Un passato di storia e di commerci sulla corrente ora avvelenata del Po di Francesco Fornari

Un passato di storia e di commerci sulla corrente ora avvelenata del Po Cronache del grande corso d'acqua dalla sorgente alla foce Un passato di storia e di commerci sulla corrente ora avvelenata del Po Dal porto di Piacenza partirono "crociate" per la Terra Santa - Nel gennaio del 1491, 35 navi e due bucintori trasportarono 400 persone, il seguito di Beatrice d'Este che da Ferrara andava a Milano a sposare Ludovico il Moro - I dieci porti piacentini, fonte di ghiotti tributi, furono contesi da signorotti, magistrati e papi - Si parla di un rilancio della navigazione fluviale, ma si va avanti con le isolate iniziative di alcuni privati - Lo Stato non vuole muoversi - L'arrivo a Cremona (Dal nostro inviato speciale) Cremona, 25 luglio. Siamo rimasti soltanto in due: il fotografo Moisio ed io. I vigili del fuoco di Torino che ci hanno accompagnato fino a Pavia, sono tornati indietro. Questione di competenza territoriale e di disposizioni ministeriali ci hanno privato della compagnia di Lombardi, Fanti e Audenino. C'è un po' di tristezza al momento dell'addio. Con loro abbiamo compiuto la prima parte del nostro viaggio sul fiume, quella più difficile e insidiosa. I pompieri tornano a casa, ma noi dobbiamo proseguire. Per prima cosa bisogna trovare un nuovo natante. Un'impresa che si rivela subito assai difficoltosa. Le barche Sul Po barche ce ne sono tante, di tutti i tipi. Ma i proprietari, gelosi custodi, appena sentono parlare di noleggio cambiano faccia e si affrettano ad andare via. Dobbiamo all'interessamento di Gino Cerotti, del Circolo Nautico «Amici del Po» del Ponte della Becca, a Vaccarizza, se infine riusciamo a trovarne uno. Una canoa di plastica, lunga quasi tre metri, con un motore fuoribordo di 20 cavalli. Si chiama « Pishing Boat ». Carichiamo tutta la nostra roba, le cinture di salvataggio, due taniche di miscela, e salpiamo. L'appuntamento con il nostro autista Ventdmiglia è al ponte di barche di Spessa. Navighiamo al centro del fiume: io sono al timone e alcune mie manovre non contribuiscono certo ad assicurare Moisio sul buon esito di questa seconda parte della nostra avventura. A Buffarola, l'acqua del fiume, sinora relativamente pulita, si intorbida. Dal canale nuovo arrivano nel Po rifiuti di ogni genere: ci sembra di navigare dentro ad una cloaca, anche il puzzo è insopportabile. Per fortuna, la corrente è molto forte, dopo pochi chilometri il fiume riprende il suo aspetto normale. Arriviamo al ponte di barche, il primo ostacolo sul nostro cammino. Barconi di cemento, ancorati uno accanto all'altro, sostengono una passerella di legno su cui transitano ì veicoli. Il ponte può essere oltrepassato in un solo punto, fra l'ultima barca e la sponda destra del fiume. Un varco di dimensioni modeste e bisogna anche fare attenzione ai cavi d'acciaio tesi a mezza altezza, alla corrente che cerca di portare il nostro battello sempre dalla parte opposta di quella desiderata. In qualche modo evitiamo di schiantarci contro un pilone del nuovo ponte autostradale, in costruzione a valle di quello di barche, poi puntiamo la prua verso lo stretto passaggio. Moisio, che dirige le operazioni, è ormai senza voce e si sbraccia come un ossesso per indicarmi che cosa devo fare, dove devo dirigere la canoa, che invece va per conto suo, dapprima vira verso terra, poi cambia direzione e sembra decisa a fracassarsi contro uno dei barconi. Invece, infiliamo il varco giusto, e, sia pure un po' di traverso, passiamo dall'altra parte. Una mia improvvisa accelerazione fa fare alla canoa un balzo in avanti: la prua si alza verso il cielo poi ricade sull'acqua e tiriamo un sospiro di sollievo. Dopo questa avventura decidiamo di comune accordo di cambiare il nome del battello, che viene ribattezzato « Granchio ». Un'osteria Oltrepassiamo Arena Po, un tempo uno tra i più importanti dei dieci ponti piacentini sul fiume. Sono ancora visibili le tracce di una via alzaia su cui 1 cavalli da tiro rimorchiavano controcorrente i barconi da carico che da Venezia tornavano a Pavia e a Milano. Prendiamo terra più a valle, in frazione Parpanese, dove Ventimiglia ha scovato un'osteria sepolta nella fitta vegetazione della costa. Facciamo subito una scoperta: dal fiume la riva sembra accessibile, l'approdo facile. Invece finiamo nel fango fino alle ginocchia, dobbiamo aprirci un varco tra ortiche giganti, mentre i tafani ci punzecchiano dappertutto. Nell'incerta penombra dell'osteria, tutte le imposte sono chiuse per mantenere la frescura, vediamo tre giovanotti seduti ai tavoli. Immobili, in silenzio davanti ad un bicchiere di vino, sembrano addirittura pietrificati. Non fanno un gesto, non dicono una parola. Pranziamo all'aperto, sotto un pergolato, accanto a un vecchio che russa sonoramente, allungato su una sdraio ed un cucciolo di pochi mesi che fa strage dei lacci delle nostre scarpe. Il vitto è ottimo, il vino genuino. Orietta, una procace ragazza dalle forme scultoree, e sua madre, si alternano nel portare le pietanze: curiose vogliono sapere da dove veniamo, incredule seguono sulla carta geografica i nostri itinerari. Abitano qui « da sempre » e sono felici. Anche Orietta, che ha diciott'anni, è contenta. Quando vuole « vedere della gente o andare a ballare », inforca il motorino e va ad Arena. Le spese importanti le vanno a fare a Piacenza. Il sole infuocato dardeggia sul fiume, ma sotto il pergolato si sta bene, c'è un silenzio immenso, il vino (un vinello dove la forza del Barbera sembra mescolarsi alla delicatezza del Lambnisco) è buono. Siamo di nuovo sul fiume. A Calendasco dobbiamo travasare la benzina di una tanica nel serbatoio: fra tante cose inutili che abbiamo portato, manca proprio un imbuto. Ne costruiamo uno di emergenza con il cartone di un taccuino: così un po' di carburante riesce anche a finire nel posto giusto. In questo tratto il corso del Po è tortuoso, le anse si susseguono, il fiume si ramifica in varie direzioni. In certi punti le sponde distano quasi cinquecento metri fra loro. Il Po riceve un nuovo affluente, il Lambro. Venticinque o trentanni or sono i gamberi del Lambro erano considerati una ghiottoneria: adesso sono introvabili. La popolazione delle province di Como e Milano è di circa quattro milioni di abitanti. Di questi, oltre tre milioni e mezzo gravano sul corso del Lambro. Nelle stesse due province le attività industriali che comportano lo scarico di acque residue inquinanti sono più di trentamila. I veleni di fogne e quelli industriali, avevano fatto del Lambro uno dei fiumi più inquinati della Lombardia. Le sue acque erano state addirittura definite velenose. Ora, sia pure in ritardo, si è corsi ai ripari. Le industrie sono state obbligate ad installare i depuratori, l'acqua, un tempo di colore marrone, è tornata quasi normale. Un pescatore incontrato nel minto di confluenza dei due fiumi, dice che « adesso si può di nuovo pescare. Ma non bisogna risalire troppo il corso del Lambro: più a monte il pesce non si trova. E' un fiume morto ». Il ponte Oltrepassiamo la foce del torrente Trebbia e davanti a noi si delinea la sagoma del ponte autostradale di Piacenza, la capitale naturale del Po. Quasi un terzo della parte navigabile del Po scorre sul territorio della sua provincia. Già ai tempi di Augusto, si trasportavano le merci sul Po da Piacenza a Ravenna in meno di 48 ore. Dal porto di Piacenza sono partite crociate per la Terra Santa; nel gennaio del 1491, 35 navi e due bucintori, con a bordo 400 persone, erano attraccati ai moli del porto di questa città: era il seguito di Beatrice d'Este che da Ferrara andava a Milano, a sposare Ludovico il Moro. I dieci porti piacentini del Po, fonte di ghiotti tributi, furono contesi da signorotti magistrati papi. In un museo è conservata una bolla di Papa Paolo III che, nel settembre 1535, assegnava gli introi¬ ti daziari del porto piacentino (il più redditizio) a Michelangelo Buonarroti, come pagamento dei lavori che l'artista aveva eseguito in Vaticano. A quel lontano periodo di massimo splendore, sono seguiti anni di crisi. Adesso, dicono gli esperti, si sta delineando un rilancio della navigazione del Po. E' risaputo che il prezzo dei trasporti fluviali, attuati con criteri moderni è un terzo di quelU stradali o ferroviari. Una bettolina con quattro uomini di equipaggio può trasportare il carico di 40 autocisterne. Il Po potrebbe diventare una delle più importanti «arterie» commerciali del nostro Paese. Ma non viene utilizzato adeguatamente, i progetti ci sono ma restano sulla carta, si fa un gran parlare, ma in realtà nessuno muove un dito, il fiume continua a scorrere pigramente, trascinando la sua acqua avvelenata. Franco Sacchi, custode della Società canottieri Nino Bixio di Piacenza, è uno dei più accaniti difensori del fiume: « Il turismo nautico è in continuo aumento, ma quel poco che viene realizzato è frutto d'iniziative private. Lo Stato non fa nulla, eppure il Po non è un ruscello, è il fiume più grande d'Italia ». Nella piscina della società (alimentata dall'acqua del fiume, convenientemente depurata), nuotano graziose ragazze. Altre prendono il sole. « Il mare? — dice una studentessa diciannovenne — c'è troppa confusione sulle spiagge, qui stiamo più tranquilli, il sole c'è, l'acqua forse è più pulita». Riprendiamo il viaggio: la navigazione diventa più facile, sulle rive ci sono segnali che aiutano i naviganti. Basta saperli interpretare: noi, per esempio, abbiamo subito seguito le istruzioni al contrario e siamo finiti su una secca. All'altezza di S. Lazzaro, frazione di Monticelli d'Ongina, ci troviamo davanti alle paratie chiuse della centrale elettrica della Sima. Un'opera colossale, inaugurata dieci anni fa: 18 miliardi di spesa, 6 milioni di ore lavorative, 300 milioni di chilowattora all'anno, un canale artificiale che abbrevia la navigazione di 12 chilometri. Però adesso il canale è chiuso: l'orario di lavoro termina alle 16. Per fortuna c'è ancora il capobacino, Enzo Benatti. Discutiamo un po' ed alla fine acconsente di farci passare. Ci vogliono 40 minuti per riempire la conca e portare l'acqua al livello dovuto. Prima si apre la paratia di monte, poi, quando la conca è piena, entriamo anche noi, con la nostra barca. La conca La paratia alle nostre spalle viene di nuovo abbassata. Galleggiamo su oltre otto metri d'acqua, fra due strette pareti di cemento armato. Viene alzata la paratia di valle: l'acqua nella conca discende (in 20 minuti raggiungerà i quattro metri) tra un susseguirsi di rombi e colpi sordi che mettono a dura prova i nostri nervi. Effettivamente c'è qualcosa di pauroso in tutto questo: mentre continuiamo a scendere (e le pareti, perciò, diventano sempre più alte) tentiamo di mascherare la nostra ansia scambiandoci qualche battuta, ma le parole suonano false. Alla fine la manovra è completata: possiamo avviare il motore e schizziamo fuori dalla conca, verso il grande fiume. Benatti, il capobacino, ci dirige il suo saluto con un megafono. Navighiamo dunque il canale artificiale: il vero Po compie una grossa ansa sulla sinistra, al vertice della quale si trova la confluenza dell' Adda. Purtroppo, questo tratto di fiume non è navigabile per chi scende a valle: il percorso è sbarrato dalla massiccia costruzione della diga della Centrale, bisogna per forza passare per il canale, dove l'acqua sta diventando sempre più sporca ed aleggia una puzza nauseabonda. Scopriamo presto la natura di questi inconvenienti: davanti a noi si delineano le ciminiere ed i serbatoi di alcune raffinerie. Blocchi di schiuma grigiastra galleggiano sempre più numerosi sull'acqua, vediamo anche dei pesci morti. In lontananza, avvolta in una coltre di fumo biancastro, c'è Cremona. Vediamo la torre, simbolo della città, spiccare alta sulle cime dei pioppi che ornano la riva. Ancora pochi minuti, poi ci ormeggiamo al molo della Società Motonautica Cremona. Francesco Fornari Un mulino sul Po. L'incontro, non più frequente, è avvenuto oltre la confluenza del torrente Trebbia (Foto Moisio) II suggestivo passaggio alle chiuse di San Lazzaro di Monticelli d'Ongina (Moisio)