Per un decimo di secondo di Francesco Rosso

Per un decimo di secondo INCONTRO CON GLI UOMINI DELL'AVVENTURA Per un decimo di secondo Marcello Fiasconaro, primatista mondiale sugli 800 metri, afferma di non trarre dalla vittoria "particolari emozioni", di correre per divertirsi, di odiare il divismo - Ammette però che l'avventura solitaria dell'atletica "è la più fantastica, la più esaltante da vivere" - E' d'accordo con Livio Berruti, medaglia d'oro alle Olimpiadi romane, nel riconoscere che ci vogliono nervi a posto per affrontare la popolarità "senza perdere la testa" Un quieto albergo in una via secondaria, va e vieni di gente qualunque, di atleti, di giornalisti, un diffuso odore di linimenti, dolciastro, e di sudore, acre. Lì in mezzo, al centro della curiosità generale, Marcello Fiasconaro, 24 anni appena compiuti, recordman mondiale degli 800 metri da un mese, vezzeggiato come un idolo, o come un bambino viziato. Mi viene in mente la feroce domanda di un giornalista americano ad una nobildonna italiana: « Che cosa prova a svegliarsi contessa ogni mattina? ». Marcello Fiasconaro è più spiritoso e più pronto dell'aristocratica intervistata, ed alla domanda che cosa provi a sentirsi campione del mondo in una specialità atletica, risponde con semplicità: « Proprio nulla ». La nostra conversazione si avvia in questo modo, con toni aspretti, ma sinceri. Perché ha scelto l'Italia per realizzare le sue qualità atletiche? « Semplice, perché in Sud Africa, dove sono nato e dove vivo, non potrei partecipare alle competizioni internazionali per via dell'apartheid ». Nessun sentimentalismo, voglia di vedere la patria del babbo? « Anche; l'Italia è un bel paese ». Le piace sentirsi così vezzeggiato, adulato, rincorso per l'autografo, sentirsi divo? « Per niente; odio tutte le manifestazioni esteriori che fanno dello sport uno spettacolo e degli atleti dei vanitosi attori. Detesto ogni esibizionismo, e preferisco restare solo, anche dopo la vittoria ». Il fenicottero Quand'è dritto in piedi mi dà la sensazione di un fenicottero, con le gambe che gli arrivano fin quasi alle ascelle; non si può dire che abbia una struttura apollinea, ma credo sia questa dìsarmonia fisica, che ricorda quella di Coppi, a fargli battere i primati. Parla asciutto, con un italiano alquanto disinvolto e frequenti fughe nel prediletto inglese; ne scaturisce una conversazione quasi buffa, nonostante gli argomenti serissimi. Per esempio, la conquista del primato mondiale negli ottocento metri, la scelta dell'atletica leggera come mezzo per realizzare la sua personalità, il presente glorioso, anche se amareggiato da una sconfitta proprio la vigilia del suo compleanno (ma a batterlo è stato il fortissimo americano Wohlhuter) ed il futuro imminente, perché la gloria di un atleta dura quanto la sua giovinezza. Marcello Fiasconaro non si sottrae alle domande; qualche volta appare evasivo, ma perché non ha compreso, non perché voglia sfuggire. Direi che è molto franco, persino sgradevole. Parliamo dell'atletica italiana, del mondo che le gravita intorno. «L'ambiente atletico, qui, è più difficile che in Sud Africa. Qui tutto è complicato, ci gira intorno troppa gente ponendoci problemi che in Sud Africa non affiorano nemmeno ». Forse allude alle decine di persone che vengono a domandargli se ha dormito bene, a poggiargli con finto affetto una mano sui lunghi capelli castani, a domandargli ancora, subdolamente, se è vero che dopo la Coppa Europa ad Oslo, il 4 agosto, passerà al professionismo. "Slang" segreto E' vera questa storia del professionismo? « Nemmeno per sogno, corro perché mi diverte, mi esalta, non per trarne utile ». Non le piace il denaro? «Certo che mi piace, ma ho altri mezzi per guadagnarne; a Johannesburg ho una rappresentanza di articoli sportivi che mi rende a sufficienza per i miei bisogni ». Arriva Stewart Banner, l'eminenza grigia, allenatore di Fiasconaro e, dicono, suo consigliere spirituale soprattutto. Parlano fitto un loro slang impenetrabile, quasi un linguaggio iniziatico. Consigli per la gara imminente? Fiasconaro sorride. Non vedo papà e mamma del campione, venuto in Italia, questa volta, con un nutrito seguito, ma andiamo avanti ugualmente nella conversazione. Sul musicista Gregorio Fiasconaro, ex pilota italiano, ex prigioniero di guerra in Sud Africa hanno già scritto molti, meglio continuare con questo suo figlio che ha una sua visione precisa dì che cos'è l'atletica: «un'avventura fantastica, forse la più bella che si possa vivere». Non c'era il rugby in principio? « Sì, c'era il rugby, e mi piaceva molto, ma era gioco di squadra; sulla pista, invece, sono solo, vinco, o perdo, da solo, la mia responsabilità è assoluta ». L'avventura più bella: vincere i lìmiti imposti dalla natura, raggiungere velocità che sembra siano negate all'uomo, e solo col mezzo del proprio corpo, senza nessun ausilio tecnico, o meccanico. Sembrava nato per la velocità pura, ed incominciò coi 200 metri. Poi allungò il passo, ed arrivò ai quattrocento. Poche gare e batte il primato italiano di (Molina. Sembra debba fermarsi lì, ma alle sue spalle c'è Banner che gli dice: « Se fai cosi bene un giro di pista, puoi farne due; puoi rivelarti anche negli ottocento metri». Il giovane Fiasconaro incomincia, ed è l'impresa sua più bella, dice, quella di corrodere a poco a poco, un decimo di secondo dopo l'altro, il tempo che lo divide dal primato mondiale. Incominciò bene, battendo subito il primato italiano con un minuto, quarantasei secondi, quattro decimi. Questo accadeva alla fine del marzo scorso. Qualche gior- no dopo, rosicchia un decimo di secondo correndo gli ottocento in l'46"3; ancora qualche giorno e si beve un minuto secondo scendendo a l'45"2. Il 27 giugno scorso, a Milano, battendo il cecoslovacco Placky, scende a V 43"7; è il primato del mondo, un risultato che fa di Marcello Fiasconaro un astro dell'atletica leggera internazionale. Che cosa ha provato in quel momento, sentiva di aver superato la grande barriera? « Avevo la certezza di correre molto bene ed in questi casi non occorre il cronometro per saperlo; sentivo che andavo forte (circa 28 chilometri l'ora) ma non pensavo al primato mondiale. Ero già contento di aver battuto Placky. Quando il tabellone si è illuminato con le cifre dei tempi, allora mi sono reso conto di ciò che avevo fatto. Però non ho provato particolari emozioni ». Come si sente quando sta per iniziare una gara? « Sono sempre nervosissimo, inavvicinabile; meglio starmi alla larga ». Pensa dì aver dato il meglio di sé come atleta? « No, ho ancora molte riserve ». Quanto crede di poter ancora durare? « Nel mezzofondo potrei andare avanti ancora sette, otto anni; ma penso che mi ritirerò fra quattro, cinque anni, in tempo per non farmi compatire ». E dopo? « Niente, farò il commerciante». Che cos'è un atleta famoso quando le energie declinano e torna ad essere un uomo come tanti altri? Livio Berruti, 34 anni, forse il più prestigioso campione italiano dell'ultimo decennio è l'esempio classico di come st deve comportare l'atleta celebre quando rientra nei ranghi. E' immobilizzato su una carrozzella, chiuso in un'armatura di gesso dopo il grave incidente d'auto, ma vivace e polemico nonostante tutto. « Ecco qua un atleta a riposo — dice ridendo — per nulla angustiato dai ricordi». Nostalgie per il passato? « No; è stata una bella avventura che ho gustato fino in fondo ». L'atletica le ha dato vantaggi finanziari? « Ho perduto quattro anni laureandomi in ritardo, questo è stato il vantaggio. Ma ho pagato volentieri il pedaggio, perché mi sono divertito davvero ». Non c'erano premi per le gare vinte? « Nel 1948, Consolini batté il primato mondiale nel disco ed ebbe un milione di premio; nel 1960, vincendo a Roma le Olimpiadi nei duecento metri, io ho avuto soltanto 800 mila lire. Mi hanno dato medaglie e targhe d'oro, questo sì, e le conservo tutte, forse per guardarmele ancora da vecchio ». Che cosa provava quando doveva iniziare una gara, e quando sentiva di correre bene, di andare forte? « Niente, credo di essere sempre stato molto freddo e distaccato. Quando i miei avversari scendevano in pista per le sgambate, per riscaldarsi i muscoli fra una gara e l'altra, io riposavo per recuperare il più possibile di energie; forse per questo ho vinto tante volte, eguagliando il primato mondiale nei duecento ». L'ho incontrato a Stroppiano, un paese della risaia vercellese dove sono nati i genitori di Berruti, e dove l'atleta torna volentieri. Le sue prime prove deve averle fatte qui, su queste strade silenziose e deserte. Com'è arrivato all'atletica? « Per soddisfare il mio desiderio di giocare a tennis. Per frequentare il Circolo Lancia ed avere gratis a disposizione i campi da tennis, mi sono impegnato a correre i cento metri, a gareggiare nel salto in alto e in lungo. I medici, giudicando la mia struttura fisica, dissero che non sarei mai diventato un velocista; meglio se mi applicavo al salto. Non sono mai andato oltre altezze e lunghezze mediocri. Andavo meglio nei cento metri. Poi, sempre gli stessi medici, dissero che nei duecento rischiavo di rovinarmi l'organismo, di avere grossi disturbi cardiaci; ho fatto i duecento metri, e se non fosse quel camion che mi è venuto addosso le dimostrerei che il mio cuore pulsa ancora con la massima regolarità ». La bella Wilma Non si è mai lasciato sedurre dal piacere di sentirsi importante, di godere la popolarità di un divo? «Non mi sono mai montato la testa e provavo fastidio a vedere certi miei compagni che si atteggiavano a divi. Però ho capito che cosa significa essere popolari, dover sopportare la curiosità degli estranei, essere il bersaglio dei fotografi; chi non ha i nervi a posto può perdere la testa». E la storia del filarino con Wilma Rudolph? Scuote il capo sorridendo. Interviene il babbo. « Erano i più bei ragazzi delle Olimpiadi, ed erano campioni; un po' di simpatia e molta amicizia, nulla più ». Ma le faceva piacere che si sussurrasse di quel suo amore? « Non sono tanto fatuo; ho sempre fuggito la facile popolarità, ed al termine di gare vittoriose, come alle Olimpiadi di Roma, il mio problema era seminare coloro che mi inseguivano per l'autografo ». Rimpianti per il passato? « Uno solo; se allenandomi pochissimo, due volte la settimana, ho ottenuto certi risultati, allenandomi di più avrei forse fatto meglio. Per il resto no. Guardo al passato con una nostalgia molto sfumata, come si prova per l'adolescenza». E ora che è fuori dalla mischia e dalla popolarità? « Sono tranquillo, ho il mio lavoro, sono sereno; sono uscito dallo sport senza drammi. Ho capito in tempo che lo sport aliena a tal punto che se non mi fossi creato un mio mondo particolare sarei diventato un disancorato. Invece, esplico la mia attività in una grande azienda, ed è un lavoro che mi soddisfa. Di più non potrei desiderare. Ho vissuto cosciente la mia esaltante avventura, e ciò mi basta ». Francesco Rosso