso, e lui e sua sorella presero la tosse asinina. Così la nonna fece piazzare le trappole per i topi, e quando riuscirono ad assicurarsi un topo piuttosto grosso la nonna 10 mise a bollire in una pentola. Il brodo di ratto era 11 rimedio per la tosse asinina, e venne infatti dato da bere ai due bambini. Ma bevuto il decotto, allontanatasi la nonna, fratello e sorella si consultarono un momento e quindi decisero di mangiarsi il topo bollito. « Cosa vuole », sorrideva Caterina, « a quell'età si ha sempre fame... ». Tanta fame che il compenso del bambino buono, il prezzo d'una piccola fatica supplementare, erano le croste di pane che i vecchi sdentati non riuscivano a masticare e conservavano per elargirle ai ragazzi al momento opportuno. Per un attimo, ma solo per un attimo, l'impressione fu che questi due vecchi costituissero un reperto etnologico, i rari soggetti d'«un mondo che muore». Ma Pianche in provincia di Cuneo non è l'Amazzonia, Revelli e io non avevamo il casco coloniale sulla testa. La verità era un'altra: era che il Piemonte è fatto « anche », ancora oggi, di queste situazioni, che la sua realtà sociale non è tutta compresa nel panorama industriale, « avanzato », che si distende ai piedi dell'industria automobilistica torinese. Prima di tutto, infatti, i Bagnis non parlavano solo del passato, ma anche del presente. Il presente era la coperta che Caterina andò a prendere dal letto matrimoniale, una spessa, durissima coperta tessuta in casa mezzo secolo fa e ancora mai sostituita. Il presente era l'assenza, nella casa di Pianche, di un qualsiasi « oggetto » moderno, televisore, transistor o altro, i beni che ormai coesistono con le povertà più clamorose. Né, d'altra parte, la casa di Pianche e i due Bagnis possono essere considerati come una sopravvivenza eccezionale, marginalissìma. I comuni del Piemonte definiti « depressi » sono 677 su un totale di 1209, quelli montani sono 481 e in essi abitano ancora più di mezzo milione di persone. Moltissima gente fa la spola con la piana, dove lavora nelle industrie, molti sono gli addetti al commercio, al turismo, e conducono perciò una vita meno grama di quella d'una coppia di vecchi contadini. Ma le valli alpine restano piene di queste frazioni semidisabitate, dove qualche decina di migliaia di persone vanno avanti in condizioni non molto dissimili da quelle in cui vivevano trent'anni fa. Il punto, comunque, non è d'ordine quantitativo. Ciò che di più illuminante scaturiva dai racconti dei due Bagnis era un certo carattere piemontese (e in particolare cuneese), una mentalità, una «cultura». Il rapporto con la religione e la chiesa (l'unico giornale che entri nella casa di Pianche è quello della diocesi di Cuneo, La guida;, il senso della rassegnazione (mai, in un'ora di discorsi, Pierotu o la moglie ebbero una parola, un tono di protesta e di rivolta), l'abitudine all'obbedienza, un'assurda concezione del dovere. « Gente », mi dirà qualche giorno dopo — con una specie di tenera rabbia — Davide Lajolo, « che non ha mai contato la fatica. Capaci di lavorare sino a sedici, diciotto ore al giorno, nutrendosi di poco e senza mai un lamento. La domenica in chiesa, un giretto sul sagrato, e il pomeriggio di nuovo a lavorare. I più accaniti, irragionevoli risparmiatori che abbia mai conosciuto... ». « Individualisti », aggiunge Nuto Revelli, « chiusi alle novità, diffidenti. Sempre disposti all'obbe¬ dienza. Il figlio che obbedisce al padre, il padre alle autorità. Ancora un forte rispetto per il prete, ciò che spiega — insieme all'attaccamento per i brandelli di terra dove sgobbano l'intero giorno — i comportamenti politici. Un voto de che quasi non conosce erosioni da un quarto di secolo, la potenza nella provincia di Cuneo della Coldiretti ». A Pianche, nella casa dei Bagnis, questo « carattere » piemontese era parso per un momento, come ho detto, un residuo del passato, l'estremo sopravvivere d'una cultura in via d'estinzione. Ma prima in casa dello stesso Pierotu, poi girando nel resto del Cuneese, nell'Astigiano, nelle Lunghe, avrei capito che seppure attaccata sui fianchi dai nuovi modi di pensare, dai modelli urbani, dalla nausea della fatica, questa «cultura» è tutt'altro che agonizzante. Man mano mi imbattevo nelle prove della vitalità del « carattere piemontese »: Cuneo — città relativamente povera — in testa alle classifiche nazionali del risparmio, e soprattutto le migliaia di operai « part-time », i cuneesi, i langaroli, i novaresi che dopo le ore di fabbrica ricominciano a lavorarne altrettante sui campi. Un fenomeno di cui bisognerà riparlare. Era fatale che l'immagine di questo mondo immobile si accavallasse qualche giorno dopo, durante una visita allo stabilimento di Mirafiori, a quella dei « robot ». I « robot » li avevo immaginati più grandi, a misura d'uomo, come quelli che si vedevano anni fa nei film di fantascienza. Scoprivo invece che erano una specie di grosse testuggini, tozze dietro e un po' più allungate sul davanti: ma i movimenti delle loro estremità a pinza, a chele, lo scatto come capriccioso e però ordinato delle braccia, il ronzio sordo con cui eseguivano senza un errore (il «robot» può rompersi, sbagliare mai) il lavoro di saldatura, erano gli stessi che gli specialisti di trucchi dì Hollywood avevano inventato per i ferrigni marziani dei primi film ricavati da H. G. Wells. Era l'altra faccia del Piemonte: la tecnologia, l'organizzazione della grande industria, il tentativo (affrontato dieci anni dopo i primi discorsi degli industriali sulla necessità di rendere più « vivibile » la condizione operaia) di togliere al lavoro nelle fabbriche almeno una parte dei suoi connotati più pesanti. Una realtà diversa da quella delle fasce contadine, uno dei tanti contrasti che si offrono alla vista di chi osservi il PiemonI te. Perché il contrasto non era solo tra la baita e il « robot »: attorno, le schiere di operai di Mirafiori ricardavano che il contrasto è di « carattere ». Non la rassegnazione di Pietro Bagnis, non il suo senso del rispetto e dell'obbedienza, non il prete e la de. Appunto, un altro Piemonte. Sandro Viola Valli del Cuneese. La molatura della falce: una realtà estremamente varia, comunque remota dal Piemonte industriale (Foto Moisio)