Carpi: le maglieriste che lavorano di Filiberto Dani

Carpi: le maglieriste che lavorano Inchiesta in Emilia: settore tessile Carpi: le maglieriste che lavorano L'opera svolta a domicilio permette agli imprenditori di contenere i costi - Le lavoratrici a cottimo guadagnano poco e non hanno mutua e previdenze - Per un rapporto di lavoro che non metta in crisi le aziende si dovrebbe fiscalizzare gli oneri sociali (Dal nostro inviato speciale) Carpi, 21 luglio. Lo chiamano il « lavoro nero » ed è il lavoro a domicilio: ad esso ricorre la quasi totalità dell'industria carpigiana della maglieria. Attraverso il lavoro a domicilio, che è svolto, a cottimo, da manodopera femminile, l'imprenditore può contenere i costi di produzione, ha la possibilità di evadere gli obblighi tributari e previdenziali, non ha necessità d'investire grossi capitali nei macchinari (che sono a carico di chi lavora esternamente per lui), è in grado di aumentare 0 diminuire, senza problemi di carattere sindacale, la quantità di manodopera. Le lavoratrici, a loro volta, mostrano una certa predilezione per l'occupazione domiciliare, che può conciliarsi con gli impegni casalinghi: è un lavoro in « part time », magari distribuito su più componenti del nucleo familiare, che le consentono di arrotondare le entrate. Tutti d'amore e d'accordo, dunque? No davvero. Questo, del « lavoro nero » sta diventando nel mondo produttivo carpigiano uno dei punti di frizione massima. Dicono le organizzazioni sindacali: «Le lavoratrici a domicilio guadagnano assai meno dei lavoratori interni, in piit devono sopportare la spesa dei macchinari, non godono di assistenza mutualistica e previdenziale. Sono come fantasmi: per la legge del lavoro non esistono ». Il fenomeno non è soltanto locale. Un ordine del giorno recentemente approvato dal Consiglio provinciale di Modena denuncia le conseguenze che lo stesso comporta: «La forma di sottoccupazione e di prestazione sottopagata, rappresentata dal lavoro a domicilio, va allargandosi, come testimoniano le inchieste che sono state condotte in varie regioni e particolarmente in quella lombarda. E ciò con gravi danni, oltre che per le lavoratrici interessate, per l'intera collettività a causa del mancato pagamento, da parte imprenditoriale, di elevate quote di oneri sociali e dei mancati investimenti tecnologici che hanno concorso a determinare sia l'arretratezza di alcuni settori produttivi, sia anche, insieme ad altri fattori negativi, l'insufficiente sviluppo economico di vaste zone del Paese ». Sotto la spinta delle organizzazioni sindacali e delle leghe unitarie delle lavoranti a domicilio, qualcosa però ha finito per muoversi: ora è in elaborazione un disegno di legge che mira a riconoscere a questa categoria un rapporto di lavoro dipendente, con tutti i benefici che esso comporta e cioè un minimo di salario, il trattamento assistenziale e previdenziale di cui fruiscono i lavoratori interni. Le reazioni degli industriali della maglieria non sono mancate: essi sostengono, unanimemente, che, a conti fatti, il lavoro esterno verrà a costare di più di quello interno. «E non è — aggiungono — che ci siano grandi margini da rosicchiare. I nostri costi di lavoro sono ormai tra ì più elevati, mentre è soprattutto giocando sui prezzi della manodopera che 1 Paesi asiatici e anche quelli mediterranei riescono a darci grossi fastidi sui mercati che finora dominavamo». I loro interlocutori, i sindacati, fanno in proposito un discorso diverso: «Gli industriali vogliono a tutti i costi conservare il carattere prevalentemente commerciale delle loro aziende per continuare a realizzare ingenti profitti. Vogliono cioè perpetuare uno schema organizzativo di lavoro che impone alle minori imprese che lavorano per conto loro e alle lavoranti a domicilio, il peso degli investimenti e dei nuovi oneri sociali, nonché il carico e le conseguenze d'un rapporto di lavoro abnorme sia sotto il profilo sociale che giuridico ». Oli artigiani Nel dialogo, che in questi giorni sta assumendo toni aspri, si sono inseriti gli artigiani con le loro aziende e le loro piccole imprese che operano, avvalendosi del lavoro a domicilio, per conto delle grandi imprese. Attraverso una delle loro più rappresentative associazioni, la Fapim, gli artigiani hanno pubblicamente riconosciuto che è « socialmente giusto che la lavorante a domicilio sia da considerarsi in linea di principio e di fatto subordinata », ma hanno messo in guardia quanti già si abbandonano a facili entusiasmi. Dice Alfredo Tosi, segretario responsabile della Fapim: «Ciò che dev'essere valutato è il fatto che nel settore dell'abbigliamento è preponderante la manodopera occupata rispetto al capitale investito. Lo sviluppo produttivo, che nel passato si è basato esclusivamente sui bassi costi del lavoro, particolarmente attraverso il non pagamento degli oneri sociali e la larga disponibilità di manodopera femminile, potrebbe oggi arrestarsi con conseguenze facilmente intuibili per l'economia e l'occupazione ». Cioè: se le lavoratrici a domicilio dovranno essere considerate a tutti gli effetti lavoratrici dipendenti, migliaia di aziende artigiane entrerebbero immediatamente in crisi non potendo sopportare il peso degli oneri che cadrebbero sulle loro spalle. E allora? Risponde Ugo Sala, presidente del sindacato abbigliamento del Fapim di Carpi: « Siamo d'accordo sulla necessità di regolamentare il lavoro a domicilio, ma è utopistico ritenere che il problema possa essere risolto con una legge. Esso, infatti, va visto in una prospettiva che impone la ristrutturazione del settore attraverso lo sviluppo tecnologico, la qualiflcazione produttiva, l'associazionismo economico fra piccole imprese, l'intervento dei pubblici poteri teso a favorire gli investimenti ». Il discorso degli artigiani, insomma, chiama in causa l'intera struttura dell'industria carpigiana che, si sa, fornisce da sola una larga fetta della produzione italiana di maglie. Le linee del rilancio sono già state fissate e hanno trovato consenzienti anche le organizzazioni sindacali. Primo punto: elevare la qualità della produzione. Dicono gli artigiani: « Voler continuare a competere puntando sulle qualità mediocri del prodotto realizzato a bassi prezzi, significa affrontare in modo svantaggioso la concorrenza di Paesi in via di sviluppo che hanno costi di lavoro notevolmente inferiori ai nostri perché determinati al di fuori di una civile contrattazione e legislazione sociale ». Gli oneri Secondo punto: applicazione di tecniche più avanzate. « Ciò è sempre necessario, ma comporta oggi un'entità ingente di mezzi finanziari d'investimento. Occorre quindi allargare i canali del credito artigiano, ottenere interventi finanziari a fondo perduto dalla Regione e finanziamenti dallo Stato (in Emilia le aziende artigiane hanno chiesto due miliardi e mezzo di lire) ». Terzo punto: riorganizzazione produttiva. « Una tale riorganizzazione può passare attraverso forme di associazionismo societario o consortile fra più aziende specializzate nel produrre parte d'un prodotto da comporre, da finire e da spe¬ dire. Ciò renderebbe possibile la conquista d'un mercato proprio, sottraendolo all'intermediazione ». Resta il problema delle lavoratrici a domicilio, ma gli artigiani ritengono che possa essere risolto con reciproca soddisfazione se, nel quadro della ristrutturazione del settore, venisse loro concessa la fiscalizzazione degli oneri sociali. Questo è il prezzo che l'intervento pubblico dovrebbe pagare perché l'industria carpigiana possa sopravvivere e mantenere la posizione di prestigio sui mercati internazionali. Filiberto Dani

Persone citate: Alfredo Tosi

Luoghi citati: Carpi, Emilia, Modena