I viaggi e le pietre di Carlo Carena

I viaggi e le pietre I viaggi e le pietre Mary McCarthy ripete gli itinerari di Ruskin a Venezia e Firenze .!. Ruskin: « Le pietre di Venezia », « Mattinate fiorentine », Ed. Vallecchi, pag. 219, 142 illustrazioni, lire 3400 i due volumi. NI. McCarthy: « Le pietre di Firenze e le acque di Venezia », Ed. Vallecchi, pagine ?93, lire 4000. Una solenne malinconia apre il più celebre libro di Ruskin, Le pietre di Venezia. Non si dà, con questo, fin dal limitare il tono totale del libro, che alternerà le riflessioni morali alle trinature sulle ogive dei palazzi, le descrizioni insuperabili di gusto orientale alle analisi dei capitelli degne di un pulitore di lenti nell'Olanda di Spinoza. Ma certo quella pagina offre al lettore la garanzia stilistica dello scritto che gli sta davanti, a cui si accompagnerà con immancabile entusiasmo per tutte le duecento pagine seguenti: « Venezia giace dinanzi ai nostri occhi come era nel periodo finale della sua decadenza: un fantasma sulle sabbie del mare, così debole, così silenziosa, così spoglia di tutto all'infuori della sua bellezza, che qualche volta, quando ammiriamo il suo languido riflesso sulla laguna, rimaniamo incerti quale sia la Città e quale l'ombra. Io vorrei sforzarmi di tracciare le linee di questa immagine, prima che scompaia per sempre, e di raccogliere, per quanto posso, il monito che si sprigiona da ogni onda che risuona come un rintocco funebre, quando si frange contro le pietre di Venezia ». La città aveva da poco chiuso il ciclo dei suoi splendori quando Ruskin scriveva, poco più di un secolo fa, queste parole e ne inaugurava la mitologia postuma. Nel libro andranno a mescolarsi alla dottrina la fragilità del suo carattere, le tare dell'educazione presbiteriana e delle gelosie materne, il sadismo nordico e la bizzarria inglese. Ne faranno l'ossatura stilistica, oscillante, ardua e liscia, distesa in lunghissimi morbidi periodi; e la stessa incerta ossatura del gusto e del pensiero, da cui è difficile estrarre un'idea coerente al di là di certe costanti preraffaellite. Così Venezia diventa « la rovina », un'affascinante a mostruosa categoria esistenziale, malgrado i continui tentativi e molte altre dichiarazioni in contrario dell'autore. Si pensi che Ruskin poneva l'inizio della sua decadenza nei primi decenni del Quattrocento, quando non erano ancora iniziate le sue espansioni più vaste. E' il piacere elettrizzante di una gioventù rapida e quello morboso di una degradante vecchiaia? il bisogno esclusivo della purità, la trepidazione dell'attesa, più bella del godimento in atto? l'equivoco amore di un gotico tutto risolto nelle nervature delle volte e dei nudi, che gli fanno ritrarre gli occhi dalla solarità di Giorgione e Tiziano, da quelle ch'egli chiama « le solite sublimità rinascimentali », negandosi metà delle grazie di Venezia e passando metà del suo tempo a provocarne le delusioni? E' significativa la simpatia di Proust per questo « isterico pericoloso » — come lo definisce Mario Praz — che pur si faceva apostolo della sanità morale negli uomini come nelle città e predicava nella Bellezza il riflesso del « lavoro giornaliero di Dio ». Non è neppure un caso che se Venezia si abbandonò materna fra le sue braccia, quando Ruskin ripetè, parecchi anni dopo, il tentativo con Firenze, la città questa volta gli resistette. Le Mattinate fiorentine debbono la loro fortuna — è stato detto — più al titolo che al contenuto. Il testo rimane allo stato di lezioni, di una guida che si apre col consiglio di dare buone mance ai sacrestani e termina con l'elenco delle ventisette allegorie che adornano il campanile del Duomo. Firenze non è suscettibile di leggende romantiche e di meditazioni ossianiche. I monumenti fiorentini non ispirano a Ruskin che l'affilata didattica di un professore oxfordiano. Mancano le emozioni, svaniscono le meraviglie della prosa e i messaggi febbricitanti che rendono immortali le pietre di Venezia. All'opposto. Quando Mary McCarthy, l'autrice degli Orti di Academo e del Gruppo, ripercorre a rovescio i due stessi itinerari nel 1956 e 1959 — anche i suoi due libri sono ora pubblicati in uno da Vallecchi, contemporaneamente alla ristampa economica di quelli di Ruskin, — il suo gioco le riesce assai meglio con la capitale della Toscana che con la regina dell'Adriatico. Qui è l'aggressività di un'americana moderna e impegnata che si scontra con- una « città virile » e la spoglia dei luoghi comuni, fa giustizia delle sue bellezze. Le Cappelle Medicee sono mina brillante rodomontata»; la Vergine nell'affresco masaccesco della Trinità in Santa Maria Novella viene descritta come inginocchiata, mentre se ne sta ben ritta sui suoi piedi... Stranamente, ma per ragioni diverse, anche la McCarthy preferisce a suo modo il Tre e il Quattro al Cinquecento; una Firenze contadina, « austera, impassibile, frugale » — di ieri come di oggi — a quella dei fasti maggiori. Gli idoli di Ruskin sono Giotto e Arnolfo, quelli della Me Carthy sono Donatello e Brunelleschi. Se tutto, le proliferazioni talvolta anche banali ma spesso intelligenti del suo testo, non ci mettesse in sospetto, condivideremmo quasi le sue simpatie per le eleganze, o nemmeno, per i candori più remoti dal barocco e dalla pop. Rischieremmo persino di darle ragione quando viceversa ci parla di Venezia come di «un dépliant fatto di cartoline di se stessa, ... un giuoco una fantasia, una favola », un'autoparodia. Anche perché la sua schiettezza, pure in questo diario saggistico per tanti versi così Nuovo Mondo — si sa cosa vuol dire, — non manca di renderlo attraente, com'è la botanica dopo l'alchimia e una mattinata alpina dopo gli stupendi crepuscoli del settentrione. Carlo Carena