Tutti guardano a Roma di Mario Salvatorelli

Tutti guardano a Roma L'ITALIA VERSO UN NUOVO MODELLO ECONOMICO Tutti guardano a Roma Sulla necessità d'una programmazione "che non si limiti a mettere un timbro sulle scelte altrui" concordano gl'imprenditori pubblici e privati L'esperienza ha insegnato che i problemi di fondo, dall'impiego della manodopera ai rifornimenti di petrolio, si possono risolvere soltanto con una politica economica globale - E' d'importanza decisiva un settore trascurato, la distribuzione: con le sue irrazionalità contribuisce all'inflazione (Dal nostro inviato speciale) Roma, agosto. Come una bambola russa, i grandi piani economici, di solito quinquennali, possono contenere programmi a più breve termine. Aperte tutte le bambole, nell'ultima si trova il piano annuale, che viene proposto e approvato parallelamente al bilancio dello Stato. E' logico, perché la programmazione, là dov'è stata adottata — ormai in quasi tutti i Paesi anche a economia di mercato — coincide con la direzione della politica economica e a sua volta quest'ultima non può muoversi indipendentemente dalle previsioni di entrata e di spesa della pubblica amministrasione. Su questa coincidenza tra programmazione e direzione della politica economica, mi dice Francesco Forte, non ci sono dubbi. Aggiunge: « Naturalmente la programmazione pub essere più o meno ampia, al limite può occuparsi solo di problemi congiunturali, ma nel mondo del 1973, in cui, per esempio, è considerato normale il controllo dei prezzi, la politica economica non può che essere programmata ». Ma occorre cambiare bersaglio: non più il tasso di crescita, ma lo sfruttamento dei mezzi a disposizione. Però si cambi pure il bersaglio, si seppellisca una volta per tutte il « feticcio » dell'aumento del prodotto nazionale fine a se stesso, per puntare sull'economia delle cose, sulla qualità anziché sulla quantità: occorreranno pur sempre gli strumenti per mettere in pratica i programmi fatti a tavolino. Abbiamo visto nel corso di questa inchiesta che in Italia, da quando sì è adottata la politica di piano, addirittura con legge dello Stato (ciò che si è rivelato, agli occhi di tutti, come un'assurdità), gli strumenti non hanno funzionato. Il Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) e il segretario per la programmazione si sono trovati disarmati per mancanza di poteri esecutivi adeguati, per il gioco degli equilibri politici, per i contropoteri rappresentati dalla stessa amministrazione pubblica, nel suo macchinoso, spesso volutamente lento, apparato ottocentesco. La Montedison « In molti casi — osserva Nino Novacco, direttore dell'Istituto per l'assistenza allo sviluppo del Mezzogiorno — la politica economica è stata indotta a mettere dei timbri, rotondi o quadrati, sulle scelte che l'imprenditoria italiana è venuta facendo ». I casi in cui si sono manifestate posizioni contrastanti, o si è avuta comunque una certa discussione, resa anche di pubblico dominio, come per la Montedison, sono stati pochi. In assenza di altri strumenti operativi più. generali ed efficienti, in questi ultimi anni il potere politico ha fatto sempre più affidamento sull'impresa pubblica, sulle società a partecipazio- ne statale. Novacco ne sottolinea la posizione del tutto particolare, di strumento e controparte al tempo stesso della politica economica, in un rapporto che lascia tutti insoddisfatti. L'impresa privata teme il crescente peso del «settore pubblico » in una situazione spesso di concorrenza « privilegiata ». Le forze politiche, pur facendovi ricorso, vedono il pericolo di uno « strumento » che si avvia a diventare talmente forte da condizionare alcune scelte della programmazione, se non lo stesso potere politico in generale. E' scontenta, infine, anche l'impresa pubblica, che si vede gravata di compiti che non sono suoi, né derivano da sue scelte autonome ed economiche. Di questa insoddisfazione dell'impresa pubblica si è fatto interprete lo stesso presidente dell'Iri, Giuseppe Petrilli, nel suo recente incontro annuale con la stampa. « Nato in una grave sii tuazione di crisi, come strumento di supplenza rispetto alla carente imprenditorialità del nostro sistema economico — ha detto Petrilli —, Tiri avverte oggi acutamente l'impossibilità di continuare a svilupparsi autonomamente, nell'ambito di una economia caratterizzata a un tempo da una congenita debolezza della struttura statale, da ricorrenti crisi dell'investimento privato e dal¬ la persistenza di tensioni anomale tra parti sociali ». Anche Francesco Forte, che oltre ad essere professore di economia è vicepresidente dell'Eni, sottolinea questi limiti operativi delle imprese pubbliche, strumenti della programmazione, ma non in grado da sole di portarla avanti e raggiungerne gli obiettivi. E mi indica, appunto, l'esempio della politica delle fonti di energia, di cui fino a qualche anno fa si diceva: se ne occupa l'Eni. Le incognite « Adesso — dice Forte — ci si rende conto che sta diventando un problema drammatico, che un'impresa pubblica da sola, anche se importante o più importante dell'Eni, non può risolvere ». La politica della energia spetta in larga misura al governo, perché coinvolge una serie di attività: dai porti alle raffinerie, dai metanodotti e oleodotti alle pompe di benzina, dall'ecologia ai rapporti con i Paesi esteri, produttori e consumatori di petrolio e gas naturale, sono attività e rapporti che devono essere pianificati su scala nazionale, perché ì singoli operatori non ne hanno i mezzi e rischiano di sbagliare. E' sotto gli occhi di tutti, purtroppo, la dimostrazione che non si tratta di un discorso accademico, ma che rischi e inadeguatezza di mezzi c'erano realmente. E altri esempi si 2>ossono fare: l'urbanistica, l'ecologia, i trasporti, a dimostrazione, come osserva Forte, di quanto fossero anacronistici i discorsi sulla non necessità della programmazione, e di quanto fosse e sia fuori della realtà chi sostiene che i piani vogliono domare tigri che sono solo di carta. Tra i problemi da risolvere pianificando si potrebbe mettere anche la distribuzione. Lo suggerisce il presidente della Confindustria, Renato Lombardi, del quale abbiamo già avuto occasione di dire che non solo riconosce la necessità della programmazione, ma afferma che oggi gl'industriali ne sono i più convinti assertori. « Se pensiamo — mi dice Lombardi — che il prodotto delle industrie va al consumo con un rincaro che è certamente in media del 100 per cento, se non superiore, si capisce la delusione dell'imprenditore che si sforza dalla mattina alla sera per contenere i suoi costi o ridurli del 3 o del 4 per cento, che sarebbe già un grosso risultato ». Non solo il suo sforzo viene inghiottito come una pagliuzza dalle sabbie mobili dei costi di distribuzione, ma questi, che incidono sui prezzi al consumo e sui bilanci familiari, ricadono sulle spalle dell'imprenditore sotto forma di n i e n i e l a e e i o i i e o | scatti delta contingenza, aumentando la tensione della spirale inflazionistica. Gli chiedo che cosa pensa della contrattazione programmata, se condivide la affermazione di Nino Novacco sulla «debolezza» del potere pubblico di fronte alle scelte delle imprese. Renato Lombardi preferisce capovolgere l'etichetta, in «programmazione contrattata », poi giudica diversamente anche il contenuto. Ne accetta il principio, che rientra in una pianificazione economica, riconosce anche che per raggiungere certi obiettivi ci siano impegni e sacrifici da sostenere, «contrattati» con adeguate contropartite. «Ma affinché siano accettabili, in una prospettiva d'interesse generale, di soluzione globale dei problemi della società italiana — dice Lombardi — le contropartite non devono essere gratuite, e tanto meno fonte di quelle rendite parassitarie, di cui si parla senza però definirle in termini economici ». Chi più forte? Secondo il presidente della Confindustria, gl'investimenti, la creazione di nuovi posti dì lavoro non sono un fatto gratuito, che si possa esigere in particolare dall'imprenditore privato, sul piano della socialità e responsabilità collettive. Quindi, sì alla programmazione contrattata, ma eliminando le posizioni di svantaggio (Lombardi non vede le imprese private in posizione di forza di fronte allo Stato) e procedendo a una revisione organica di tutto il sistema d'incentivi e agevolazioni: « sistema sorto in modo frammentario e disorganico, e del quale nessuno ha provato a calcolare il costo globale per la collettività, in confronto ai risultati ottenuti ». C'è un altro problema irrisolto dalla programmazione, in parte collegato con la riforma della distribuzione di cui ha fatto cenno Lombardi e che è forse prioritario, se si vuol costruire un nuovo modello economico, più solido nelle strutture e meno esposto ai venti della congiuntura, sia che soffino al di qua delle Alpi, sia che giungano d'oltreconfine. E' il problema che Giannino Parravicini, presidente del Mediocredito Centrale, consigliere del Cnel e membro del comitato tecnico-scientifico della programmazione, chiama « l'imponibile di mano d'opera ». « Il male dell'Italia — egli dice —, il male di sempre, non è solo quello di un'occupazione insoddisfacente, è quello di una falsa occupazione in molti settori: pubblica amministrazione, commercio, agricoltura, anche industria. In questi settori, soprattutto nei primi, abbiamo un fenomeno che ho già definito dell'imponibile di mano d'opera, che ci ricorda proprio i provvedimenti del periodo fascista, che imponevano lavoratori in eccesso all'agricoltura, allora la maggiore attività del Paese». Oggi, continua Parravicini, non ci sono imposizioni in questo senso; ma la stessa forza delle cose agisce in modo analogo. La ragione di una burocrazia pletorica e inefficiente sta in gran parte nel fatto che la pubblica amministrazione deve assorbire un flusso incessante di giovani, in particolare dalle regioni meridionali, che sono riusciti ad ottenere un determinato grado d'istruzione e non avrebbero un altro posto. La ragione dei nostri costi agricoli elevati è da ricercare anche, e soprattutto, nella sovrabbondanza di mano d'opera anziana sui campi e nella piccolezza delle aziende che impedisce la meccanizzazione, e, per tornare alla distribuzione, la ragione del nostro commercio al dettaglio così frazionato e costoso discende da questa necessità dì dare un lavoro, una partecipazione al reddito, a un gran numero di piccoli commercianti. Ex contadini « Il problema dell'occupazione — riconosce Parravicini — è complesso, di non rapida soluzione. Questa potrà essere trovata solo con l'avanzare della nostra società verso forme più elevate di consumi e di servizi, verso nuovi orientamenti della produzione e della domanda ». Una via d'uscita immediata da questa situazione drammatica di giovani che non trovano lavoro, di anziani ancor validi ma emarginati dal ciclo produttivo, secondo Parravicini, rimane quella classica dei lavori pubblici, che richiedono più mano d'opera, anche non qualificata, che capitali. Ritiene che i grandi piani idrogeologici, di necessità primaria e prioritaria, abbiano oggi le condizioni migliori per la loro attuazione: una mano d'opera che esce dai campi, vorrebbe lavorare secondo le sue abitudini e le sue conoscenze e che domani probabilmente non avremo più a disposizione. Anche la sintesi di problemi immediati da risolvere in cento giorni, come l'inflazione e la ripresa produttiva, e di riforme che richiedono anni, affinché gli ospedali non siano più «luoghi di pena», le mutue siano un servìzio dovuto e non un'elemosina elargita con disprezzo, la casa un bene accessibile a tutti e non un oggetto di speculazione edilizia e fondiaria, tutto questo rientra nella programmazione. Purché essa venga usata, per, cambiare in meglio la società, e non semplicemente per gestire quella che c'è. Mario Salvatorelli Roma. Giorgio Amendola, deputato comunista, e Giuseppe Petrilli, presidente dell'In, durante un convegno sui problemi europei (Foto Team)

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