CHURCHILL uomo e mito

CHURCHILL uomo e mito 77 centenario della nascita CHURCHILL uomo e mito Ricorre il 30 novembre il centenario della nascila di Winston Churchill. In Inghilterra la data viene ricordata con numerose iniziative: libri, saggi, medaglie commemorative, una serie di francobolli dedicata al grande statista. La BBC ha in programma un film dal titolo «In marcia con il destino», con protagonista Richard Burton. Non mancano coloro che, proprio mentre si preparano queste celebrazioni, intendono separare la realtà dalla leggenda, l'uomo dal mito. Un secolo, dunque? E non è, invece, questo vivo e questo morto, di ieri? Quale, invero, degli artefici del Novecento ha più inciso, si è più immediatamente inserito e dirci quasi immedesimato, nella esistenza individua di ciascuno fra noi? Non l'abbiamo veduto coi nostri occhi passare piagato, indomito, simpatetico e imperturbabile insieme, per le vie delle città desolate o distrutte? Ancora, dal cuore mèmore salgono a onde i ritmi della sua eloquenza, le frasi incitatrici, le piacevolezze delle parole stroppiate, le idiosincrasie del suo personalissimo accentuare o erroneamente accentare parole straniere, quasi per significar simultaneamente la tenerezza e il distacco, la pietà e l'avversione, rinnovasse per la Francia caduta le preghiere pietose di Luigi XIV od eruttasse in faccia al nemico il nome infame della Gestapo. Domani, gli storici della lingua determineranno anche quest'altra sua impresa, quest'altra sua conquista e vittoria: che non è solamente di linguaggio 'e di parole, ma di fatti e d'idee, di storia e di realtà. Chi usava, o più veramente osava, dire oltre Manica, fino all'inverno del '41, se non per un malvezzo di deplorevole americanismo, il volgaruccio e popolaresco job, la giobba dei nostri emigrati statunitensi? Ma, aprendo le porte, aprendo il diritto di cittadinanza inglese, al vocabolo d'oltre Atlantico, dopo aver invocato nel giugno del 1940 l'assistenza del Mondo Nuovo a raddrizzar l'equilibrio del Mondo Vecchio con le parole medesime usate un secolo avanti dal Canning, Churchill profeticamente avvertiva ch'era giobba degli Siati Uniti entrare, o rientrare, nella comunità europea, nell'unità o globalità che dall'Europa s'era venuta di. ramando, costituendo e organando, soprattutto grazie alla colonizzazione anglo - sassone, per tutti i sette mari e i cinque continenti dell'ecumene. La giobba, la bisogna che gl'inglesi s'impegnavano a compiere, ove non difettassero loro gli strumenti adeguati, sarebbe durata, sarebbe dovuta durare, oltre il termine del conflitto, mercé un intervento non solo, o non più, militare, ma economico e politico, mercé un'assidua presenza, quasi un rovesciamento ed inveramento del ritmo storico, in virtù del quale tornavano i coloni alla madre patria, l'accoglievano, anzi, al nuovo focolare. Tramontavano gl'imperi e le patrie, ma si affermavano frattanto i nuovi ed antichi, unificati e unitarii, centri e nuclei di civiltà. ★ ★ L'uomo, che alle soglie dell'antica e nuova collaborazione anglo-americana definiva in termini rudi la bisogna comune, la giobba degli anglofoni e di quanti ne dipendevano per la liberazione, per la risurrezione e l'avvenire, quando la bisogna parve compiuta, coniò un'altra parola, le diede nella sua e in ogni lingua diritto di vita e ricetto ed uso; un vocabolo che dinotava l'incompiutezza effettiva della bisogna, o la conseguenza del conflitto, la bipartizione del mondo, la realtà nuova della storia, che non si lascia imprigionare né dalle speranze né dai divisamenti degli uomini. Com'era, od era stata, la giobba degli Americani aiv.tar a condurre a termine la bi.ogna della guerra antihitleriana, così era, o sarebbe stata, e diveniva comunque, la giobba degli Americani aiutare a montar globalmente la guardia dinanzi alla cortina di ferro, M'iron curtain afdaOtmtvd e , i a e ò a i , , a e é , i a o a n j non ha mai amato, e ha ripu- definita e individuata dal Churchill nel discorso di Fulton fra il 1946 e il 1947, perché almeno quella cortina tenesse, rappresentasse una frontiera invalicabile e invalicata, mutuamente, a tutt'oggi. Quest'audacia « linguistica » in un inglese di ceppo feudale, ma di sangue, dal lato materno, statunitense, in un inglese che la sua prosa aveva primamente lavorata durante gli oda dell'ufficialità nell'India imperiale, sulle Storie del Gibbon e del Macaulay, quasi a compensar tra i bivacchi il fallimento culturale di chi, modesto allievo di Harrow. non aveva conosciuto le aule di Oxford o di Cambridge, è sintomatica ed esemplare della modernità, dell'audacia « politica » del Churchill: è l'equivalente «linguistico» della rivoluzione da lui promossa e instaurata. Il « neologismo » del job e dell'irò/; curtain tradisce, invero, la suprema capacità di adattamento alle circostanze, al mutar degli uomini e degli eventi, all'emergere dei partiti politici e dei sindacati, che resta la caratteristica singolarissima della vita e della «carriera» di Churchill. * * Parlamentare intransigente, intransigente fautore del bipartitismo, anche nel voler simbolicamente rettangolare, anziché ad emiciclo, la nuova aula della Camera dei Comuni, distrutta dalle bombe germaniche il 10 maggio del '41, leader del partito conservatore dalla morte di Chamberlain fin quasi alla sua, Churchill, tuttavia, non fu mai l'uomo d'un solo partito, ma entrò e uscì dai liberali e dai conservatori, né mai nascose le sue simpatie per la classe operaia e i suoi dirigenti, in ispecie il popolano Bevin, né mai si cercò e conservò un seggio parlamentare sicuro: dovette, anzi, combattere duramente presso che ogni elezione, ed una o più volte anche perderla, per l'estrosità « avveniristica » dei suoi atteggiamenti, per il suo intimo « anti-conformismo ». Aveva innato il senso della tradizione, il senso della storia. Ma, cresciuto nell'opulenza dell'Inghilterra vittoriana, si trovò, soldato nella guerra boera e prigioniero dei boeri, a patrocinar la riconciliazione con i vinti mercé la trasformazione progressiva ed irreversibile dell'Impero in Commonwealth, donde riuscì relativamente poco difficile, e comunque pura di sangue, la « liquidazione » dell'Impero, l'adeguamento dell'Inghilterra postbellica alla «ventata di mutamento» che soffiava dal e sul Terzo Mondo. Giustamente orgoglioso d'un'armata navale il cui potenziamento era, per tanta parte, opera sua, contribuì com'altri pochi all'intelligenza e all'apprestamento di armi meccanizzate e motorizzate, dai tan\s della prima all'aviazione della seconda guerra mondiale, nel mentre, libero dalle rèmore della strategia di posizione, forse per aver conosciuto in proprio l'usura e l'orrore delle trincee, lavori, anche avventatamente, ogni progetto di guerra di movimento, che avrebbe, se vittorioso, spezzato nel '15 ai Dardanelli l'asse balcanico dell'Impero absburgico e dell'Impero turco alleati, permettendo così l'accerchiamento della Germania: che impresse alla seconda guerra mondiale, svanite come nebbia le pavide illusioni della l'igne Maginot, un carattere di progressiva globalità ciclica, sola capace di logorare nella distanza dalle basi di rifornimento, nella dispersione e varietà dei teatri operativi, le forze superiori dell'Asse. Gli piaceva di essere, o di atteggiarsi, a grand seigneur, a legittimista, anche nell'eccentricità e nel lusso del vivere, nell'immodestia del boti viveur, nello schermo pubblicitario della pittura: tutti elementi discordi che unitariamente convergevano, ch'egli accuratamente faceva converge, re, all'edificazione del suo «mito ». Gli costò caro, perché, dopo l'ambivalente esperienza del Cromwell, l'Inghilterra dc1tctpalpCdndniafsspzsEmsscsttadC - a i , , i , , a a diato sempre (anche Churchill alle elezioni del luglio 1945...), gl'individui «carismatici »: e tanto più gli eccentrici, gl'intellettuali, o « intellettualoidi », i non conformisti. Era sulla cresta dell'onda, pareva prossimo il suo ritorno al potere per attuare, contro la Germania hitleriana, quel programma di Arms and the Covenant, di Ginevra armata, d'un riarmo nazionale e internazionale per la salvaguardia dell'ordine internazionale, dinanzi a cui, probabilmente, i dittatori avrebbero capito, avrebbero saputo, avrebbero fatto in tempo, a fermarsi: senza cedere, invece, all'illusione pericolosissima della propria irresistibilità e onnipotenza, del proprio facile primato sulle «democrazie imbelli». E tutto, invece, finì, sino al maggio 1940, dinanzi all'episodio, nei suoi aspetti storici scrii tuttavia oscuro, dell'abdicazione di Edoardo Vili, difeso invano dal Churchill contro la marea unanime dei cittadini, preoccupati nell'intimo per le, quantunque sostanzialmente innocenti, propensioni autocratiche del sovrano. Donde profittarono i Baldwin e i Chamberlain; donde, tuttavia, salì al trono il più semplice, il più inglese, il più tipico e popolare pertanto, dei re d'Inghilterra, l'infelicissimo e felicissimo Giorgio VI. Ma, oltre o contro il « mito » Churchill, l'uomo Churchill. E Winston valeva più assai del suo « mito ». Si direbbe che lo sapesse, quando, incontrando l'editore socialista ed ebreo Victor Gollancz, gli disse, con semplice verità: « Quello che ci unisce è assai più di quello che ci divide, perché siamo entrambi liberali ». Quest'intimo liberalismo, questa passione di libertà, questo rifiuto dell'irreggimentazione, dell'unanimismo più o meno condizionato e coatto, questo bisogno di garantire a se medesimo, ai concittadini il diritto di vivere a modo prò prio, nelle proprie casette bombardate, senza la stretta dell'assedio, senza la minaccia dell'ideologia e della polizia, quest'elementarità essenziale del voler essere «uomini»: qui è la coerenza storica di Churchill, qui la sua costante fedeltà alla storia della sua Isola, agl'ideali e alla religione del suo Paese. ★ ★ Non era né un uomo di pensiero, né un uomo di reli- j gione. Ma aveva un suo pensiero, quand'anche non attinto a ponderosi trattati né formulato in un libretto ideologico. Ed aveva, oltre l'osservanza civile del precetto religioso, ugualmente valido nelle aule universitarie e nell'aula del Parlamento, aveva una sua religione, pur inchinevole com'egli era a sorridere degli « uomini di religione » alla Cripps: la religione del dovere, diremmo, noi italiani, mazzinianamente. Il dovere, fare il dovere, il dovere di vivere, il dovere di essere liberi — e liberatori. La tematica più profonda e insistita della sua eloquenza di guerra, la sua inflessibile volontà di vittoria, « perché senza vittoria non è vita ». Sono parole del suo Inaugurai, del suo discorso ai Comuni, presentando il governo di coalizione nazionale, che garantì a un paese diviso, a partiti discordi, all'Europa vinta, all'America tuttavia remota ed assente la certezza della resistenza e le premesse della vittoria. « Hitler sa che deve o vincerci nella nostra isola o perder la guerra ». Perduta, dunque, dopo la battaglia di Gran Bretagna? Ma vinta, come tutti i benpensanti e i malpensanti del mondo credevano, con lo sfondamento della Maginot, l'esodo da Dunkerque e il crollo francese? Solo il Churchill non disperò, non permise che alcuno nella sua isola disperasse. Né senza orgoglio, ma con impegno e gratitudine, un italiano rammenta come, nell'ora più buia della storia sua e nostra, Churchill chiamasse gli uomini alla vita, alla battaglia e al dovere con gl'incitamenti magnanimi, con la semplicità e la voce medesima, di Garibaldi. Piero Treves vpstadp