Quasi europei

Quasi europei RITORNO IN AMERICA Quasi europei San Francisco. Sono arrivato ieri l'altro, la sera del penultimo dell'anno. Sette ore dalla Malpensa a New York, due di attesa al Kennedy Airport, altre cinque di volo a San Francisco. Curioso, ma, finora, la più forte impressione di tutte, compreso il viaggio, l'arrivo, la visione notturna della massa dei grattacieli stretti sulle alture di San Francisco come un iceberg luminoso che si specchia nelle acque della baia, compresa la traversata in autostrada, per svincoli svolti viadotti tunnel ponti, della baia e delle tre città, San Francisco Oakland Berkeley, fino su, in collina, al quartiere residenziale di Spruce, compreso il nostro ingresso esitante nella villetta che ci è stata destinata e l'immensa ellisse delle luci intorno la baia, a cui mia moglie ed io ci affacciamo stupefatti dall'alto della terrazza, compreso il giorno dopo, ore ed ore passate a ciondolare per il quartiere di Albany, nel sole bruciante e nel vento freddo e teso dell'oceano, compresa la festa di Capodanno a casa dell'ingegner Facca, un simpaticissimo friulano, studioso e manager industriale, la più forte impressione di tutte resta finora per me una hostess del jumbo, tra New York e San Francisco. Come sono volate quelle cinque ore di volo! Naturalmente, non l'ho più rivista: così, allora, due giorni dopo, notai nel mio diario; e cosi, oggi, mentre scrivo, dopo sette mesi. Non l'ho più rivista. Ma la sua figuretta, grazie a quella precisione magica che talvolta la memoria possiede, mi è viva, qui, come se l'avessi sotto gli occhi. Alta (alta senza tacchi), ma grissima, flessuosa, lunghi capelli biondi sparsi sulle spalle, carnagione pallida ma trasparente luce come alabastro; sor riso continuo, malizioso e, a volte, forse, crudele, dello sguardo azzurro cupo e delle labbra tumide, semiaperte, sproporzionatamente generose in rapporto all'esilità delle membra; civetta, nelle mosse di danza e nei motti di slang, fino quasi a far sospettare in lei una leggera follia. Tailleur, redingote e pantaloni lunghi, di svolazzante shantung beige. Puntualmente, ogni volta che mia moglie si allontana da me oppure io mi allontano da mia moglie, si avvicina, mi sfiora quasi con una carezza: ha le mani sottilissime ma non nervose. Sia chiaro che fa cosi non soltanto con me: lo fa con tutti i passeggeri maschi e soli E' newyorkese e vive a New York. Straordinaria vitalità della sua presenza. Ma il segreto dell'effetto che produce su me è forse un altro: più profondo di lei, non sta nemmeno in lei. Qual è questo se greto? Era quarantanni che manca vo dagli Stati Uniti. « Vedrai, è tutto cambiato! » mi annunziavano alcuni amici sapendo della mia partenza. Alcuni altri, invece, mi dicevano che, leggendo o rileggendo il mio vecchio libro di quei tempi, avevano trovato un'America sostanzialmente identica a quel la di oggi. Due giorni a Berkeley non mi bastano certo per decidere se hanno ragione gli uni o gli altri. Ma posso dire tranquillamente che un'americana come la hostess del jumbo sarebbe stata, quarant'anni fa, inconcepibile. Sì, la scioltezza, la grazia, la disinvoltura, la spregiudicatezza, tutto quel comportamento alla buona, sono esattamente il contrario delle manierate, rigide, corrette moine delle sue pari degli Anni Trenta: delle altezzose e cerimoniose hostesses che, protocollare toilette nera e guarnizioni bianche, « ricevevano » nei Childs. La pallida, flessuosa, ironica ragazza del jumbo sarebbe, allora, il simbolo di una certa novità? Probabilmente l'America non avrà ancora abbandonato il suo duro conformismo di fondo. Ma ha sofferto per le guerre, per le crisi economiche, per i turbamenti sociali. Si è umanizzata, si è europeizzata. C'è stato uno scambio, tra noi e loro. Se noi abbiamo imitato loro, anche loro hanno imitato noi. Infiniti strumenti propri della loro civiltà industriale e pubblicitaria sono passati nel nostro costume. E sono passate nel loro infinite scioltezze e leggerezze della nostra antichissima capacità di adattamento. Una parigina, una londinese, una viennese, una milanese: ecco che cosa sembrava, la hostess del jumbo. L'avessi vista solo in film, ripresa « in movimento » e senza ausilio di colonna sonora, avrei giurato che, in ogni caso, non poteva trattarsi di un'americana. rgddvrzrcmanprndssdrFsFflrvvcaollrmtqbpiccPsMaaccnmsb e i , , a l Oakland. Un po' in ritardo sugli americani di stirpe anglosassone o germanica, e cioè un po' meno diversi dai loro rispettivi padri e madri, mi apparvero, invece, e subito, gli italo-americani. Fatalmente, le minoranze etniche tendono a conservare. Perfino gli immigrati da pochi anni, tendono immediatamente a chiudersi in se stessi, a raggrinzirsi, a invecchiare. E, nonostante tracce di un sicuro progresso visibili anche in loro, gli italo-americani che conobbi alla festa di Capodanno dell'ing. Facca restavano più simili agli italo-americani o, semplicemente, agli americani del 1929 che non alla maggioranza degli americani di oggi. Fra un centinaio di invitati, il solo veramente moderno era Facca stesso. Una grande villa verso Lafayette, alta in collina su Oakland. Un seguito di stanze terrene e a livelli livemente diversi: una sola vastissima living-room, a linee spezzate, che abbraccia prati in discesa: attraverso pareti di cristallo, oltre quinte di nere conifere, le luci lontane della baia c delle città. Qui, tavoloni di cibarie e di bevande. Griglie fiammeggianti. Filodiffusione a tutto volume. Danze, canzoni, e qualche accenno di coro. Ambiente colonialprovinciale: «un po' più su» dei miei antichi italo-americani del Bronx. Alcuni invitati sono originari anche di altre parti d'Europa. Per esempio, c'è un giovane svedese, che si chiama Olson. Ma tutti, appena cominciano a discorrere con me, il nuovo arrivato, si affrettano, non richiesti, a magnificare l'America e, ancora di più, la California: natura meravigliosa, clima ideale, un paradiso terrestre, vita comodissima, il più bel paese del mondo! Non che il loro entusiasmo non sia sincero: solo, mi pare troppo pronto e troppo insistente. Si direbbe che cerchino, così, e certo senza rendersene conto, di dimenticare qualcosa, di stordirsi soffocando l'eco di un rimorso intimo e inconscio che li molesta continuamente. Si direbbe che sia rimasto loro il dubbio viscerale, inconfessato, inconfessabile, se abbiano fatto davvero la scelta migliore. Si direbbe, insomma, che, magnificando la California e gli Stati Uniti, loro nuova patria, vogliano convincere non tanto me, quanto, un pochino ancora, loro stessi. L'Olson, poi, presentandosi, dice chiarissimo il proprio no me. Parlando inglese con scio! to accento americano e sapendo, inoltre, che sono italiano, confidava, forse, di non venire identificato. Senonché, io fui indelicato quanto lui incauto Lo vidi alto, grosso, biondo ce nere, udii l'indubbio nome, e subito gli domandai: « Swedish? ». « Yes », rispose arrossendo. Cercai di rimediare: dissi che ero stato varie volte in Svezia, la Svezia era un grande paese, mi piaceva moltissimo... Lui, allora, come se si vergognasse di essere svedese, partì di colpo in un lungo e particolareggiato elogio della Cali fornia. Non troppo diversa, purtroppo, la reazione di una vecchia signora, del resto molto simpatica, cittadina americana e residente qui da ormai mezzo secolo, che se ne stava seduta sola nell'angolo di un divano e veniva riverita a turno da ciascuno: vestita all'antica, di lucida e rigida seta nera fino alle caviglie, i capelli fini e bianchissimi ottocentescamente raccolti in compatta croc¬ r e ¬ chia sulla nuca. Mi presentarono, lei mi rivolse gentilmente la parola chiedendomi se avevo fatto buon viaggio. Ma, facilmente avvertito e affettuosamente acceso dalla cadenza del suo italiano, invece di rispondere esclamai: « Lei è genovese! ». « Sì », ammise a sua volta, pur non rivelandosi eurotofoba come il giovane svedese. « Genova è bella! » incalzai, rincarai. Ma lei scosse la testa amaramente negando, come se avessi detto un'assurdità, una incongruenza fuori discussione. E sospirò: « Per carità, lasciamo stare! Caso mai, in Italia, bella è Roma! ». Povera cara signora. Arrivava a negare la bellezza della nostra città più bella per non amarla più, non avere più dubbi, non avere rimpianti, persuadersi di non averne. Altri invitati erano, fortunatamente, più allegri, e di tutt'altro genere. Cinque amici, che si ritrovano lì per il Capodanno. Cinque compagni, prigionieri di guerra, dal 1943 al 1945, in un Camp in California. Tre lombardi, un piemontese, un emiliano. Venivano allora a visitarli con assidua regolarità, con doni di vestiario di cibo di libri, cinque giovinette italo-americane di San Francisco. Finita la guerra, sono tornati in Italia: ma per breve tempo, e non senza, cioè, avere predisposto tutto: il loro pronto ritorno qui, il matrimonio qui, il lavoro qui, la cittadinanza, una nuova vita. A nessuno di loro era passato per la mente che l'Italia potesse riprendersi così, e così in fretta. Si erano creduti furbi e fortunati. Intendiamoci: non gli è andata male, anzi. Piccoli industriali o impresari, hanno tutti fatto quattrini. Soltanto, hanno capito come stanno le cose. Emilio Fontana, piemontese della provincia di Pavia: così si dichiara lui stesso. Un lomellino molto occidentale. Il suo paese è Suardi, vicino a Pieve del Cairo, di qua dal Po, presso la confluenza del T.maro, quasi in faccia a Bassignana. Poco distante è anche Sale, dove ricordo vecchi amici, il dottor Calcaprina, l'ingegner Magni. Sono paesi incantati. Emilio Fontana è bruno, tarchiato, forte. Il business in cui ha fatto fortuna, una fabbrica di vernici a spruzzo. Discorriamo fitto mentre contempliamo divertiti le danze. Uno dei suoi quattro amici, l'emiliano, balla malgrado l'età con spettacoloso slancio: a passi lunghi, a giravolte, stringendo forte anzi « brancando » la sua dama, piegandola verso terra, sollevandola... « Balla da malavita! » dice ammirata mia moglie. Ed Emilio Fontana, intanto, mi racconta della prigionia e della loro vita, parla di Suardi, parla della Padania oggi: « Adesso, là, stanno bene. Hanno soldi. Non lavorano, non fanno niente. Tutto il santo giorno al caffè a giocare. Che vita! Siamo noi che abbiamo sbagliato. America! America è quella là, oggi! ». Esagera, naturalmente. Al rovescio di Olson e della signora genovese, esalta il vecchio continente, si lagna dell'America, e non nasconde il proprio rammarico. Ma, più delle sue parole, conta il tono. Questa nostalgia dell'Italia confessata così apertamente, questo ilare sfogo, che cos'è, in fondo, se non la più bella prova che si tratta di un uomo contento? Mario Soldati