Tra Islam e Occidente

Tra Islam e Occidente AFGHANISTAN, MEMORIE E REALTÀ D'OGGI Tra Islam e Occidente Il Paese ha il più basso indice di industrializzazione del mondo musulmano - Un'economia elementare, una popolazione arcaica - Aiuti stranieri (da Urss, Usa e Cina) per costruire scuole e strade: non esistono ferrovie Al potere un'oligarchia che ha studiato in Europa - Influenze del mondo capitalista e di quello comunista (Dal nostro inviato speciale) Balkh (Afghanistan), giugno. Forse in nessun altro luogo d'Oriente il contrasto fra le memorie di un grande passato e la realtà del presente è così acuto come davanti a queste mura ciclopiche, che cingevano un tempo la ricca capitale sulla via della seta e oggi s'allungano nella steppa per chiudere soltanto vortici di polvere sollevati dal vento caldo. Balkh era «meravigliosa e coronata di bandiere» un millennio prima dell'era cristiana, quando Zarathustra predicava alle nomadi tribù ariane il lavoro dei campi e l'unione nel nome di Ahura Mazda, il dio creatore e benefico. Qui Alessandro ventenne trascinò in catene il satrapo Besso, per punirlo con la morte dell'uccisione del suo re, Dario; di qui le falangi macedoni, prostrato l'impero achemenide, mossero verso il passo di Khyber, alla conquista dell'India. Ancora un millennio e mezzo più tardi Balkh, che gli arabi avevano chiamato «madre di tutte le città», fioriva di una civiltà splendida e raffinata fino alla decadenza: mentre l'Occidente tentava la mediazione scolastica tra fede e ragione, qui risuonava il moderno scetticismo di Omar Kayyam che tra le spalliere di rose sulla via dei venditori di schiavi dimenticava nell'ebbrezza del vino proibito la suprema insolenza del creatore: «V'è una Coppa che la mente grida perfetta e questo Vasaio del Tempo la forma e poi, crudele, a terra di nuovo la spezza». Anche il destino della città perfetta era già segnato: un secolo dopo i duecentomila mongoli di Gengis Khan avrebbero trasformato la via della seta in via della morte e Balkh «d'un sol colpo fu ridotta a desolazione — secondo la testimonianza oculare del cronista Juvaini — e le regioni attorno divennero deserto; la maggior parte dei viventi perirono e le loro ossa finirono in polvere, i potenti vennero umiliati nelle calamità della perdizione». Lontane civiltà Oggi la capitale aperta alle più lontane civiltà, che l'aveva no arricchita nel corso dei millenni di bronzi romani, colonne e peristili greci, volumi della sapienza araba, avori indiani e lacche cinesi, gemme e pellicce dell'Asia centrale, è un chiuso villaggio di tremila anime. Sotto l'unica arcata superstite dell'antica università di Sayid Subhan Quii Khan un povero mercante espone su una stuoia cattive riproduzioni dei leoni di alabastro che ornavano le antiche tombe e rozzi flaconi per il kohl; cammelli ruminano stolidi e piccoli asini brucano irrequieti sull'acropoli deserta sotto il sole feroce. Le mura antiche, erose dal vento della steppa e screpolate dal calore, sembrano un immenso castello di sabbia dilavato da un'onda improvvisa: sui fianchi affiorano dall'argilla ossa di schiavi e la guida spiega che venivano sepolti vivi per una manciata di creta lasciata inavvertitamente cadere. Preferisco pensare ai morti di stenti o di colera, che era più spedito impastare nei bastioni, risparmiando la fatica di scavare una fossa: ma il gruppetto di turisti rabbrividisce al contatto con la leggendaria crudeltà dell'Asia. Tutto l'Afghanistan mi ha dato l'impressione di un Paese irresoluto tra la nostalgia di un glorioso passato e le molteplici tentazioni di un incerto futuro, tra l'Islam e l'Occidente. È stato il primo, tra i Paesi che oggi si direbbero del Terzo Mondo, ad ottenere, cinquantacinque anni fa, l'indipendenza. Ma a condizioni tali — come Stato cuscinetto tra i grandi imperi russo e britannico, con la garanzia della più assoluta neutralità — che il suo sviluppo è stato piuttosto rallentato che favorito dalla precoce emancipazione. L'Italia, ad esempio, che fu la prima nazione europea a riconoscere il nuovo Stato nel 1921, potè iniziare un programma di assistenza (esperti sanitari e finanziari, ingegneri, piloti) solo dopo aver ricevuto una grossa partita di cotone afghano, in modo che gli aiuti apparissero l'assolvimento di un debito e non determinassero obbligo alcuno di riconoscenza politica. Nel 1928, quando l'emiro Abdullah durante un viaggio a Mosca concesse ai sovietici la prima linea ferroviaria sul territorio afghano, le implicazioni strategiche del contratto parvero ai servizi segreti inglesi motivo sufficiente per sollevare le inquiete tribù pashtane contro il re, che fu detronizzato e costretto all'esilio. Cosi l'Afghanistan è l'unico Paese al mondo che non abbia un metro di strada ferrata e forse l'unico in cui una popolazione conservatrice abbia destituito un sovrano progressista, spaventata da troppo audaci riforme. Da allora il Paese si è ripiegato su se stesso, come le case indigene che alzano verso l'esterno la cinta di mura cieche (dietro l'ingresso un corridoio a zeta impedisce addirittura che uno sguardo indiscreto si possa insinuare per caso) e si introflettono aprendo finestre e arcate soltanto sul segreto giardino interno. Il governo di questo Paese situato al punto di incrocio «di vecchi e nuovi imperi, di vecchi e nuovi imperialismi — per usare le parole dell'ambasciatore Pietro Quaroni — ha sempre agito tenendo presenti le sottili insidie delle più recenti forme di colonialismo. Non ha esitato, per esempio, a sacrificare il vantaggio della standardizzazione industriale all'esigenza di diversificare gli interventi stranieri, perché le conseguenti influenze politiche si elidessero a vicenda». Anche oggi, mi ha detto uno dei 44 italiani che risiedono nel Paese, «non c'è un particolare interesse per le ricerche petrolifere: dicono che l'oro nero è sempre stato il prezzo di una qualche forma di servitù e preferiscono stimolare quelle archeologiche, che contribuiscono a dare al Paese il senso e l'orgoglio del proprio passato». Il risultato è che l'Afghanistan ha il più basso indice di industrializzazione del mondo musulmano (che è a sua volta uno dei più bassi del globo): è impiegato nell'industria lo 0,1 per cento della popolazione (le statistiche sono del 1958, ma ancora valide) contro TI,05 dell'Iran, 1*1,36 del Libano, 1*1,13 dell'Egitto e, tanto per avere un termine di riferimento, il 5,44 per cento della Francia nel 1815. Non è incapacità, piuttosto profonda diffidenza verso i modelli delle società occidentali: «Ci spaventa — mi ha detto francamente un funzionario ministeriale — salire sulla groppa della tigre ed essere, come il Giappone, trascinati in una corsa sempre più frenetica verso la catastrofe ecologica». Non so quanto questa preoccupazione sia da attribuire al lungimirante proposito di evitare gli errori dell'Occidente e quanto al timore dell'effetto traumatizzante che uno sviluppo troppo rapido potrebbe avere su una popolazione arcaica e su un'economia a livello di semplice sussistenza, che utilizza ancora l'aratro di legno e un tronco di gelso come erpice. Certo, la grande fabbrica moderna si innalzerebbe tra i campi di grano come una cattedrale nel deserto e per ora gli aiuti stranieri (800 milioni di dollari dalla Russia, 500 dagli Stati Uniti, 28 dalla Cina Popolare) sono giustamen te destinati alla creazione delle infrastrutture elementari: strade, linee aeree di comunicazione, scuole. Le possibilità di un decollo dell'economia appaiono ancora remote, mancando ogni forma di accumulazione capitalistica; ma si manifestano egualmente i primi segni di miglioramento del tenore di vita della popolazione. Certo, di fronte all'oligarchia cosmopolita che è al governo, educata nel colleges inglesi e nelle grandi università francesi e italiane, la popolazione appare ancora rinchiusa nel blocco del la società musulmana, congelata da secoli nell'osservanza rituale «Iella Sonna. Ma l'influenza occidentale comincia a scalfire la superficie del monolito, con la doppia punta socialista e capitalista. A Kabul i russi hanno fornito non solo tecnocrati, ma ispirato anche il movimento di emancipazione femminile che gestisce in un moderno fabbricato la scuola materna per i figli delle donne lavoratrici e corsi professionali per sarte, parrucchiere, modelle, indossatrici. Dal mondo capitalista sono giunti i primi alberghi lussuosi, capisaldi logistici del turismo qualificato, e i modelli della civiltà permissiva e consumistica. E' sempre più difficile, per la popolazione, rimanere immune da queste influenze, e anche il più distratto dei turisti non può non cogliere i primi sintomi di contagio. Gli autocarri, ad esempio. sempre più numerosi a mano a mano che si allarga la rete d'asfalto. Ma appena giunti dalle fabbriche russe, americane, giapponesi, vengono subito ridipinti con fiori, geroglifici, paesaggi «naif»: quasi che il concetto di levigata funzionalità secondo cui l'Occidente li ha concepiti non possa essere accolto dal pensiero orientale senza essere trasferito nella categoria, più nobile, della bellezza. Donne velate O il lungo velo di chiffon azzurro che ancora ricopre le donne da capo a piedi, nascondendo il viso e gli occhi (pericoloso veicolo, secondo la poesia islamica, di tutti i turbamenti del cuore dei sensi) ; ma basta un refolo di vento malizioso perché si sveli la bruna gamba tornita, libera fino all'orlo di un'esigua minigonna. O, ancora, le «chaikhanà», le antiche case da tè dove oggi biondi «hippies» anglosassoni e scandinavi ascoltano musica «beat» e si mescolano alla gioventù afghana. Tentazione e rifiuto, insieme, dell'Occidente: che cosa, da tutto questo, potrà nascere? «Se l'Islam — dice l'orientalista Poirier — industrializzandosi conservasse la sostanza delle prescrizioni coraniche di fraternità e solidarietà e riuscisse a mantenere gli scarti dei livelli di vita tra gli strati sociali entro proporzioni accettabili, darebbe al mondo una lezione esemplare». Giorgio Martìnat Afghanistan. Il cavallo è assai diffuso nel Paese asiatico che è privo di fenovia (Foto Varvelli)

Persone citate: Donne, Foto Varvelli, Gengis Khan, Giorgio Martìnat Afghanistan, Khan, Omar Kayyam, Pietro Quaroni