ERA SELVAGGIA IN GIAPPONE di Michele Tito

ERA SELVAGGIA IN GIAPPONE ERA SELVAGGIA IN GIAPPONE Correre, dove? (Dal nostro invialo speciale) Tokio, luglio. L'« era selvaggia », che adesso esplode, mette in risalto tutti i fattori di crisi del Giappone: mai l'economia ha dovuto subire traumi più gravi, mai tutte le cose sono state messe così duramente in discussione e mai sono apparse più necessarie scelte di vita nel momento stesso in cui sembrano impossibili. Emerge un Paese profondamente scontento di sé: non tanto delle proprie istituzioni, ma di com'è, di come sono le città e le fabbriche, le scuole, la vita in famiglia. Il problema di « come apparire al mondo » è un'ossessione collettiva; e il dubbio che il mondo non possa amare, e magari accolga male, un Paese così « diverso » come il Giappone sente d'essere non è un dubbio politico: è un'inquietudine esistenziale, la vivono tutti in ogni momento della loro giornata. Per un secolo, da quando gli Occidentali ne forzarono i porti, il Giappone ha vissuto alimentando l'immagine delle due anime: l'antica civiltà e le conquiste della tecnica moderna; il kimono e l'aereo. E' stata un'immagine di comodo per tutti. Gli stranieri se ne sono serviti per spiegare a se stessi il fenomeno incredibile di una gente « barbara » e arretrata capace di dar vita ai modi di produzione di ricchezza dell'Occidente, o divenire una minacciosa potenza militare, oppure conquistare una travolgente forza economica. I giapponesi ne hanno fatto, finché loro conveniva, una spece di ideologia, la sola ideologia realmente operante a tutti i livelli; la sola permanente e, nella sostanza, inalterata fino ad oggi: spiegava le crisi, giustificava le inquietudini, nello smarrimento degli uni rendeva più sicuro il potere degli altri. Nello sforzo di penetrarla e ricostruirla, la cultura giapponese si è letteralmente estenuata; è giunta a riconoscere di sé, nel pieno della crescita, ciò che si avverte sempre nelle civiltà che decadono dopo epoche di splendori: «Manchiamo d'immaginazione, non c'è un momento di creazione». ★ ★ E davvero non c'è creazione: in letteratura, in pittura, nel teatro e nel cinema può esserci raffinatezza, ma è un ininterrotto aggirarsi entro schemi ripetitivi, come delle culture irrigidite nell'immobilità. E' un'interminabile esplorazione della duplice anima giapponese, alla ricerca dei segni capaci di indicare quale aspetto, fra la tradizione e l'Occidente, prevarrà. In un Paese ove già da quasi un secolo non esistono più analfabeti e dove il prestigio dell'intellettuale è così alto da equivalere a quello dei profeti nelle società arcaiche, una cultura cosiffatta irradia in tutti i settori le conseguenze della propria scontentezza: e gli economisti si arrendono dinanzi ai problemi affermando di non avere soluzione e i politici hanno sempre come ideali « altri cieli », il cielo d'America o il cielo di Pechino. Tutti i segni esterni della vita giapponese, appena ai di là dei grattacieli di Tokio e delle megalopoli lungo cinquecento chilometri di costa, rivelano, più che l'automatismo vuoto di cui tanto si parla, un tormentato « correre senza crederci ». Ed è la denuncia di queste cose, di questi segni esterni, che porta ai movimenti di adesso e ai rifiuti inattesi, che vengono ora dall'alto, ora dal basso, e fanno le crisi, e sembrano minacciare un edificio. Se avanza la nuova casta degli affaristi che speculano sulle terre, avanzano anche i maestri delle cerimonie del tè, anch'essi annoverati dal fisco tra i più ricchi del Paese, come i « maestri fioristi », che hanno, quando sono molto noti, centinaia di migliaia di allievi: non si sa che cosa viene respinto, se il vecchio o il nuovo, o lo stesso futuro che fino a ieri, fino all'avvento del « cielo di Pechino », univa tutti in una specie di esaltazione di se stessi e della collettività: come se il bisogno di affermarsi tra le genti conquistando spazi e potenza fosse trasferito nell'avventura di conquistare il tempo, arrivando primi ai porti dell'avvenire. L'avvenire, che per noi rimane un'astrazione, per i giapponesi — sostanzialmente incapaci di astrazione — era una cosa concreta, una specie di binario su cui correre, con stazioni e passaggi a livello, che essi vedevano « dai contorni incerti »; ma era una suc¬ cessione di conquiste, di affermazioni, di primati. Come un Paese che si trova in guerra ignora le divisioni interne per l'esigenza di fronteggiare un nemico comune, così i giapponesi, tutti, vivevano l'unità di fronte al bisogno di « conquistare » il futuro: il futuro doveva essere « conquistato » come si invade un Paese straniero, temendolo altrimenti nemico. ★ ★ Diversamente da quel che accade da noi, i giapponesi hanno emozioni, sentimenti, perfino, in alcuni momenti, pensieri, comuni a tutti e, spesso, per le cose che più contano (e che non sono né politiche né sociali) di eguale intensità. Vivono insieme, quasi allo stesso modo, i momenti delle grandi svolte: e le differenze tra minoranze e maggioranze non sono radicali, sono di accento, se non sono di preparazione verso atteggiamenti comuni. Per questo si può parlare del Giappone, di queste cose che altrove sono impalpabili e non misurabili, come non si può parlare di altri Paesi. Anche per questo, però, tutti i segni della crisi delF« era selvaggia », dallo stingersi dell'immagine delle due anime ai dubbi sul modo di vita e sul modo di produrre fino alle denunce delle istituzioni e alla « caduta dal futuro » che non ha resistito all'esigenza di una mentalità concreta ed empirica, non devono apparire come ferite. Il Giappone sta vivendo un tempo in cui non gli riesce di pensare: « non può pensare, può solo riflettere »; e l'antica scissione tra il vecchio e il nuovo cede il posto a un'altra avventura, ia scissione tra un pensiero inerme e un'intensa attività quotidiana. I fattori di crisi, intensamente vissuti, possono portare a modifiche rilevanti nella struttura del Paese nel gioco complesso dei rapporti « fraterni » o « familiari » tra i gruppi sociali e all'interno dei gruppi sociali; ma la forza economica, l'espansione orizzontale e verticale non sono minacciate. L'errore più grave che si possa commettere è quello di credere che il « Giappone che soffre » divenga incapace di produrre sempre di più e di organizzarsi per la produzione. Certo le crisi di oggi preludono, senza ancora indicarle perché marca la capacità di richiamo ai una ideologia, a mutamenti negli indirizzi produttivi, alla ricerca di nuove vie per la ricchezza, che magari potrà essere meglio distribuita o diversamente considerata: non più forse, come adesso, inseguita ciecamente e al tempo stesso rifiutata come valore. I problemi dell'inquinamento, divenuti problemi di sopravvivenza fisica, indurranno certamente a considerare la ricchezza prodotta una cosa da usare per la vita quotidiana piuttosto che da utilizzare per formare altre ricchezze in un processo portato all'infinito e alimentato dal prevalere del « prestigio » sui bisogni di ognuno. Certo più minacciata di ogni altra cosa, oggi, è la vita organizzata, quella economica e quella civile, come una riproduzione, in tutti gli stadi, dello « Stato famiglia », con i padroni come patriarchi che comandano ma consultano i familiari, che hanno difetti e durezze che non sono considerati difetti del sistema ma degli uomini, e pregi e capacità di protezione che li rendono anche più forti. Questa minaccia appare in concreto dai contrasti tra generazioni, dal tramonto delle comunità rurali, in via di sparizione totale, da cui il sistema ha tratto la propria logica organizzativa, dai drammi e dalle condizioni di ogni giorno. Ma niente di ciò che investe direttamente la capacità di produrre e di espandersi economicamente è realmente minacciato. Mutando le forme dell'organizzazione, mutando i tipi di rapporti, di crisi in crisi, tra profonde inquietudini, il Giappone rivela ancora, all'inizio dell'«era selvaggia», la capacità di organizzarsi per produrre e di rinunciare a tutto, quando è impossibile fare altrimenti, pur di salvare le possibilità di « correre » con la propria economia. Sa organizzare, in questo periodo di crisi senza precedenti, la ricerca scientifica e nuovi tipi di società commerciali, mantiene intatto, perché anche questo comune a tutti, uno spirito aggressivo, un'ansia di affermazione collettiva che è forte e diffusa. II Giappone si muove spinto da sentimenti e da considerazioni empiriche. Ora il suo sentimento è quello di un Paese che deve correre sempre perché altrimenti gli « altri » lo lascerebbero ai margini. C'è ancora da domandarsi se le crisi di oggi non vengano dalla fine di un'epoca in cui il Giappone aspirava ad essere « come gli altri » e voleva imitarli. Oggi il sentimento collettivo di base è che il Giappone è diverso e unico, non lancia sfide, ma ha molte conquiste da fare, come vuole, come gli viene, per se stesso. Se è in pericolo, è la nuova identità del Paese del Sol Levante. Michele Tito