Cos'è l'Europa di Alberto Cavallari

Cos'è l'Europa IL VIAGGIO DI GUIDO PIOVENE Cos'è l'Europa Parigi, luglio. Il caso vuole che io legga a Parigi l'ultimo libro di Piovene (L'Europa semilibera, Ed. Mondadori, lire 4000) che raccoglie un'indagine sull'Europa iniziata da Parigi e a Parigi conclusa. Nel piccolo albergo di Saint-Germain, dove abito, le parole e la vita quindi s'incontrano, in una verifica quasi fisica, mentre ogni sera la finestra inquadra bagliori elettrici, foglie lampeggianti di platani, voci di studenti che spesso (come nel '68) si scontrano con la polizia dagli elmetti di smalto nero. La tesi di Piovene è che l'Europa occidentale si presenti, oggi <«• confusa, indefinita, ambigua» avendo il solo vantaggio d'essere « una trappola che ancora non si è chiusa». Le nazioni europee gli appaiono « come bolle di sapone in volo, da descrivere come sono, tonde, iridate, sapendo che stanno per rompersi». L'Europa è «un carrozzone conservatore, accompagnato dagli sbuffi della rivolta, macchine bruciate, barricate, vetrine rotte, che avanza facendo scoppiare i petardi che trova sotto le sue ruote». Se qualcosa di nuovo avverrà, e di diverso, ciò partirà dalla Francia « unico Paese che si prepara al domani». L'unica nazione dove esistono «le premesse per una rivoluzione critica, e una tensione mentale che altrove si è perduta », è la Francia. Se questa profezia sia da condividere ancora non so. Vivendo simultaneamente ciò che leggo, mi rendo però conto delle verità dei dati che alimentano il ragionamento poco convenzionale. La Francia, che Piovene scopre come «sola candidata al futuro in Europa», non è un'invenzione né un suo desiderio. Tocco con mano infatti ciò che Piovene ha visto, guardando dove gli altri non guardano, vedendo ciò che gli altri non vedono, usando il dritto e il rovescio della sua intelligenza che, insieme, è razionale e medianica. Esiste davvero « la Francia filosofica, sola in Europa». Esiste «la borghesia pragmatica, senza cattiva coscienza, che obbliga il comunismo a non aprirsi e a non corrompersi ». Esiste « il ribollire del primo Paese europeo che abbia respinto il mondo di Yalta e l'europeismo pedestre ». Esiste «la sinistra senza funambolismi ». Esiste una Parigi nuova, senza cieli, « non più cupola Fortuny, e diventata laboratorio di nuove idee di libertà». Esistono insomma le « cose vi ste » insieme all'onda delle « cose invisibili » che solo viaggiatori di razza possono percepire. Non è una novità che Piovene fornisca capolavori alla letteratura di viaggio, dato che dal '53 (l'anno del De America) il suo giornalismo ci ha regalato sempre gioielli, come il Viaggio in Italia e Madame la France. Tuttavia, L'Europa semilibera stupisce ancora una volta per la capacità di Piovene di risuscitare un genere che si dava per morto, vedendo (come diceva Camus) « non solo le cose ma anche l'alone delle cose, o l'alone che preannuncia le cose ». Anche stavolta, infatti, la sua tecnica, fatta di una mescolanza di notazioni vere, cronistiche, fittamente legate a scatti quasi elettrici di grazia, d'intelligenza, di fantasia, attraversa la crosta degli uomini e dei paesi per fornirci una serie di radiografie d'eccezione. Anche stavolta, e forse in modo più lucido, il suo modo di guardare è quello del cristallografo che « rompe » in più punti d'osservazione materia osservata. Le pagine, a questo modo, diventano cristalli, radiografie, rilievi, sondaggi profondi, che sommano chiarezze e oscurità, percezioni misteriose e abbaglianti osservazioni. Il risultato è un'Europa studiata « al vivo » come lo fu l'America. Ma non al vivo nel senso dell'esterno, delle apparenze, della pelle Nel senso di portare alla luce i suoi sommovimenti profondi, i suoi chimismi, le sue patologie. Si tratta di un metodo che, come è noto, riserva a Piovene un posto a parte nel giornalismo italiano passato, in questi anni, attraverso una serie di crisi provinciali. Dopo la stagione degli orpelli neoclassici e delle « cose viste » ojettiane, il giornalismo italiano ha infatti creduto di rinnovarsi attraverso la cosiddetta « oggettività americana » (la scrittura a formule, tutta dati che somma il « chi, dove, come, quando ») e poi attraverso la polemica del « giornalismo che pensa » contrapposto al «giornalismo che guarda», Così la generazione di Piovene, intorno al '50, credette di ringiovanire, buttandosi nel grigio della cronaca pignola, notarile anche se a volte quasi flobertiana, e la generazione successiva, intorno al '60, credette di fare qualcosa di nuovo, buttandosi nelle compilazioni, nella citazione erudita, nella saggistica che ripudia « il saper vedere». Ma proprio Piovene ha dimostrato come nessun grande giornalismo possa esistere senza libertà di scrittura, senza accensioni d'intelligenza, senza fulminazioni dello sguardo, senza « il pensiero che vede e l'occhio che pensa ». Se per vent'anni il giornalismo italiano non è diventato un cimitero di formule fallite 10 si deve, senza dubbio, a pochissimi: al povero Emanuelli, per esempio, e a Piovene: rimasto scrittore goloso d'incontri, di descrizioni, di riflessioni, di percezioni quasi magiche, di rigori logici, di fantasie della mente. E se questo derivi dalla sua origine d'aristocratico veneto, esperto per sangue in relazioni di viaggio, o dalla sua pervicacia di pigro bastiancontrario, francamente non saprei dire. So solo che dalla costanza di questo scrittore, mantenutosi fedele alla tradizione dei viaggiatori del Settecento, e a quella più recente del Cecchi, dalla sua capacità di usare moderne lenti d'ingrandimento e binocoli rovesciati alla Proust, « velature » venete e acidi corrosivi anglosassoni da « gazzetta nera », il giornalismo è uscito sia dalle spiritosaggini longanesiane sia dalle secche dei falsi rinnovamenti. Ed è diventato europeo, nel senso più alto della parola. ★ ★ Misurandosi con l'Europa, 11 giornalismo europeo di Piovene fatalmente doveva fare centro. L'indagine che l'ha portato dalla Francia alla Germania, dalla Finlandia alla Spagna, parte infatti dalla sola angolazione possibile, cosciente (come diceva Chabod) che «l'Europa non è un fatto geografico delimitabile, ma una entità morale, di tipica elaborazione settecentesca, uno spirito di società alla francese, mai basato sulla razza, ma sulla preminenza di valori culturali e morali poggianti sopra un sentire di schietta impronta illuministica ». E il bisturi quindi affonda in un Occidente che dovrebbe aver conservato questo « spirito di società », per trovare una risposta alle domande che ci assillano. Si farà l'Europa? Ha ragioni di farsi? Ha degli scopi per farsi? E' ancora capace l'Europa di un potere inventivo che non può essere trasferito altrove? Tocca all'Occidente rispondere, dato che vive « in una trappola non ancora chiusa ». I Paesi dell'Est, chiarisce Piovene, sono europei, vivono in un sistema politico chiuso; quelli dell'Ovest sono «in oscillazione perpetua, assillati dagli ideologhi e schifati dalle ideologie, conservatori con spolvero d'anarchia». Loro è la decisione di scegliere tra vita e morte. La risposta è di una chiarezza senza precedenti perché scarta sia il conformismo europeista, che va di moda, sia la contestazione. Si muove svelta tra realtà e controrealtà, la corposità dell'economia e il diafano delle idee, lo smog dei falsi rimorsi e l'ambiguità delle tecnocrazie. Scopre che «l'Europa è già fini and izza t a e lo sarà sempre più », in una vita indefinita, mista, precaria, incerta tra varie attrazioni. Avverte che il destino europeo non è legato alle false costruzioni eurocratiche di Bruxelles, « nate dalla guerra fredda e da un desiderio d'unità come difesa contro l'Urss», ma — semmai — ad un avvicinamento tra i Paesi dell'Est e dell'Ovest tramite regimi non antitetici. Infatti, «l'idea della libertà liberale, com'è stata formulata dall'Occidente, ha già sgombrato il campo». Ai nostri Paesi «si chiede adesso d'inventare forme di socialismo un po' più attraenti delle vie nazionali, mentre la vecchia e cara Europa appare defunta ». La sola sfida da lanciare è, quindi, fuori dall'equivoco: «perché il momento buono per fare metà Europa è passato, ed oggi bisogna farla tutta». Ma il patto è di avere idee nuove, di « accettare un'idea di libertà in cui riscopriremo la figura di Omero cieco, una libertà per pochi, interiore, lirico-monastica, che non faccia male a nessuno, forse approvabile anche dal mondo collettivistico che ci attende». Altro patto, infine, saper fare una «rivoluzione critica». Quello, appunto, che solo la Francia mostra di poter preparare, e che può avvenire per molte strade, compresa la ripresa gauchiste, e attraverso trasformazioni morbide del potere previste anche da Marx. Erano anni, bisogna dire, che un viaggiatore non ci spediva dall'Europa lettere così brutali, pessimiste, e insieme cosi ricche di alternative precise. Ma sono le sorprese del «pessimismo dell'intelligenza» che, sempre, partorisce « l'ottimismo della volontà ». Apparentemente conservatore, il libro di Piovene è infatti carico di queste sorprese che non piaceranno a un'Italia «dissolta e mimetizzata nella sua borghesia diventata nugolo disordinato d'interessi e dove anche la sinistra soffre di dover lottare contro un avversario liquido». Ma l'Italia, nel libro, non è visitata. E' un malato cui nemmeno più vale la pena di chiedere se sia vivo o morto. Alberto Cavallari