Tramonto del taylorismo di Andrea Barbato

Tramonto del taylorismo VERSO UN NUOVO MODO DI PRODURRE Tramonto del taylorismo Charlot, Tornino di "Tempi moderni" impegnato in un lavoro ripetitivo e frammentario, sta uscendo dalla fabbrica - Il principio della catena di montaggio non soddisfa più gli esperti ed è respinto dagli operai - Per sostituirla non bastano altre macchine; occorre trovare un nuovo e difficile equilibrio tra tecnologia, costi, psicologia del lavoro, ambiente - La posizione dei sindacati (Dal nostro inviato speciale) Roma, luglio. Immaginiamo per un istante che lo Charlot di Tempi moderni, l'omino costretto in fabbrica a ripetere centinaia di volte lo stesso gesto fino a trasformarsi in un robot disumanizzato, invece di rifugiarsi nella poesia e nella solitudine, scopra un giorno di non voler più inseguire la velocità crescente della linea che gli scorre davanti; e anzi si metta in capo l'idea dì compiere anche altri lavori, più responsabili e creativi. E immaginiamo che questa sua cocciuta volontà di non essere più una «scimmia ammaestrata » modifichi dapprima tutti i rapporti interni della fabbrica stessa, alteri profondamente il profilo e la disposizione delle macchine, e costringa alla fine a trasformare l'intera organizzazione «scientifica» del lavoro e perfino il modello dello sviluppo industriale. E' un film ancora tutto da fare, anche perché la storia che vi sì racconta è appena cominciata, nella realtà. E non si svolge senza sussulti, resistenze o dubbi pratici e teorici. Assistiamo alla nascita contemporanea di una serie di dati contraddittori: da una parte c'è la coscienza, ormai accolta e diffusa in ogni ambiente e da parecchio tempo, che il modello di lavoro « americano » (quello di Frederick Taylor e di Henry Ford) basato sulla frantumazione dei compiti individuali di ciascun lavoratore, sui gesti elementari, sul rigido controllo disciplinare e gerarchico, sulla subordinazione dell'uomo alla macchina, sia in una crisi irreversibile. Dall'altra parte, non solo il taylorismo non è morto, ma ami l'Italia si trova in pieno nella fase che i tecnici definiscono di « meccanizzazione spinta», cioè di divisione del lavoro sempre più esasperata; e la fatica ripetitiva e meccanica, mentre comincia ad allontanarsi in alcune avanguardie industriali (per i motivi che vedremo e che som oggetto di dibattito), intanto contagia le piccole aziende e si afferma in altri settori del lavoro, anche impiegatizio o intellettuale. Vecchio Ford La condanna del taylorismo non è recente, sebbene Antonino Lettieri della Firn possa dire con ragione che « il fatto che la frantumazione del lavoro non sia accettabile sembrava futurologia solo due anni fa». Si può dire che sia stata una sentenza pronunciata contemporaneamente da tutti, all'interno della stessa civiltà industriale. E' stato ricordato che fu lo stesso Henry Ford, l'inventore della catena di montaggio, a scrivere in un suo libro ormai ingiallito, intitolato con ottimismo Il progresso, che occorreva rimettere insieme i pezzi, ricomporre il lavoro parcellizzato. Le spinte umanitarie si sono sommate alla protesta operaia, ma i risultati sono ancora tardivi e talvolta ambigui. Il ricco vocabolario che suggerisce i modi per modificare la monotonia e la passività del lavoro è tutto di marca anglosassone; ma l'operaio d'industria italiano ha imparato a scoprire da sé, giorno per giorno, quali fossero le forme della propria fatica che giudicava inaccettabili, prima ancora di sapere cosa sì nasconda dietro concetti come job rotation, job enrichment o job enlargement. Tanto più che quella raffinata elaborazione teorica manageriale non aveva portato se non in rari casi ad una vera trasformazione della qualità del lavoro. Ora, il taylorismo subisce un colpo mortale, anche perché appare quasi all'improvviso come un freno, un ostacolo all'introduzione di nuove tecniche di produzione. La catena (che non contiene tutto il lavoro industriale, ma ne è il simbolo) op- pare uno strumento arretrato e fragile. Non è tanto importante capire se sia nata prima l'insofferenza operaia o invece l'esigenza di rinnovamento tecnologico; più importante è capire se camminino nella stessa direzione. Il costo umano L'operaio di linea (e con lui tutti i lavoratori dell'industria) non vuole più sentirsi «mutilato»: il tipo di lavoro che gli è stato offerto quasi dovunque finora è povero di contenuto professionale, rigido, faticoso. Favorisce lo spreco e la sottoutilizzazione delle capacità, mette in risalto solo qualità fisiche elementari, provoca una separazione netta fra chi decide e chi esegue. E' un dramma quotidiano, che si manifesta praticamente prima ancora di precisarsi nel dibattito profondo sulle cause dell'alienazione. Lo si riconosce anche da parte imprenditoriale: « Nell'esecuzione del lavoro — dice il presidente dell'Intersind Boyer — l'individuo è alla ricerca di soddisfazione e di partecipazione che non trova nelle mansioni ripetitive e semplici ». E il presidente della Confindustria Lombardi ammette: « L'ambiente di lavoro deve oggi dare una certa gratificazione ». Ma subito dopo, sui modi e le forme di questa trasformazione, le idee si fanno molto diverse. Si fa strada l'idea della «ricomposizione dei frantumi»: assegnare cioè incarichi sempre più complessi e creativi, valorizzare la professionalità, identificare l'operaio con il suo lavoro. Si è capito che la presunta «scientificità» predicata da Taylor e Ford era tutt'altro che oggettiva e neutrale, ma tendeva al contrario a creare un operaio « senza testa ». Un primo tentativo, parzialmente fallito, fu quello di affidarsi all'intervento dì altre scienze, come l'ergonomia, l'ingegneria umana, la psicologia del lavoro: era ancora un percorso sbagliato, perché tendeva pur sempre a scoprire i limiti di adattabilità dell'uomo ad un meccanismo industriale considerato immutabile. Non meno deludente fu l'altra strada tentata, quella delle « relazioni umane », fiorite come una moda nel decennio scorso, e con le quali si cercava di superare gli ostacoli del sistema tecnico (tayloristico e fordiano) attraverso i rapporti interpersonali nelle aziende. Anche l'idea dell'automazione era un vicolo cieco: non solo per l'impossibilità di automatizzare moltissimi cicli produttivi, o per gli altissimi costi di una simile operazione (che tra l'altro richiede tecnologie invariabili); ma anche perché neppure in teoria risolveva il problema di fondo, e anzi avrebbe aumentato le distanze fra chi ha un compito attivo e creativo di progettazione e chi svolge una semplice mansione di sorveglianza. E' celebre l'insuccesso del dream plant della General Motors nell'Ohio: quella «fabbrica di sogno» che avrebbe dovuto render automatica la catena di montaggio e che gli operai americani sabotavano reagendo con rabbia ad un lavoro spersonalizzato, anonimo, non professionale. Nascevano, in tempi recen¬ tissimi, esperimenti interessanti: non solo in certi settori elettronici o meccanici italiani, ma soprattutto nelle ormai famose « isole » svedesi della Saab Scania vicino a Stoccolma o della Volvo a Goteborg e a Kalmar. Il dibattito sulla loro efficacia, e sui costi che richiedono, è arrivato in Italia insieme alla discussione sul «nuovo modo di lavorare » introdotto dai sindacati e insieme all'annuncio dei nuovi impianti a « isola » della Fiat. Se è vero, come dice Boyer, che « non ci sono esempi generalizzati e non si possono trapiantare esperienze altrui», è anche vero, come ha detto Petrilli all'ultima assemblea dell'Intersind, che da noi «i sindacati si sono fatti alfieri di esigenze che altrove erano stati gli imprenditori ad avanzare» e questo anche per ragioni che riguardano il nostro mercato del lavoro. Ma il discorso si è già allargato, e le valutazioni diverse sono più importanti delle primogeniture. Più che discutere i singoli progetti, è interessante capire con quali limiti è accolta la tendenza. Proprio di questo parla severamente Lombardi della Confindustria, quando ci dice che «ci sciacquiamo la bocca con slogans come "il nuovo modo di lavorare " senza tenere conto dei limiti obiettivi che ci sono». Eppure, questa posizione di resistenza imprenditoriale sembra superata dall'analisi che il mondo industriale ha fatto di se stesso, quando ha capito che fenomeni come l'assenteismo o il turnover (cioè il troppo rapido avvicendamento per abbandono degli incarichi) erano causati anche dalla qualità poco attraente del lavoro. Ricomporre i « frantumi » diventava un'esigenza produttiva, dopo essere stata una tentazione umanitaria e un motivo di lotta operaia. Si discute ormai ad un livello più avanzato, sul significato finale di questo « arricchimento », e sui modi per attuarlo. Con il prestigio Se è vero che da parte imprenditoriale occorrono, per questa trasformazione, nuovi impianti e nuovi investimenti, ma soprattutto una «disponibilità al cambiamento psicologico », come dice Boyer, è anche vero che da parte operaia e sindacale non mancano le perplessità e le riserve. Non si chiede solo che la macchina venga fatta sulla misura dell'uomo e non viceversa, ma anche il conseguente mutamento del rapporto di potere interno. Mentre si ricompone il lavoro, « si disgrega il rapporto autoritario e il capo perde prestigio e deve operare attraverso il consenso », dice Gino Giugni. Le nozioni e gli ordini non bastano più, l'organizzazione del lavoro «smette di essere una prerogativa dei tecnici, anche perché se le catene si fermano non è per diseducazione industriale, ma per insopportabilità dei ritmi », dice Lettieri. La tecnologia può essere cambiata, perché non è « né oggettiva né fatale », dice Sergio Garavini, dei tessili. La proposta di sfuggire alla ripetitività semplicemente unificando nella stessa persona due o più mansioni, se da una parte è considerata come una prima rottura del lavoro dì linea, dall'altra non basta: perché « due asini non fanno un cavallo », e cioè raggruppando due mansioni non si ha per risultato una professione. Ma anche perché qualcuno vi vede una fatica aggiuntiva, e cioè un metodo per eliminare quelle pause, quei tempi morti, quei piccoli riposi imprevisti che in fabbrica permettono di tirare il fiato. Attrezzare la macchina alla quale si lavora è un passo avanti, ma non è ancora lavoro creativo e anzi secondo alcuni potrebbe risolversi in un «aumento dello sfruttamento». In linguaggio sindacale, l'arricchimento deve essere «verticale» oltre che « orizzontale », la fatica dev'essere gestita e organizzata da chi la compie. Ma, per i più critici, anche queste sono risposte tecniche, che non escono dal criterio della massima produttività, e non mutano la condizione operaia. Da un lato, dunque, si teme che l'esigenza di ricomposizione del lavoro frantumato entri in conflitto con il progetto di tenere diviso il lavoro, e di « burocratizzarlo » in modo che solo al vertice si sappia seguire il ciclo produttivo; ma dall'altro, con una perplessità diametralmente opposta, si pensa che queste innovazioni possano essere un modo aggiornato di riproporre il criterio della massima produttività. In mezzo a queste due preoccupazioni, corre la linea di chi, pur con spirito critico, guarda con favore alla battaglia per l'arricchimento delle mansioni, al « contenuto del lavoro », come dice Bruno Trentin. Il « riformismo spontaneo» degli imprenditori, e lo sforzo tecnico e di investimenti che richiede, non è respinto a priori come un male. Il nuovo modo di lavorare esiste davvero, si tratta di mettersi d'accordo sui punti comuni, e soprattutto sul punto di partenza: quello di un operaio professionalizzato, «ricomposto anche collettivamente» all'interno della fabbrica. Se il rischio è quello di « umanizzare le scelte padronali » e di inseguire il mito della « fabbrica ideale », il rischio opposto è quello di restare nell'epoca dei tecnici della produzione, dei cronometristi, del giudizio «scientifico» sulla produzione. Parole e fatti Il lavoro in frantumi ha costi troppo alti per tutti, anche se non si vuole inventare «un'altra catena» più moderna e aggiornata. L'operaio-robot, scimmia docile, congegno del meccanismo industriale, è destinato a scomparire, anche se i sofisticati sistemi di management sperimentati all'Ibm, alla Philips o alla Saab non fossero trapiantabili in Italia in tutti i settori. E' una battaglia d'avanguardia, perché l'operaio italiano è ancora alle prese con i ritmi, le cadenze, e con la nocìvità dell'ambiente di lavoro. Quest'ultimo tema, anzi, appare sempre più strettamente collegato con l'organizzazione del lavoro: fra salute e «nuovo modo di lavorare» il rapporto è diretto. Accanto ai registri dei dati biostatici, agli indici e alle mappe ambientali, ai libretti di rischio, si fa strada nei lavoratori la tendenza al rifiuto di trasformare la nocività in guadagno salariale, e insieme la tendenza a non delegare ad alcun organismo tecnico il controllo di quei fattori nocivi (rumori, fatica, sostanze, temperatura) che provocano le malattie professionali e gli infortuni. Pur «senza la pretesa che un ambiente sano riscatti del tutto il lavoro», come ha detto Rinaldo Scheda, si è fatto di questo argomento un punto fondamentale, indagando pure in settori inesplorati come le «malattie da ritmi» o le nevrosi causate dalla monotonia. Morta da tempo nei libri di teoria manageriale, la vecchia fabbrica « all'americana » sopravvive nella pratica, e spesso si traveste per resistere. Ma ormai anche il progresso tecnico è contro di lei, e poi Charlot, l'omino con la tenaglia, non vuole più ripetere mille piccoli gesti tutti uguali. Andrea Barbato

Luoghi citati: Italia, Ohio, Roma, Stoccolma