Il figlio segreto di Alessandro Galante Garrone

Il figlio segreto Mazzini vivo, politico e uomo Il figlio segreto Alessandro Galante Garrone: « Mazzini vivo », Edizioni del Centro Librario, pagine 109, lire 1700. Nel 1950, quando cominciò a circolar con successo anche in Italia, autorevolmente raccomandato ai lettori del Mondo dal benigno giudizio di Benedetto Croce, un breve libro del democristiano francese M. Vaussard, dove si accennava incidentalmente ad Ernesto Nathan come al «figlio naturale di Mazzini », la figliola dell'ex sindaco di Roma non esitò a ricorrere ai tribunali perché venisse debitamente condannata e bollata (a vantaggio economico della Scuola Mazzini in Roma) l'antica, stolta e sterile dicerìa, a smentir la quale, e a difendere il noTTJt e l'onore di sua madre, Ernesto Nathan non aveva esitato a impegnare più d'un duello. Spero che la eletta signora, la quale, del resto, si spense pochi anni dopo, non abbia saputo mai cosa Z'amico Salvemini tuttavìa scriveva in quel tempo ad Alessandro Galante Garrone, che la lettera del suo maestro pubblica oggi in questo Mazzini vivo: « Chi sa come si saranno rivoltate le ossa di Ernesto Nathan nella tomba all'idea che Mazzini abbia potuto avere un figlio • oltre che Ernesto Nathan ». Una boutade, naturalmente, come lo stesso Galante Garrone si affretta ad avvertire, tipica del Salvemini epistolografo (e non solo epistolografo). Perché le estrosità, le avventure, le audacie, né solamente verbali, erano caratteristiche del Salvemini. Ma qui la boutade coglieva il vero, e giustamente suggeriva il maggior merito in questi scritti mazziniani del Galante Garrone: i quali si aggirano, infatti, non tanto sulla «scoperta», quanto sulla pacata, commossa e sostanzialmente incontrovertibile dimostrazione, cui ricerche archivistiche salveminiane avevano dato l'avvio, del dramma intimo di Mazzini e della « bella reggiana » Giuditta Sidoli. Fu, secondo il Salvemini e il Galante Garrone, un romantico e appassionato coup de foudre quasi all'inizio dell'esilio di Mazzini, nella Marsiglia brulicante di fuorusciti, di simpatizzanti e di spie, il secondo semestre del 1831. E il 14 agosto 1832 l'ufficiale di stato civile della mairie di Marsiglia, su testimonianza d'un autorevole uomo politico locale, Démosthène Ollivier, e del più illustre medico della città, il dottor Jacques Reymonet, registrava la nascita, avvenuta VII, di un fils de parents inconnus: che erano, con ogni probabilità, il Mazzini e la Sidoli. Il bimbo ebbe i nomi di Joseph Démosthène Adolphe Aristide, ed è quasi di certo l'enigmatico A. o Ad. cui si accenna più volte nelle lettere del Mazzini alla Sidoli e all'Ollivier. Bimbo sicuramente malaticcio e infelice, fors'anche settimino, se il medesimo Démosthène Ollivier ne attestava con altri il mattino del 22 febbraio 1835 la morte avvenuta la sera prima, chez la nourrice. A quella data Mazzini, riparato in Isvizzera, tempestava l'Ollivier per aver notizie di Ad. e trasmetterle a Giuditta: la quale, d'altronde, rimpatriata dal '33, cercava con estrema difficoltà il permesso dei suoceri a ricongiungersi con i quattro figlioli del suo primo matrimonio (il marito le era morto esule a Montpellier nel 1828). Né sembra che il Mazzini potesse o volesse farle pervenire la notizia della morte di Ad. se non verso la fine del 1837, quando credette ormai superata ogni minaccia di sconforto e di smarrimento, che l'avrebbero, come non senza ragione temeva, condotta al suicidio, fra disperazione, vergogna, rimorso, e i probabili sogghigni, non pur degli antichi (e novissimi) «benpensanti », ma delle polizie d'Europa. Uno dei documenti « mazziniani » raccolti dal Salvemini e da lui donati al Galante Garrone insegna, infatti, che il ministro d'Austria a Firenze non si peritava il 3 luglio 1834 d'informare il Metternich d'una lettera (intercettata) del Mas- Zini alla Sidoli, «nella quale fra l'altro si davano notizie di Ad. », e l'esperto diplomatico, notando che la lettera era stata scritta a Marsiglia, non tardava a identificare nell'Ad. «l'enfant qu'ils y avaient laissé ». Che è, forse, di tutte le prove addotte dal Galante Garrone (e non tutte filologicamente probanti) la più convincente. Ma, se in questa difficoltosa e delicata ricerca, il Galante Garrone fu certo aiutato, e non poco, dal suo « fiuto » e dalla sua esperienza di giudice, troppo, tuttavia, egli è storico per non proporsi tosto il problema \ se l'episodio riguardi meramente la cronaca biografica dell'individuo Giuseppe Mazzini, o non interessi, invece, la storia del Genovese, non arrechi un nuovo elemento a ricostruirne la psicologìa, l'esistenza e l'azione. Forse il Galante Garrone concede troppo a un'altra boutade salveminiana e troppo accentua e consente che il meglio di Mazzini sia, appunto, l'azione, l'esempio della sua vita, mentre, in ispecie dopo il '49, l'esule si sarebbe rinserrato non pur nella sua intransigenza etico-ideologica, ma nel suo dottrinarismo formulistico, nel suo (disse ancora il Salvemini) abito e stile da «prete». Benissimo, tuttavia, il Galante Garrone avverte che il periodo fra il 1831 e il 1837, il periodo formativo di Mazzini, dalla nascita della Giovine Italia al riesame critico della dottrina durante «la tempesta del dubbio» nell'ultima fase dell'esilio elvetico, segna lo stacco irrevocabile fra due mondi, fra due attività insurrezionali, fra due Italie: l'una provinciale-carbonara, l'altra rivoluzionario-europea e capace di iniziativa europea, d'inserire il problema della sua libertà e della sua indipendenza nel più vasto, ma correlativo ed uguale, problema della libertà e nazionalità dell'Europa. Il momento più tragico, e più creativo, fu, appunto, «la tempesta del dubbio». E non le fu estranea la tragedia del rimpatrio di Giuditta Sidoli, l'attesa aviarissima delle notizie sulla vita e la morte del bambino « segreto ». Perciò appunto l'episodio della presunta cronaca scandalistica riesce essenziale all'intelligenza del travaglio e della grandezza di Mazzini. Perciò appunto la vita e la morte del bambino « segreto » conferiscono al Mazzini vivo; fanno dell'ignorato e quasi anonimo Adolphe un elemento efficace e reale della nostra storia. Non per nulla, anzi per l'esperienza medesima di tante morti, fra esse quella d'una sua dimenticata-indimenticata creatura, il Mazzini non credette mai nella morte. « Serbiamo fede alle tombe dei nostri cari: li rivedremo». Piero Treves Giuseppe Mazzini, nel 1830