Morto Secchia, il "duro,, del pci di Vittorio Gorresio

Morto Secchia, il "duro,, del pci Settanta anni, è stato tra i fondatori del partito Morto Secchia, il "duro,, del pci Voleva un partito bolscevico, in privato era un uomo allegro - Quattordici anni tra prigione e confino Roma, 7 luglio. Il sen. Pietro Secchia, del partito comunista italiano, è morto questo pomeriggio all'età di 70 anni nella casa di cura « Nuova clinica latina » di via Patrica. Al momento della morte il parlamentare era assistito da familiari, parenti e compagni di partito. (Ansa) Per molti anni, prima e dopo la Liberazione, Pietro Secchia fu considerato il «duro» del partito comunista italiano. Aveva avuto un nome di battaglia singolare, «Botte», era nato ad Occhieppo Superiore che è un paesino presso Biella noto al turismo come luogo di villeggiatura dei borghesi di Vercelli e all'industria per i suoi cotonifici, maglifici, fornaci. Muratore, meccanico, Secchia si occupò del movimento giovanile comunista a cominciare dal 1921, quando il partito fu costituito. Veniva dal gruppo di Ordine Nuovo come Gramsci e Togliatti. Nel 1929, adunatosi in Francia l'esecutivo del partito, si trovò ad essere l'arbitro in una grave situazione, essendo il partito diviso tra la tendenza staliniana e quella troschista. Togliatti aveva proposto una mozione di condanna per i .troschisti, con l'appoggio di Luigi Longo e Camilla Bavera. Altri 3 membri dell'esecutivo gli votarono contro, e uno solo doveva ancora pronunciarsi, appunto Pietro Secchia a nome dell'organizzazione giovanile. Votò a favore di Togliatti, e in questo modo il pei fu salvato all'obbedienza staliniana. Cospiratore, dirigente segreto, Secchia aveva il genio dell'organizzazione clandestina e una tempra di maestro, secondo i biografi ufficiali. Poco bello d'aspetto, dava qualche impressione di tristezza, nonostante fosse di temperamento abbastanza gioviale. Dirigeva da Parigi il lavoro di partito in Italia, e «quando avevamo qualche soldo in tasca — raccontò un giorno Secchia di se stesso — eravamo anche capaci di fare un po' di baldoria, e tra noi ci eravamo messi a fare un giornaletto umoristico II galletto rosso, che diffondevamo clandestinamente in Italia». Anche se era difficile immaginarlo spiritoso, non si poteva negare il suo senso dello humour. Già in Italia, la sua prima attività giornalistica era stata la redazione di un foglietto intitolato L'uomo che ride che egli diffondeva a Biella in poche copie scritte a mano da lui stesso e dai suoi compagni del movimento giovanile. Proprio per quel foglietto ebbe a subire le prime bastonate dei fascisti del luogo: «Ti facciamo ridere noi!», gli dissero volgari nell'aggredirlo. A parte le apparenze, Pietro Secchia era davvero un uomo allegro. Nelle mentite spoglie di turista svizzero passava e ripassava attraverso Ut frontiera italiana: «Una volta scesi da Saint-Moritz equipaggiato come uno sciatore. Ero perfetto: solo, non sapevo sciare». Incarcerato in Svizzera, trovò che il vitto della prigione non gli era sufficiente e domandò di poter fare la spesa: «Qui da noi non si usa — gli rispose il direttore — soltanto chi ha famiglia può ricevere pacchi». «Capisco — disse Secchia — però io ho fame e non ho colpa se non ho famiglia». «Che cosa vuole — gli obbietta il direttore — che vada io a fare la spesa per lei?». «Non vedo che cosa ci sarebbe di male». Un brutto giorno, a forza di passare e ripassare per la frontiera tra la Svizzera e l'Italia fu arrestato e condannato a diciotto anni di rarcere, e ne scontò quattordici tra prigione e confino, a Roma, a Ponza e a Ventotene. Faceva la solita vita dei detenuti comunisti; studiava e lavorava per il partito, e riceveva calze fatte con filo punteggiato secondo i segni dell'alfabeto Morse. Da bravo cospiratore. Secchia li traduceva trovandovi le deliberazioni del partito, e le copiava in caratteri minuti su cartine da sigarette che distribuiva ai compagni. Conquistato da Mussolini l'impero, venne l'amnistia politica del 1936 e insieme a molti altri Pietro Secchia fu assegnato al confino. A Ventotene si scoprì pittore, e alcuni suoi dipinti sono oggi l'orgoglio di famiglie di agenti carcerari e di ex militi fascisti nell'Italia meridionale. Come pittore. Secchia era di quelli che dovendo rappresentare un pesce lo raffigurano completo di tutte le scaglie e le pinne, così che gli isolani, le guardie carcerarie, i militi fascisti e gli agenti di polizia si convinsero presto che dell'isola era ospite non tanto un comunista pericoloso quanto un grande pittore. Erano in molti a volere «un Secchia», e il direttore del confino dovette intervenire: il confinato era libero di dipingere e vendere i suoi quadri, ma ali era proibito di firmarli, per evitare che si spargesse la notizia che il regime teneva confinato un grande artista. Un centurione della milizia faceva incetta dei Secchia alle quotazioni correnti nell'isola per rivenderli in continente a prezzo maggiorato. Pochi sono dunque i pezzi I che portano la firma di Pietro Secchia — soltanto quelli dei primissimi tempi — e ira ogni modo il genere suo prevalente fu l'arte sacra, perché nelle isole dell'arcipelago pontino egli riceveva molte commissioni per ex voto, e molte guardie di lui volevano madonne e santi da mandare alla chiesa dei paesi loro o da tenere in casa propria come immagini; e quindi Secchia dipinse molte madonne e più di un san Giorgio, e mise bottega addirittura, facendo buoni affari: un suo quadro di un metro per sessanta centimetri si vendeva, a quei tempi, fino a sessanta lire. Il «duro» Pietro Secchia, considerato sempre il vero duro del comunismo italiano, non è spiegabile se si trascurano i dati del suo temperamento. Nella biografia di Togliatti, Giorgio Bocca ce lo presenta come un politico largamente dotato, profondamente impegnato nelle lotte di partito, vittima di circostanze o di cattivi compagni; e tutto è esatto. Ma Pietro Secchia continuerebbe forse a rimanerci imperscrutabile o almeno difficilmente comprensibile, a non tenere conto della sua singolare varietà di uomo allegro e amabile in privato, e di politico tetro e intransigente. Egli avrebbe voluto che il partito comunista italiano diventasse un partito veramente bolscevico e unitario, espurgato dai pavidi, dagli opportunisti, dai disonesti, dai provocatori. Monotono, dogmatico, tendeva all'osservanza di una più rigorosa disciplina politica. Era quindi abbastanza naturale che egli non avesse troppa fortuna nello stesso partito comunista, che è sempre un partito italiano. Egli era infatti uno di quei duri e puri, scarsi di numero, sostenitori della necessità di un'operazione in profondo prima che si affronti la situazione contingente. Più che occuparsi dei problemi italiani secondo la visione comunista. Secchia difatti amava definire i doveri del comunista perfetto, onde nessuno si stupirà che in questi ultimi anni egli non abbia avuto molto spazio nell'interno del partito. Vittorio Gorresio Pietro Secchia