Riconoscimento al sacrificio del medico ucciso nel penitenziario di Alessandria di Edgarda Ferri

Riconoscimento al sacrificio del medico ucciso nel penitenziario di Alessandria Milano: consegnata alla vedova la medaglia d'oro Riconoscimento al sacrificio del medico ucciso nel penitenziario di Alessandria La sanguinosa rivolta di maggio - Premiati anche il "medico dei minatori" e un deportato (Dal nostro inviato speciale) Milano. 19 dicembre. «Di fronte ad un uomo saggio chino il capo, di fronte ad un uomo buono mi inginocchio». Riportando una frase di Goethe, il professor Carlo Sirtori, presidente della fondazione Carlo Erba, ha commentato la prima delle tre motivazioni del premio «Missione del medico», quest'anno assegnato alla memoria del dottor Roberto Gandolfi, il medico del penitenziario di Alessandria, ucciso a sangue freddo dai rivoltosi i' 9 maggio 1974; al dottor Giovanni Magnico, medico di una miniera di zolfo a Perticara; al dottor Giuseppe Calore, deportato a Mauthausen dove ha assistito i deportati nelle loro atroci agonie. Tutti medici di prigionieri, è stato osservato. Infatti, nel fondo di una miniera non si può certo parlare di uomini liberi. Medici che hanno inteso la loro professione come una serie ininterrotta di doveri e di obblighi verso la comunità. Figure che lasciano perplessi, oltre che commossi, mentre la missione del medico va diventando sempre più una leggenda. Sirtori, che ha elencato le virtù del medico moderno (del resto non molto differenti da quelle che aveva enumerato Ippocrate: la serenità, il distacco da se stesso, dal servilismo e dall'oscurità), ha ricordato che la fondazione ha un compito ben preciso: fungere da torre di controllo su una professione oggi tanto discussa. Alla cerimonia erano presenti anche la vedova e i figli del medico di Alessandria. Tre giovani figure ancora impietrite. C'erano anche due degli ostaggi che sono riusciti ad uscire vivi, il professor Francesco Ferraris e l'ingegnere Rossi, che porta ancora i segni di gravissime ferite. Nessuno di loro ha parlato, né era lecito chiedere a loro delle parole. Alla commozione degli altri, hanno risposto con molta dignità, quasi con fierezza. La figura del dottore Gandolfi è stata ricordata nella sua integrità professionale e nel suo entusiasmo in un compito difficile, e per lui così tragicamente concluso, come è l'essere medico in un carcere. Era un uomo buono e sereno, un pacifista. Era riuscito a comporre una sommossa, tre mesi prima di quella in cui ha perduto la vita, parlando ai carcerati. Il dottor Giovanni Magnico, il medico della zolfatara di Perticara, vicino a Novafeltria, in provincia di Pesaro, era circondato dalla gente del suo paese. «La solfatara è stata chiusa — ha raccontato — nel 1964. I minatori, che avevo assistito nelle loro malattie e che avevo curato nel fondo della miniera per le ferite e le asfissie, dopo tanti anni sono usciti alla luce per rimanere senza lavoro». Con la chiusura della solfatara, la sua funzione di medico finiva. La società proprietaria della miniera gli offriva un posto in città, più comodo e anche meglio pagato. «Ma sono rimasto con la mia gente, fra i miei minatori tarati dalla silicosi — dice con semplicità —. Ho dovuto fare da padre a quei ragazzi che non avevano più visto ritornare nessuno dalla bocca della miniera». Premiare il dottor Bepi Calore significa saldare un debito verso tutti quelli che sono stati deportati e che sono morti nei campi di sterminio nazisti. Questa la motivazione che ha accompagnato la premiazione di un uomo piccolo, grigio, dagli occhi rimasti miracolosamente vivi. «Sono passati trent'anni — ha detto, presentandolo, il giornalista Roberto Costa — e soltanto adesso ci ricordiamo di lui». Giuseppe Calore, conosciuto megllio come Bepi, fu deportato a Mathausen dopo che fu catturato nel Veneto, dove operava nella Resistenza. Con fermezza racconta il suo calvario: aveva un compito pietoso e straziante. Nel lager c'era una specie di anticamera della morte, una stanza in cui erano messi i prigionieri in attesa di passare al forno crematorio. Era incaricato di sorvegliare la loro agonia. Al mattino, toccava a lui portare i cadaveri su di una cata¬ sta al centro del campo. «Non c'era altro da fare che aiutarli con parole — dice —. Parole difficili, che nel lager assume^ vano dimensioni differenti da quelle comuni». Parole senza senso, quando lui non aveva per quei moribondi, e soltanto di rado, che l'aiuto di qualche garza di carta e pastiglie di sulfamidici. Nei suoi ricordi passano terrificanti immagini di morte e di disperazione. «Mi sono trovato — dice — a compiere la mia missione, curando non tanto i corpi, per i quali non potevo nulla, quanto lo spirito. La malattia peggiore che prendeva noi prigionieri, dopo la fame, era infatti lo sconforto, l'annullamento di ogni desiderio, anche della dignità umana». Nella sua coscienza, il conforto di essere riuscito a sottrarne molti a un morbo tanto umiliante. Come il saluto di una mezza dozzina di uomini a un compagno morto. «Dopo che l'avevo trasportato nella catasta dei cadaveri — dice —, la neve ricopriva la sua bocca e le sue occhiaie vuote». Era proibita la pietà, si sparava a vista per un gesto di misericordia. Tuttavia, da lontano, appoggiati contro la parete di una baracca cinque uomini erano rimasti impavidamente a guardare l'amico, senza parole: per un tempo che da quel giorno dura ancora. Edgarda Ferri

Luoghi citati: Alessandria, Milano, Novafeltria, Perticara, Pesaro, Veneto