Guardar sempre l'Europa di Mario Salvatorelli

Guardar sempre l'Europa L'ITALIA VERSO UN NUOVO MODELLO ECONOMICO Guardar sempre l'Europa Tra il Mercato comune e il nostro Paese c'è uno scambio di delusioni - La Comunità non ha fatto quanto poteva per il Mezzogiorno, e ora sembra ferma; l'Italia ha perduto occasioni favorevoli, anzitutto non utilizzando gli aiuti per la trasformazione dell'agricoltura, e con la crisi si allontana dalla Cee - Ma per la ripresa, sostiene Altiero Spinelli, occorre proporsi ambiziosi traguardi europei: un ripiegamento autarchico sarebbe disastroso (Dal nostro inviato speciale) Roma, luglio. Gli Anni Cinquanta sono stati anni facili per il mondo occidentale: si riaprivano gli scambi internazionali, orientati verso una progressiva liberalizzazione; era immerso, come in un bagno stimolante, nell'onda del progresso tecnologico; l'opera di ricostruzione era agevolata dalla possibilità di disporre di ma* -:rie prime senza limitazioni di quantità e con prezzi in diminuzione. Nel successivo decennio la situazione internazionale si è mantenuta favorevole. « Sono stati anni di rendita — mi dice Francesco Forte — sulla scia dell'ondata precedente ». Ora siamo negli anni difficili: il progresso tecnologico si è un po' esaurito, il Terzo Mondo si è svegliato, le materie prime rincarano, ed emergono costi, come l'inquinamento, che prima non venivano rilevati perché gli impianti inquinanti erano meno numerosi. Infine, per quanto riguarda l'Europa e l'Italia, il Meo ha esaurito i benefici derivanti dall'unione doganale. Tempi lunghi Tra tutti questi «fenomeni» che prima c'erano ed i ggi non ci son più, o viceversa, e che in buona parte sono al di fuori del campo d'azione d'una politica economica nazionale (italiana come di un altro Paese), il più vicino e il più « orientabile » è il Meo: principio, e non fine, d'una comunità economica europea. Eppure sembra che con esso il tempo della Cee si sia fermato. « La Comunità si trova a un punto — ci dice Altiero Spinelli — in cui deve avviare una nuova politica, che non è più solo quella di abbattere gli ostacoli doganali, ma la politica di condizionare certi sviluppi, sostenere certe programmazioni regionali, facilitare certe riconversioni industriali, promuovere certe formazioni trans-nazionali tra le varie industrie, il tutto nella prospettiva di una Comunità che s'integra sempre di più, e nel cui quadro i vari Stati debbono adattare le loro politiche nazionali ». Invece, secondo Spinelli, proprio in questi ultimi anni, si è andata facendo strada da noi l'idea che, in fondo, essendo l'Italia un Paese malato, deve raddrizzare per conto suo l'economia, per poi riprendere con gli altri compagni di strada la politica comunitaria. « Ma proprio il parallelismo — aggiunge — tra il deterioramento dei rapporti dell'Italia con la Comunità e le difficoltà nella nostra situazione economica, dimostrano che sono due facce della stessa medaglia; è anche evidente che nella misura in cui si sviluppano questi due aspetti negativi, diminuisce sia la influenza dell'Italia sulla Comunità, sia quella della Comunità sull'Italia ». E' naturale che Altiero Spinelli, commissario alla Cee, insignito in questi giorni del « Premio Schuman » per meriti europei (primo italiano a meritarsi questo riconoscimento), si accalori maggiormente su quel che l'Italia avrebbe dovuto fare e non ha fatto, nei rapporti con la Comunità. E' altrettanto naturale che Nino No- vacco, presidente dell'Istituto per l'assistenza allo sviluppo del Mezzogiorno, lamenti quel che la Comunità poteva fare e non ha fatto, per l'Italia. « Anche la Cee — afferma Novacco — ha le sue colpe. Prima fra tutte, quella di essersi data, o di avere cercato di darsi, delle politiche: per l'agricoltura, per l'industria, per le regioni ma senza raggiungere un momento unificante, di sintesi, in una vera politica comunitaria ». I più deboli «Così — continua — non prteva non trascurare un problema come quello del Mezzogiorno, una realtà umana che corrisponde quasi alle popolazioni di tre Paesi della Cee sommate insieme: Belgio, Olanda, Lussemburgo, e quindi rappresenta un i i problema centrale, non marginale, della Comunità ». C'è anche una realtà di fatto, al di là degli errori degli uni e degli altri, nella quale l'Italia si pone come il Paese più debole della Comunità, salvo (ma non sempre) la povera e piccola Irlanda. Abbiamo la più bassa percentuale di popolazione attiva (occupata o in cerca di lavoro con qualche speranza di trovarlo), rispetto al numero degli abitanti: meno del 35 per cento, contro una media comunitaria del 41 per cento e punte del 44 per cento in Germania e in Danimarca, del 46 per cento in Gran Bretagna. Nonostante ciò, abbiamo ancora (Irlanda eccettuata) la più alta percentuale di addetti all'agricoltura: circa il 17 per cento, contro una media del 10 per cento per l'Europa dei Nove, e mìnimi del 7 per i o lue ti i, viiil el eca e è oiosi di e à n a e oo, ane ael o mi ti A rzi, i. la a. ealnn o e a a d, cento in Olanda, del 4,9 in Belgio, del 2,7 in Gran Bretagna. Solo in Irlanda e in Danimarca (ma nella seconda per l'alto sviluppo del settore terziario: commercio, credito e altri servizi), l'industria contribuisce meno alla formazione del reddito nazionale: 40,5 per cento in Italia, contro una media comunitaria del 44,5 per cento e punte del 48 in Francia, del 54 in Germania, quasi del 57 per cento in Lussemburgo. Anche il reddito per abitante — pur considerando questo indice con tutte l. cautele del caso — vede l'Italia in coda e con largo distacco (Irlanda esclusa) dai suoi partners: 1803 dollari Usa al vecchio cambio — ma non ha importanza il cambio, conta il rapporto con gli altri Paesi — contro una media europea di 2770 e punte di 3.150 in Francia, di 3.510 in Danimarca, di 3.828 in Germania. Con tutto ciò, anzi proprio per questo, « l'unità europea è e rimane il nostrj obiettivo privilegiato, il punto di raccordo con un tipo di società al quale desideriamo rimanere strettamente ancorati »: così ha detto Rumor, nel suo discorso di presentazione del nuovo governo al Parlamento. C'è qualcuno, però, che si domanda se questa unità, in questo momento, ci dia forza o non piuttosto ci soffochi. Più che di « qualcuno », Spinelli parla di una « tendenza che si va facendo strada »; ma distingue nettamente tra chi « ha paura, si sente il vaso di coccio » e chi ritiene che se l'Italia non avesse i condizionamenti comunitari (un po' pesanti, e che in certi casi possono favorire l'inerzia) potrebbe fare una buona politica di rilancio produttivo, di ammodernamento, di riforme. Antichi vizi Spinelli identifica in Ugo La Malfa l'uomo politico che ha sostenuto, in varie occasioni, in modo più chiaro, questo secondo atteggiamento, afferma che è condiviso dal segretario della programmazione, Giorgio Ruffolo, e forse — aggiunge — anche dal governatore della Banca d'Italia, Guido Carli. Poi li mette in guardia. Ritiene che se l'Italia si allontanasse anche solo temporaneamente dall'Europa, si sottraesse ai condizionamenti già esistenti e a quelli che si vanno preparando, essi non riuscirebbero a dominare né l'amministrazione pubblica, né il mondo economico; prevarrebbero invece le forze più retrive. Nell'industria privata, dove la parte più dinamica pensa in termini di economia aperta, riprenderebbero vigore le correnti protezionistiche e quelle che vorrebbero ridurre la nostra « dipendenza » dalle esportazioni. Nell'industria pubblica si affermerebbero i settori che si sono un po' troppo abituati a vivere in modo parassitario, a contare molto sui fondi di dotazione, sui passivi coperti dallo Stato. Nella pubblica amministrazione avrebbero più voce in capitolo quei funzionari che temono una politica regionale europea, una programmazione collegata con quella dco« tofa« ndninqtrvsionplunlismnvcmpintcloaazpcsgMIIcccp della Comunità. Infine, si consoliderebbe la tendenza « corporativa » che vede tutto come una successione di favori ai gruppi più forti. « La Comunità — dice Spinelli — si fonda su Paesi dove queste cose non è che non si facciano, ma si fanno in misura molto minore, quindi questa politica incontra ostacoli crescenti e favorisce queste spinte regressive ». Questa è la grossa scelta oggi per l'Italia secondo Spinelli: se si voglia fare una politica che punti sullo sviluppo di un capitalismo sano, non protetto; su una politica regionale che corrisponda a programmi veramente di trasformazione, non di concessioni o di favoritismi; su una politica sociale orientata al miglioramento professionale, alla capacità di cambiar mestiere in meglio, alla riforma sanitaria, alle infrastrutture sociali. « Se vuole ciò — afferma — l'Italia non troverà alcun ostacolo nella Comunità, ma aiuti sostanziali e sostegni; anzi, ha avuto raccomandazioni di farlo ». Rumor, nel suo discorso programmatico, ha detto anche che, « proprio come Paese comunitario, l'Italia deve guardare al Mediterraneo, per i nostri interessi in questo vitale settore, e per i nostri continui accentuati rapporti con i molti Paesi della sponda africana che si volgono all'Europa ». Spinelli riconosce questi particolari interessi: basta, del resto, guardare una carta geografica per rendersene conto. Aggiunge che la Comunità ha incominciato a sviluppare una politica mediterranea, basata su aiuti, libero scambio, e così via. « Ma — afferma — l'Italia non è mai presente, salvo quando si parla di arance, anche se delle arance vendute nel Mec solo il 5 per cento sono italiane, il 40-45 per cento spagnole, il resto marocchine e israeliane. Il Mediterraneo ci deve interessare, ma soprattutto per lo sviluppo industriale. Invece, siccome c'è la mafia dei giardini, c'interessiamo solo d'arance ». Le arance Anche le arance sono importanti, ma rientrano nel quadro della politica agricola, un altro grosso capitolo dei rapporti tra l'Italia e la Comunità europea nel quale, osserva Spinelli, l'Italia non ha fatto mai « una politica molto corretta ». Ha creduto di poterne profittare, poi i conti sono venuti male, perché ci si è accorti che ne aveva profittato meno di quel che avrebbe potuto. «Parlo dell'agricoltura in genere — precisa Spinelli — in particolare dei piccoli, perché i grossi sono felicissimi degli alti prezzi che assicurano loro sostanziosi guadagni ». Allora, continua, l'Italia ha incominciato a mostrare segni di malcontento, senza però pensare mai a una politica alternativa. E' quanto dice anche Giannino Parravicini, presidente del Mediocredito centrale e membro del Comitato tecnico scientifico della programmazione. Egli afferma che prima abbiamo accettato una disciplina comunitaria a noi sfavorevole, in quanto basata sul continuo aumento dei prezzi di alcuni prodotti e non sulla difesa dei redditi; « poi ci si è ben guardati dall'intraprendere anche solo un principio di attuazione del piano Mansholt per la ristrutturazione delle aziende agricole, malgrado avessimo a disposizione un aiuto finanziario della Comunità ». La mancata utilizzazione di fondi disponibili sotto diverse forme potrebbe costituire un capitolo a sé nella cronaca economica italiana degli ultimi anni. Viene in mente quanto dichiarò apertamente Eugenio Cefis a una delle ultime assemblee Montedison: sotto precedenti gestioni il gruppo non si era curato d'incassare centinaia di miliardi di lire, previsti dalla legge per i suoi investimenti nel Sud. Mario Salvatorelli Bruxelles. Bombasse! e Bassi, personalità della delegazione italiana, escono dal Charlemagne, nella « capitale » della Comunità europea (F. Vallinotto)