Disinteresse italiano per la politica estera di Cesare Merlini

Disinteresse italiano per la politica estera CIO CHE IL NUOVO GOVERNO DEVE FARE Disinteresse italiano per la politica estera « Gli italiani hanno tutto da guadagnare se di più in più si abitueranno a riconoscere che in questo mondo che sempre più si impicciolisce, non vi sono più problemi esclusivamente nazionali, ma che quasi tutti i nostri problemi sono aspetti italiani di problemi europei o mondiali ». E' ancora vero questo che diceva Sforza nel '48, oppure siamo un Paese isolato? C'è da chiederselo, vedendo come, in tempo di crisi, ancora una volta la politica estera non ha rilievo negli elenchi dei « problemi da risolvere » e nei mandati negoziali su cui si tratta fra i partiti. Eppure, la posizione di ministro degli Esteri è molto ambita, riservata come è a personaggi di prestigio in « orbita di parcheggio ». Scegliere questo o quel ministro economico o dell'Istruzione, oggi anche delle Poste o della Sanità, significa, in una certa misura, scegliere una politica nel settore;- e pertanto si incontrano resistenze e consensi. Il dicastero degli Esteri, invece, non « costa »; la scelta del ministro è fatta per motivi di equilibrio ad alto livello e dice poco su quella che sarà la « sua » politica. Questa volta, però, se si vuole, come si proclama, un governo che operi efficacemente e non temporaneamente, occorre investirlo, nel suo complesso, del problema della collocazione del Paese. 1 motivi sono due: innanzitutto, come dice Kissinger, siamo di fronte a una fase completamente nuova delle relazioni internazionali; in secondo luogo è ora più difficile ancora che ai tempi di Sforza distinguere la politica estera da quella interna. Entrambi i motivi incidono su una dimensione della nostra politica estera, che è praticamente l'unica dove conta quello che facciamo: la dimensione europea (anche De Gaulle credeva di poter fare una politica su scala mondiale, ma ha lasciato poi un segno profondo solo in Europa e non è, purtroppo, un segno positivo). Ora, se si sceglie di continuare come prima, prenderà vieppiù piede quella strana mescolanza di tre diversi atteggiamenti - « 1) non possiamo reggere, se ne riparlerà quando andremo meglio; 2) la Comunità non ci conviene, paghiamo di più di quello che ricaviamo; 3) questa Europa non ci basta, non ci piace» - che da tempo serpeggia in Italia: e la crisi sarà grave, perché esiste un legame diretto fra la nostra appartenenza alla Comunità e la stabilità delle nostre istituzioni democratiche. Se invece ci si rende conto che il processo è di nuovo, quasi come dopo la guerra, in una fase costruttiva, onde la semplice adesione, foss'anche corretta e completa, ai trattati e ai deliberati comunitari non basta, ma ci vuole una presenza attiva e ricca di idee, allora si può utilizzare quella reazione positiva che c'è stata nel Paese e che ha visto il contributo di forze nuove, cioè non tradizionalmente europeiste, in campo politico, sindacale e imprenditoriale. Perché una fase costruttiva? Gli Usa hanno messo sul tavolo alcune proposte che poi possono essere riassunte in quella della nuova « carta atlantica »: un negoziato commerciale con l'obiettivo delle tariffe nulle, un nuovo ordine monetario, una partecipazione europea allo sforzo difensivo e un negoziato globale di sicurezza con l'Est. A questo possiamo rispondere in quanto Europa dei nove o in quanto i nove dell'Europa. Contemporaneamente la Comunità si trova a dover decidere se darsi, in materia di politica di sviluppo regionale equilibrata e di politica industriale e sociale al livello d'uomo, quelle risorse e quegli strumenti d'intervento di cui dispone nel caso unico (e perciò insostenibile a lungo termine) della politica agricola. Si può partire dall'ipotesi che ben poco di questo si farà, che comunque le posizioni dei maggiori governi (Parigi, Londra e Bonn) sono già fissate e che tutto il nostro problema consiste nello scegliere di volta in volta l'alleato, cercando di essere più l'ultimo dei grandi che il primo dei piccoli (ci si è prestata l'intenzione di un rapportò particolare con la Francia, per il quale siamo pronti a lasciare cadere certe richieste istituzionali) . Al contrario, l'esito dipenderà dallo scontro fra spinte e resistenze, che passano per i governi ma anche all'interno dei governi; per cui si tratta di vedere in che modo e in che misura le forze del nostro Paese vi contribuiranno. L'ambizione del nuovo governo dovrebbe essere quella di orientare questo contributo, il che non è facile, perché richiede di rovesciare una tendenza. Se « l'ardir non è molesto », suggerirei per cominciare: 1) diciamo, chiaro e tondo, che per noi l'Europa è una scelta di sistema e non ci vogliamo stare con un piede dentro e uno fuori; che restiamo per tutte quelle misure che portano al rafforzamento delle istituzioni comuni (capacità negoziale verso l'esterno, ruolo d'iniziativa della commissione, poteri del Parlamento europeo) e alla loro rappresentatività democratica (elezioni dirette, partecipazione delle componenti sociali); che siamo pronti ad affrontare le implicazioni dell'integrazione politica e anche difensiva. 2) Mettiamo un po' di or¬ dine e di efficienza nei nostri rapporti con la Comunità: è una materia che è stata attribuita alla competenza del ministero degli Esteri, ma di fatto investe diversi importanti dicasteri (Tesoro, Agricoltura, Bilancio, Industria ecc.), donde un'esigenza ormai drammatica di coordinamento; ora non si vede chi possa realizzarlo se non la presidenza del Consiglio (non a caso De Gasperi si era spesso attribuito il portafoglio degli Esteri). Guardiamo ai nostri vicini: in Francia è stato costituito un servizio agile ed efficace alle dipendenze del Presidente della Repubblica, in Germania le questioni comunitarie sono gestite dal ministero degli Esteri e da quello dell'Economia, sotto il controllo diretto della Cancelleria. 3) Non mettiamo un «capito¬ lo europeo» nei piani di sviluppo economico (che poi suona pressappoco così: dopo vedremo di armonizzare tutto ciò con i nostri partners, i quali ci devono aiutare a risolvere alcuni problemi), ma formuliamo questi piani tenendo conto di quello che succede nella Comunità e dando ai nostri operatori sufficiente elasticità all'interno di un preciso mandato, per negoziare, concordare e, infine, pianificare congiuntamente (finora si è fatto il contrario per cui l'elasticità era poca, ma il mandato vago, come nel caso della moneta). Così non saranno certo risolti tutti i problemi, ma la politica europea dell'Italia riacquisterà una credibilità, che è andata perdendo gravemente Cesare Merlini Direttore dcll'Ist. Altari Internazionali

Persone citate: De Gasperi, De Gaulle, Kissinger, Sforza