Pechino, 1911 di Giovanni Bogliolo
Pechino, 1911 Pechino, 1911 I giorni convulsi dell'agonia del Celeste Impero nel racconto di Victor Segalen Victor Segalen: «René Leys o il mistero del Palazzo Imperiale», Ed. Einaudi, pag. 211, lire 3000. Pechino, 1911: nei giorni convulsi dell'agonia del Celeste Impero, un viaggiatore europeo, inquieto e affascinato dal mondo cinese, cerca disperatamente di carpirne il segreto. Falliti uno dopo l'altro i suoi tentativi di dissipare il mistero attorno alla vita e alla morte dell'ultimo Imperatore, « vittima designata da quattromila anni come olocausto tra il Cielo e il Popolo sulla Terra », decide di cercare un accesso al luogo in cui questo olocausto si è consumato, la « città violetta proibita » che gli appare come la detentrice di quel segreto, l'imponente e inattingibile simulacro della verità. Suo tramite sarà un giovane belga, « buon figliolo di un ottimo droghiere del quartiere delle Legazioni » e perfetto conoscitore di tutte le sfumature della lingua cinese, che inaspettatamente, in un gioco sempre più serrato e morboso di amicizia e di complicità, si rivelerà pedina impor- I tantissima nella vita del Pa- lazzo: Bene Leys, professore d'economia alla scuola dei nobili, è anche (o finge di essere?) capo della polizia segreta e amante dell'Imperatrice. Il problema della vera identità del personaggio resta insoluto e, quando i dubbi incrinano la fiducia e l'appassionata connivenza del narratore, René Leys misteriosamente muore. Ridotto alla sua nuda sostanza narrativa, il libro sembra un classico romanzo d'avventure esotiche, ma la formula — che pure Segalen applica con elegante maestria — risulta troppo povera e assolutamente inadatta a definire le molteplici e nuove suggestioni del testo. Che non si tratti di un romanzo, l'autore lo dichiara fin dalla prima pagina: romanzo avrebbe potuto essere la storia emblematica dell'imperatore Kuang-Siu che egli non ha saputo evocare, ma questo che ci presenta è, molto più dimessamente, il diario di una iniziazione mancata. Assenti, o quasi, sono le avventure, confinate come sono nel tempo immobile della conversazione, nei sempre meno credibili resoconti di René Leys. Quanto all'esotismo, esso è a tal punto depurato da ogni corriva sollecitazione esteriore, da risultare più soltanto concepito come ricerca del Diverso e del Profondo. Ed è proprio su questa inedita interpretazione dell'esotismo che si colloca — ormai alla fine di una lunga tradizione della cultura e del gusto francesi, che proprio nell'ultimo scorcio dell'Ottocento aveva avuto un'improvvisa reviviscenza — la grande originalità del pensiero di Segalen. Sottile e schiva, la sua opera ha avuto bisogno d'una lenta decantazione per affermarsi e, anche oggi che un certo interesse incomincia a circondarla, sembra rifiutarsi alle banali semplificazioni del successo. Sia in Polinesia, sulle tracce di Gauguin, sia in Cina, per una lunga missione archeologica, Segalen ha sempre rigorosamente perseguito il disegno di « saggiare l'esperienza e cercare un senso all'avventura »; l'assoluto e impietoso bisogno dì conoscenza che impregna tutte le sue opere non insegue lontani miraggi di verità, ma si consuma in un'estenuante interrogazione del confronto tra Reale e Immaginario. Per questo la sua connaissance de l'Est risulta meno soddisfatta ma molto più drammatica e profonda di quella di un Claudel: la Cina è il luogo privilegiato di questo confronto, la terra in cui, secondo la leggenda, il drago della fantasia e la tigre della realtà si disputano eternamente l'oscura, indecifrabile moneta della verità. Ed ecco che dietro il tessuto dell'avventura esotica si disegna l'unica, la vera avventura della conoscenza interiore: « Le transfert de l'Empire de Chine à l'Empire de soiméme est Constant ». « René Leys » appare allora come un infinito gioco di specchi ambiguo e suggestivo, una nuova e più spietata contesa tra la realtà e l'immaginazione: il giovane mistagogo potrebbe anche essere soltanto la troppo perfetta materializzazione del sogno d'avventura del narratore, il suo alter ego vittorioso che sperimenta e realizza il paradosso della fantasia. Così il libro acquista tutto il suo significato iniziatico: solo che non è più la Cina a rappresentare il mistero, ma l'uomo e la sua inattingibile verità Giovanni Bogliolo
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