Il golpe di Sua Maestà di Vittorio Gorresio

Il golpe di Sua Maestà 25 LUGLIO '43, RICOSTRUITO TRENTANNI DOPO Il golpe di Sua Maestà Più che un colpo di Stato, un colpo di mano militare, non privo di dilettantismo - Ne fu primo autore Vittorio Emanuele III: per eseguirlo si valse, come strumenti, dei militari - Il re non voleva un ritorno alla situazione costituzionale prefascista, ma pensava d'instaurare una monarchia assoluta: dopo la dittatura di Mussolini, la sua - L'obbedienza di Badoglio Roma, luglio. Il maggiore di S. M. Luigi Marchesi era l'ufficiale addetto al comando supremo che portava a Palazzo Venezia, per il visto del duce, il bollettino quotidiano sull'andamento della guerra, e Mussolini soleva meditarvi su lungamente perché gli annetteva una grande importanza per il suo effetto sulla pubblica opinione: «E cosi assai spesso riduceva le perdite di aerei e sommergibili a quelle che credeva opportuno denunciare». E' quanto si legge a pad- 32 del libro di Marchesi « Come siamo arrivati a Brindisi», edito da Bompiani nel 1969. Poche pagine avanti, con aria di nulla, Marchesi informa ancora che il capo di stato maggiore generale, Vittorio Ambrosio, nella prima metà di luglio del 1943 aveva ordinato che fosse predisposto un progetto per l'arresto di Mussolini. Lo studio del piano era stato affidato ad un generale giovane, Giuseppe Castellano, addetto anch'egli al comando supremo, che allora aveva sede in palazzo Vidonì al numero 116 di corso Vittorio Emanuele II, nel centro storico dì Roma: «Io ebbi notizia della cosa — scrive Marchesi con il distacco che sanno avere i testimoni d'eccezione — perché Castellano mi fece chiamare e mi disse che recandomi a Palazzo Venezia per il bollettino avrei dovuto studiare la possibilità di eseguire l'arresto di Mussolini nel suo ufficio». Si trattava di osservare l'organizzazione di sicurezza interna del palazzo, ciò che ovviamente era difficoltoso. Marchesi in ogni modo fece del suo meglio accattivandosi le simpatie del primo usciere («Mi pare che si chiamasse Navarra»; e nelle lunghe attese per l'udienza presso il duce talvolta gli riuscì di fare qualche giretto fuori del solito percorso dall'ingresso dì piazzetta San Marco fino alla sala del Mappamondo, studio del dittatore. «Mi accorsi che Palazzo Venezia era una specie di fortilizio (...) sicuramente il colpo di mano avrebbe dovuto essere cruento » ma l'ipotesi di passare Mussolini per le armi «non fu nemmeno accennata né allora né mai» e infatti Ambrosio e Castellano rinunciarono ad agire in Palazzo Venezia, provvedendo piuttosto a perfezionare un piano alternativo: in via preferenziale, arrestare Mussolini nel corso di un'esercitazione militare da organizzarsi nel polìgono di Nettuno, e in caso dì emergenza fermarlo a una sua uscita dal Quirinale o da villa Savoia, residenza privata di re Vittorio Emanuele al numero 265 di via Salaria: « Immediatamente dopo sarebbe scattato un vasto dispositivo di altri arresti, poiché il proposito di Castellano era che nessuno avesse notizia dell'arresto prima che Mussolini fosse trasportato in luogo a tutti ignoto ». Potere personale Se qui si fanno i nomi di personaggi relativamente minori — da Marchesi a Castellano ad Ambrosio — è perché è interessante conoscere anche le ruote motrici di un ingranaggio che aveva avuto a suo primo autore lo stesso re. Vittorio Emanuele III si valeva difatti dei soli mezzi che egli considerava a sua sicura disposizione — i militari — con esclusione presso che assoluta degli strumenti politici, fossero quelli prefascisti o antifascisti o fascisti impauriti e magari pentiti. L'idea del colpo di Stato fu appunto invenzione del re e la sua attuazione avvenne per mano militare: il 20 luglio, due giorni prima di sapere della convocazione della famosa seduta del Gran consiglio del fascismo, il ministro della Real Casa senatore duca Pietro Acquarone aveva puramente informato il generale Castellano che il re aveva «deciso» l'arresto di Mussolini per il 26, al termine della normale regia udienza del lunedì concessa settimanalmente al capo del governo. Quanto agli uomini del prefascismo, essi erano stati già messi da parte da Vittorio Emanuele, che cinicamente li definiva dei vecchi sorpassati, non più che spettri, « revenants »; e così pure l'antifascismo militante non era in grado di fornire un apprezzabile contributo all'abbattimento della dittatura: « Coloro che per coraggio e per capacità organizzativa sarebbero stati in grado di darlo — ha scritto il generale Castellano nel suo libro « Roma kaputt », Casini, Roma, 1967, pag. 25 — erano ancora in carcere o al confino ». Scrisse anche Togliatti su « Rinascita » del febbraio 1944 che il 25 luglio « l'intervento immediato ed energico di un movimento popolare, saldamente organizzato e ben diretto, sarebbe stato la salvezza e la fortuna d'Italia »; dunque, sarebbe stato, ma non fu. Tra gli storiografi del 25 luglio ci troviamo talvolta in cospetto di quella stessa mitologia che tende a presentare il Risorgimento come un largo movimento di popolo, ciò che non fu. Che la caduta del fascismo non sia stata determinata dagli scioperi operai del marzo 1943 è invece un dato storico accertato, e sarebbe del resto fare torto al popolo e ai partiti antifascisti attribuir loro una parte — grossa parte — delle responsabilità e insufficienze dei reali protagonisti di quel colpo di Stato all'italiana, concepito con tutta miopia ed attuato in un modo così approssimativo che nulla aveva di rivoluzionario. Forse neppure può chiamarsi colpo di Stato ma di mano, operato da un re che immaginava stoltamente di risolvere la situazione ripristinando il proprio potere, con un maresciallo Badoglio fedele esecutore sottomesso dei suoi ordini. C'è da pensare che il sovrano, per tanto tempo affascinato dalla personalità del duce, volesse ora succedergli, monarca assoluto dopo il dittatore. La Divisione "M" « La nomina di Badoglio non significava un ritorno alla procedura costituzionale prefascista, ma alla monarchia assoluta — si trova infatti scritto nel Surrender of Italy pubblicato a Washington nel 1965 dal Department of the Army —. Mentre Mussolini pretendeva per sé tutti i poteri, Badoglio si limitava da sé alla funzione di segretario esecutivo del re ». Concordano le informazioni del servizio segreto tedesco, secondo il quale Badoglio avrebbe detto al re il 15 luglio di non essere disposto ad accollarsi la successione di Mussolini, bensì d'essere pronto ad esercitare l'azione di governo per ordine e sotto la piena responsabilità del re; egli ne avrebbe eseguito alla lettera tutti i comandi. Se il re ordinava che sì continuasse a combattere a fianco della Germania, egli avrebbe obbedito; se l'ordine fosse stato di avviare le trattative per la pace, parimenti egli avrebbe obbedito. Il 25 luglio, verso sera, Badoglio si trattenne a palazzo Vidoni dove Marchesi 10 incontrò per la prima volta nella sua vita: « Ebbi una grande delusione. Vidi un uomo vecchio, stanco, che seduto su una sedia si asciugava continuamente il sudore e beveva da una bottiglietta di birra che ogni tanto posava per terra. Egli era 11 nuovo capo del governo chiamato a sostituire Mussolini. Durante tutto il tempo che rimase a palazzo Vidoni non sentii mai la sua voce. Intorno a lui erano i generali Ambrosio, Carboni, Castellano e Cerica. Consultavano un foglio di carta sul quale erano scritti i nomi dei probabili ministri del nuovo governo (...) nomi a me sconosciuti ». Quel piccolo consesso di generali esecutori di un ordine del re dà il senso della dilettantesca superficialità del cosiddetto colpo di Stato regale. L'iniziativa dei militari non era stata coordinata ed organica, come sarebbe dovuta essere da parte di un apparato che fosse rimasto efficiente: tutto si era limitato ad una operazione di alta polizia consistente nell'arresto di un capo di governo in carica, e condotta a buon fine mercé opportuni accorgimenti, del genere di quelli che sono alla portata di qualunque servizio di sicurezza militare o politico. Non c'era infatti stato bisogno di grande fantasia per depistare la scorta del duce e far trovare un'ambulanza nel giardino della casa del re; anche l'espediente di allontanare al momento buono l'autista personale del capo del governo (gli dissero che era chiamato al telefono e lo attirarono nei locali della portinerìa regale) non è un tocco finale che raccomandi alla storia l'esecuzione di un autentico colpo di Stato. Pare che i generali radunati il 25 luglio nella sala operativa del comando supremo in palazzo Vidoni non valutassero problemi politici generali: erano solo indotti ad occuparsi professionalmente della possibile reazione di una certa divisione motocorazzata chiamata «M» dall'iniziale del cognome di Mussolini. Essa era di stanza a sedici chilometri da Roma, nelle viciname del crocicchio dei Sette Venti sulla strada di Sutrì, armata con forniture tedesche, tutta composta di mìliti di sicura obbedienza fascista. Era nata da un accordo di regime fra Carlo Scorza, segretario del partito nazionale fascista, ed Heinrich Himmler capo delle SS tedesche. I tedeschi avevano mandato 36 carri armati Supertiger, i più nuovi cannoni da 88, le più moderne apparecchiature di intercettazione acustica, mitragliatrici, autocarri veloci per motorizzare le fanterie, nugoli di ufficiali e sottufficiali istruttori per inquadrare camicie nere veterane di guerra ed ormai destinate a farsi guardie pretoriane come le SS. Tragica lezione Racconta Paolo Monelli nel suo «Roma 1943» — il primo libro apparso a Roma nel 1945 su tali avvenimenti, e che a distanza di ventott'anni rimane ancora fra le più valide ricostruzioni dei fatti di quel tempo lontano — che i generali credevano che quella temibile divisione « M » fosse davvero pronta: « Ma era il solito inganno. In realtà, al 25 luglio la divisione era tutt'altro che in piedi. Gli artiglieri dei semoventi da 88 non avevano ancora iniziata l'istruzione, i carristi non conoscevano nemmeno il maneggio del carro, non c'erano ancora i servizi ». I responsabili del nostro comando supremo non ne erano informati, si facevano un incubo di un pericolo inesistente, e quindi appare che se i vecchi esponenti della casta militare agivano in quelle settimane insieme a qualche generale giovane, non era perché avesserò idee chiare o esatte informazioni, ma solo in forza dei poteri di cui godevano per lo stato di guerra e degli stretti legami di obbedienza al re. Ciò viene a dimostrare la limitatezza del colpo di Stato monarchico-militare del 25 luglio 1943, il solo «golpe» del genere che si conosca nella storia italiana. Non è un gran merito che nelle alte sfere militari, prima che in altri ambienti, ci si rendesse conto del disastro in cui la guerra fascista aveva condotto l'Italia. Nessuno meglio dei marescialli e dei generali doveva infatti conoscere lo stato d'impreparazione bellica del Paese; dopo che nella seconda metà del 1942 era stata perduta l'Africa, la successiva tragica lezione della sconfitta in Russia nel gennaio 1943 seguita a pochi mesi dallo sbarco nemico nel territorio metropolitano della Sicilia, bastava a far comprendere a chiunque che la partita era perduta. Perfino il re e perfino i generali avevano aperto gli occhi: la guerra era finita in catastrofe. Non c'è nessuna meraviglia che in virtù del¬ lo spìrito di casta adesso andassero a cercare un salvataggio del « loro » regime sacrificando come rituale capro espiatorio quel Mussolini che appariva giusto dare in pasto alla vendetta popolare perché obiettivamente egli aveva nel disastro la maggiore responsabilità personale. Ma non era colpevole lui solo: sul piano storico nessuno oserebbe affermarlo. Vittorio Gorresio (I. Continua) Roma '43. Vittorio Emanuele III tra alti ufficiali e gerarchi. Per il «colpo di mano» contro Mussolini, il re dovette appoggiarsi ai militari.