La bellezza rinnegata di Giovanni Arpino

La bellezza rinnegata TRAMONTO D'UNA PAROLA La bellezza rinnegata Esiste ancora la «bellezza»? Fu un'idea, tanto concreta quanto problematica, fu codice di comportamento e ricerca in arte. In quella parola era possibile trovare approdo, stimolo dialettico, una certa sicurezza di giudizio. Oggi, il termine affiora timidamente da qualche pagina di rivista femminile, e con banali significazioni. La parola « bellezza » incute timore. Non per un fatto semantico o mondano, ma per la carica che oscuramente sprigiona. E' parola che pesa, divide, dà e toglie. Abbiamo seguito le fortune di vari termini, scivolati mestamente in una parabola grigia: per umiliare un qualcosa di « grande » ormai lo si nomina come « grosso », l'erotismo ha depennato la parola « amante », l'accettazione dell'adulterio ha frantumato l'alone, romanzescamente proficuo, che circondava sia il libertino sia il peccato. La « bellezza », dunque, è punita col silenzio stesso imposto al vocabolo, scrupolosamente emarginato dai discorsi, scavalcato da un'infinità di eufemismi negli scritti. Una donna può essere graziosa o persino splendida, ma bella mai. Un'opera d'arte fruisce di mille definizioni e aggettivi, ma nessun estimatore convinto del proprio rango oserebbe chiamarla bella. Inutile risalire al Convìvio di Platone, illusorio rifarsi ai canoni d'un Winckelmann. E nella contorta spirale d'un orecchio contemporaneo sarebbe azzardato ricordare che il principale testo di Winckelmann usci nel 1764, l'anno in cui Voltaire pubblicava il Dizionario filosofico, a pochi mesi di distanza dal testo di Beccaria Dei delitti e delle pene. L'idea di bellezza, di « una » bellezza, si collocava allora entro un concerto di forme e cose e immagini e spazi che disegnavano per l'uomo una mappa di sicurezza spirituale, quindi dialogica e carica di futuro. ★ ★ La parola bellezza è morta perché sono spariti i concetti che la nutrivano? Usarla è peccato, un vizio di forma, una desuetudine verbale costruita su false pudicizie e oscuri dubbi. Ma cosa c'era, in effetti, di nervatura portante, di convinzione e destino dietro quelle tre sillabe? « Oggi, come sapete, io sono famoso, sono molto ricco, ma quando mi ritrovo solo con me stesso non ho il coraggio di considerarmi un artista nel grande e antico senso della parola... Sono soltanto un pubblico "intrattenitore" che capisce il proprio tempo... ». Chi parlava cosi, in un'intervista vecchia ormai di dieci anni? Non un uomo d'arte macerato da introversioni e nevrosi, ma Pablo Picasso. Cioè un individuo che di « bellezza » sapeva come pochi, sia nel costruirla, sia nell'angoscia creativa del ritradurla, o sfregiarla per necessità, vizio geniale e privato, spinta del bizzarro, smania d'invenzione. In nessun tempo l'artista è stato travolto, come oggi, da tante domande. Ad un romanziere, a un poeta, a un pittore, gli si pongono ininterrottamente i più astrusi e quotidiani « perché? » riguardanti il suo lavoro. Le risposte strappate col forcipe suonano imbarazzate, patetiche: nessuno osa opporsi o rifiutare o sottolineare che il segreto risiede nell'opera, che ogni opera — quando si palesa in modo legittimo — non necessita di ulteriori patenti o novelli atti di battesimo. Nessuno dice: ricerco per caso, ma è un sentiero che deve condurmi alla bellezza. Umana o disumana che sia. La fuga, la cancellazione della bellezza — come parola e dogma, come aspirazione e veicolo creativo — possono aprire voragini di ulteriori « perché? ». A questi, ovviamente, l'artista mediocre s'affanna per trovar giustificazioni, brancolando nel nonsenso e in pallido spavento di sé, mentre l'uso del mistilinguismo contemporaneo impedisce che determinati vocaboli, cosi assoluti e precisi, esercitino la loro funzione. Grandezza e bellezza, come amore e morte, fanno raggricciar la pelle del contorto autore e del più contorto critico. E si contano sulle dita gli individui che osano pronunciare queste parole, lasciandole cadere nell'altrui vuoto. Un giovane pittore, Lodovico Mosconi, mi dice: « Siamo vittime di chi ha paura, e chi ha paura non sa mai cosa dire. Per questo una parola come bellezza sprofonda sia per chi fa sia per chi giudica». E un altro pittore, Enrico Allimandi, sussurra: « La morte di una parola spaventa più della scomparsa d'un costume, un'abitudine, un maestro. Non è la mancanza del Bello, sempre in discussione, che fa male, ma il terrore che questo aggettivo ispira. I più grandi peccatori sono dei timidi. Come noi. Ci mangiamo la vita tra un atto di violenza e un susseguente chiedere scusa >>. Incautamente, a questo punto, potremmo tentare un controllo sull'uso dialettale del termine « bello ». Ma pur su questo versante la parola ha perso consistenza. Una cosa o una persona o un gesto, in vari dialetti, possono essere qualificati come « non belli »: a dimostrazione che la potenza originaria del vocabolo riesce a sopravvivere solo se capovolta entro uno specchio buio che la rinnega. ★ ★ Sappiamo benissimo cosa potrebbero rispondere certi mandarini della civiltà visiva: in un giro di frase, i nostri dubbi sulla perdita di valore o sull'esilio della parola « bellezza », verrebbero ineffabilmente ridicolizzati. Perché nessuno parla meglio di chi ha rinunciato a credere, provare, cercare. Nessuno trova più facilmente la montagnola critica sulla quale arrampicarsi per sdottorar nuovi proverbi. Ma non è a costoro che spetta la restituzione d'una parola che fu segno, mondo, concetto. Una restituzione non archeologica, perché la bellezza, non nominata, continua a esistere. Conclusa in sé come il canto della cicala, un sorriso fuggito. Lontana dalle impennate vocabolaristiche, ma operante nei sotterranei della coscienza, ove sa ancora atteggiarsi come termine di para gone. Chi ha voglia di ricordare la famosa « macchina del 10 scervellaggio » di Padre Ubù? Ha operato per anni sotto diversi camuffamenti, letterari e salottieri ma purtroppo anche politici. Fare arte, oggi, e cioè inseguire bellezza, significa ricercare gli splendidi granellini di polvere adatti ad inceppare quei meccanismi. Non è dell'orrido che la bellezza ha paura, ma della stupidità, pur se mascherata di verecondia. E Ubù, re di stupidità oltreché di incoerenza, fini in catene. 11 Bello si copri gli occhi con una mano già mozzata, per risparmiare se stesso e noi. Giovanni Arpino

Persone citate: Beccaria, Enrico Allimandi, Lodovico Mosconi, Pablo Picasso, Platone