Il dittatore sconfitto di Vittorio Gorresio

Il dittatore sconfitto Il dittatore sconfitto Mussolini fu sorpreso dal "golpe" della Corona e dalla rivolta dei gerarchi - Invano due fedelissimi l'avevano avvertito e donna Rachele consigliava: "Benito, falli arrestare tutti, non ti fidare del re" - Egli non voleva credere che "cinquanta congiurati fossero una minaccia a un capo deciso, sostenuto da quattrocentomila armati" - Non seppe né prevedere, né difendersi Roma, luglio. Mussolini, anche lui, esce molto ridimensionato dall'imbroglio del 25 luglio di trent'anni fa. Il segretario del partito fascista Carlo Scorea lo aveva messo in guardia informandolo di un convegno di generali nel quale pareva fosse stato deciso di arrestare il duce, mettere al suo posto Badoglio, terminare la guerra in qualche modo. Girando gli occhi come usava per il suo gusto di rotearli. Mussolini schernì: «C'è proprio gente che ha voglia di imbastire romanzi gialli! ». Quello che più o meno tutti sapevano, almeno nelle sfere cosiddette alte, a proposito di una trama che i militari stavano tessendo per ordine del re contro il fascismo, il duce lo respingeva volendolo ignorare, arroccato com'era sulla propria infallibilità personale. DalPOvra Un vecchio giornalista di nome Ottavio Dinaie che sul Popolo d'Italia pubblicava ardenti corsivi con la firma « Farinata » e che aveva una specie di sovrintendenza sugli agenti dell'Ovra inseriti nelle redazioni dei giornali italiani (erano i suoi confidenti), andò a trovarlo qualche giorno prima del 24 luglio. Gli baciò la mano e profferì: «Dio ti benedica, Mussolini ». « Dio benedica anche te. Dinaie », rispose il duce. « Prima te », replicò Farinata, e Mussolini allora sentenziò edificante: « Nella benedizione di Dio non ci sono criteri gerarchici ». Fu a questo punto che Dinaie lo informò delle voci di un complotto militare correnti anche nelle redazioni dei quotidiani più ligi, come gli avevano segnalato i giornalisti in servizio comandato per conto dell'Ovra. Mussolini fu chiaro e perentorio, secondo il suo costume di abituale contestatore delle evidenze: « Non posso accettare — disse — che si creda che un regime come quello fascista possa essere rovesciato da quaranta o cinquanta congiurati. Una per- fetta organizzazione statale, 400 mila uomini di una milizia fedele e agguerrita, tre milioni di iscritti, la massa che rispetta e teme questa potenza, il capo più fermo e più deciso che mai. Non scherziamo! ». Era il suo modo di fronteggiare la realtà di quegli anni, determinato dall'istintivo desiderio di non conoscerla perché grave, e dall'isolamento in cui — per conseguenza — egli si era volontariamente ridotto. Nel suo piccolo universo di finzione riusciva a illudersi ancora, probabilmente, anche se non mancavano di arrivargli ammonimenti diretti severi, come quello di sua moglie Rachele che il pomeriggio del 24 luglio nel salutare il suo Benito che usciva di casa per andare ad incontrare i gerarchi a Gran Consiglio nella Sala del pappagallo in Palazzo Venezia, con onesta saggezza gli propose: «Benito, ascoltami, falli arrestare tutti ». Al termine della seduta, quando Benito a notte fatta rientrò in villa Torlonia, Rachele ancora gli domandò con semplice naturalezza: «Li hai fatti arrestare? ». « Lo farò, se non è troppo tardi», le rispose il marito con qualche pigrizia. La mattina dopo, alle otto, al comandante della milizia fascista generale Enzo Galbiati che gli suggeriva di arrestare Grandi e tutto il gruppo dei gerarchi che avevano votato con lui, rispose con vaghezza: « Ma no, ma no; tra qualche ora andrò dal re e me la vedrò con lui». Anche su questo punto era Rachele a vedere più giusto: « Benito, ascoltami, non andare dal re, non ti fidare. 11 re fa il re, e se gli conviene ti butta a mare». Tutto fa credere che Mussolini fosse di pessimo umore, ma che non valutasse la realtà. Conosceva da tempo il testo dell'ordine del giorno dei gerarchi frondisti (Grandi glielo aveva comunicato il giovedì 22), ma non sembrava esserne rimasto turbato poiché semplicemente e stancamente aveva detto: «Grandi, avresti ragione tu se la guerra dovesse essere perduta, ma invece sarà, vinta. I tedeschi tra qualche giorno tireranno fuori un'arma che cambierà in tutto e per tutto la situazione ». Anche col re aveva parlato delle armi segrete dei tedeschi, ma Vittorio Emanuele gli aveva obbiettato da quel piatto testone che era: « Le migliori armi segrete sono quelle che tutti conoscono ». Per Mussolini, in ogni modo, le armi segrete dei tedeschi che avrebbero assicurato la vittoria dell'Asse erano il solo appiglio disponibile. Le citò anche in Gran Consiglio dopo avere riconosciuto che negli ultimi due anni la fortuna lo aveva abbandonato (quasi che l'andamento della guerra fosse un fatto di buona o mala sorte sua personale) ed annunciò di possedere ancora « una chiave per risolvere la situazione bellica. Ma — aggiunse come un furbo — non vi dirò qual è ». Naturalmente non poteva dire nulla perché nulla sapeva di preciso sull'asso nella manica tedesca, ma il suo accennarvi senza chiarire fece aumentare la diffidenza degli ascoltatori. Malato? Essi peraltro potevano avere grandi motivi di perplessità anche solo a vedere Mussolini com'era quella notte nella Sala del pappagallo, tutto affranto e stonato, quasi apatico, seduto di sghimbescio sulla sua poltrona alta come un trono a capo della tavola, una mano tesa a visiera per proteggersi gli occhi dalla luce del lampadario. Teneva un broncio che pareva minaccioso, ma sembra che fosse per il dolore che gli procurava la sua ulcera gastrica. Almeno è questa la sua versione personale, come si trova in una I lettera a F. T. Marinetti, che soffriva della stessa malattia: «Tu solo mi puoi capire — gli scriverà difatti Mussolini da Gargnano nel 1944 —. Dopo la mia relazione ebbe inizio la discussione. Mi sembrava di assistere al processo contro di me. Mi sentivo imputato e nello stesso tempo spettatore. L'ulcera mi faceva soffrire fisicamente, ma il cervello era lucidissimo (...) tu sai che questo è uno degli effetti del nostro male: annulla totalmente le energie, pur conservandoti una lucidità che chiamerei addirittura trasparente ». In guerra E' pur vero che quando dopo morto gli fecero l'autopsia, i medici non trovarono traccia di ulcere gastriche, ma si può ammettere che un disturbo equivalente fosse di origine nervosa; e Mussolini ne aveva dì che. Certo è comunque che il suo atteggiamento durante tutto il Gran Consiglio parve ai presenti — ai frondisti non meno che ai fedeli — rinunciatario e remissivo. Esordì con accenni alle proprie condizioni di salute, ciò che era già eccezionale se si considera quale vanto egli avesse sempre menato della sua intatta gagliardia, anche con Farinata pochi giorni prima. Parlando di se stesso in terza persona come Giulio Cesare e De Gaulle, disse per cominciare che «caduto ammalato nell'ottobre del 1942, Mussolini meditava di lasciare il comando militare, ma non lo fece perché gli sembrò disdicevole abbandonare la nave nel mezzo della tempesta. Aspettava di farlo dopo una " giornata di sole", che a tutt'oggi non è venuta». In ogni modo affermò pure che in realtà le funzioni di comandante supremo non le aveva esercitate se non una volta, in occasione di una temporanea assenza del capo di stato maggiore generale maresciallo Ugo Cavallero, nella battaglia navale di Pantelleria del 15 giugno 1942: «Battaglia — tenne a dire con una smorfia — che fu vittoriosa, ed anzi quella in cui per la prima volta la Gran Bretagna sentì nelle carni il morso della lupa di Roma ». Un uomo che parlando in momenti seri ricorre a immagini retoriche già si qualifica da sé, ma non è questo che gli potevano rimproverare gli astanti — di lui non meno retorici — quanto una specie dì scarico di responsabilità, una negazione dei fatti, una bugia puerile, dato che le interferenze e le pressioni da lui esercitate sul comando supremo erano note, per la sua mania di atteggiarsi a stratega. Ne aveva dato prova già durante le campagne d'Etiopia e di Spagna, e non se ne era poi astenuto sui diversi fronti della seconda guerra mondiale. Del resto, erano i poteri che egli si era arrogato fino dal 30 marzo 1938-XVI in occasione di una seduta del Senato solennemente dedicata alla « esaltazione delle forze armate e dello spirito guerriero dell'Italia fascista ». In pratica, come sovente gli accadeva, aveva esaltato soprattutto se stesso dichiarando: « Camerati! Senatori! Signori! Nell'Italia fascista il problema del comando unico, che tormenta altri Paesi, è risolto... La storia ci dimostra che fu sempre fatale il dissidio tra la condotta politica e quella militare della guerra. Nell'Italia del Littorio questo pericolo non esiste. In Italia, la guerra, come lo fu in Africa, sarà guidata, agli ordini del re, da uno solo: da chi vi parla, se ancora una volta questo grave compito gli sarà riservato dal destino ». Poiché il destino era tornato a riservargli il grave compito, adesso Mussolini si lamentava in Gran Consiglio di essere stato male assecondato, tanto per non ammettere di essere invece stato impari luì: « Il funzionamento del comando supremo è stato caratterizzato dalla reticenza, dall'equivoco, dalla menzogna. La menzogna ha dominato questa guerra ». Ha osservato Paolo Monelli in Roma 1943 che alla confessione della sua impotenza e incapacità al comando Mussolini fece seguire una lunga esposizione delle nostre sventure militari lardellata di luoghi comuni e di facili ironie, come questa: « Quando l'ammiraglio Favesi mi telegrafò che ogni ulteriore resistenza a Pantelleria era divenuta impossibile, detti l'ordine di resa: solo Stalin e il Mikado possono dare l'ordine di resistere fino all'ultimo uomo ». A questo punto è da inserire la battuta finale del discorso pronunciato da Scorza, segretario del partito, che non si capisce se fosse un rimprovero o un elogio o una scusante, ma che comunque graffia anche se non volontariamente: «Voi, Duce, — disse Scorza — non siete un dittatore. Siete stato l'uomo più disobbedito del mondo, e tuttavia i fascisti sono tutti con voi, vicino a voi, fedeli a voi ». Ma dovevano essere pochi i fascisti — persino nel Gran Consiglio — se in diciannove contro nove lo abbandonarono alla sua sorte. Mussolini aveva cercato di suggestionarli non potendo convincerli, ricorrendo in extremis ad un ragionamento che era corretto dal punto di vista dialettico, ma che purtroppo mancava dei necessari presupposti. Una favola « I casi sono due — affermò Mussolini —: il sovrano può dirmi, caro Mussolini, io ho fiducia in voi, restate al vostro posto e continuate a dirigere le sorti della guerra e quelle del fascismo. Se i vostri vi abbandonano, il re vi rimane vicino. E allora, signori — incapò Mussolini — quale sarà il giudizio che spetterà ai firmatari dell'ordine del giorno Grandi? Oppure il re mi dirà: caro Duce, di fronte alla situazione determinatasi con il voto di sfiducia che il Gran Consiglio ha pronunciato contro di voi capo del governo, io capo dello Stato ritiro la delega con cui avevo ceduto all'inizio della guerra il comando supremo delle forze armate, lasciandovi soltanto le vostre funzioni di primo ministro. In questo caso, signori, anch'io ho la mia dignità, ho sessantanni, posso considerare questi ultimi vent'anni come una bellissima avventura, e in simili condizioni di minorazione, risponderò al re: Io, maestà, non posso rimanere. Avete, signori del Gran Consiglio, pensato a tutto questo? ». L'interrogativo non era banale, ma la mancanza dei presupposti rendeva inutili le argomentazioni del duce, dato che il re aveva già deciso di arrestarlo in ogni caso, cosa che il povero Mussolini non si immaginava possibile. Vittorio Gorresio Milano, Castello Sforzesco. Mussolini a cavallo, tra dignitari del partito e ufficiali dell'esercito, a una manifestazione fascista