I cittadini in uniforme di Carlo Casalegno

I cittadini in uniforme Il nostro Stato I cittadini in uniforme L'arresto del generale Ugo Ricci, terzo alto ufficiale — dopo Miceli e il latitante Nardella — colpito da mandato di cattura nell'inchiesta sulle trame nere, non scalfisce la nostra fiducia nel lealismo delle forze armate, la convinzione che in Italia non esista la minaccia di golpe militare, di « alternativa in uniforme » alla Repubblica. Trascuriamo la premessa, pur doverosa, che fino alla condanna vale per gli imputati l'ipotesi dell'innocenza ed ammettiamo che tutti e tre siano colpevoli: nemmeno in questo caso si potrebbe parlare d'infezione golpista nell'esercito, di pericolo in atto d'un colpo di Stato. Che qualche militare, su migliaia d'ufficiali superiori, si lasci attrarre in un complotto per vocazione autoritaria, nostalgia fascista o ambizione, è un fatto naturale: può accadere, in tempi di crisi e d'inerzia governativa, nell'esercito di qualsiasi paese. A rendere politicamente minacciose le velleità golpistc d'un Nardella, d'un Ricci mancano tre condizioni: la qualità dei congiurati, un largo seguito nelle forze armate (anzitutto tra i carabinieri, la cui presenza in un campo o nell'altro sarebbe decisiva), una valida copertura politica. Nonostante le molte voci in contrario, nessuna prova concreta dimostra finora l'esistenza di collegamenti tra i nuclei terroristici e sovversivi d'estrema destra, uffici importanti dello Stato e uomini politici di qualche credibilità. S'avvertono, nel torbido mondo clandestino che le inchieste giudiziarie stanno disseppellendo, negligenze, errori, meschine lotte tra clan mafiosi, operazioni di sottogoverno piuttosto che di governo; non congiure che risalgano al vertice della vita pubblica. Le stesse responsabilità del Sid sono dirette o indirette? Vanno imputate ad inefficienza oppure a cospirazione politica? C'è stato un cattivo impiego di informatori ed agenti segreti, una scelta degli uomini sbagliata per inettitudine o pregiudizio, oppure complicità con i congiurati? Per quanti sospetti possano nascere dalle vicende Giannettini, Spiazzi, Rauti, le colpe di Miceli e di Henke sono tutte da dimostrare: la stessa requisitoria depositata dal magistrato milanese D'Ambrosio afferma che Freda e Ventura « quanto meno ritennero » di agire con la copertura del Sid e dello stato maggiore, non che i mandanti si trovavano al ministero della Difesa. A queste domande, importanti per la sicurezza nazionale e più ancora per la serenità della nostra vita politica, per la fiducia dei cittadini (necessaria anche alla ripresa economica), debbono rispondere le inchieste della magistratura: sarebbe una tragedia se gli ordini della Cassazione, unificando a Ro¬ ma le inchieste sul golpe ed a Catanzaro quelle per gli attentati del 1969, insabbiassero la ricerca della verità. Non c'è veleno più pericoloso del sospetto. Ma qualunque sia la risposta, essa non può influire sulla fiducia nell'esercito, né complicare i rapporti tra opinione pubblica e militari. Se l'esercito si sente ed è sentito come un « corpo separato », se esiste quel distacco tra cittadini e forze armate che Vittorio Gorresio ha descritto lucidamente l'altro giorno, le cause sono del tutto estranee alle indagini giudiziarie. I cultori di psicologia collettiva possono cercarle nella crisi generale dei principi d'autorità, disciplina, gerarchia; nel declino di sentimenti ormai fuori moda, come l'amor di patria, il culto dell'eroismo e del sacrificio, la accettabilità stessa della guerra; nell'eredità di scetticismo lasciata dalla rettorica fascista sugli « otto milioni di baionette » e dai ricordi dell'8 settembre. Forse hanno ragione, in tutto o in parte. Noi vorremmo suggerire altre due cause, che ci sembrano altrettanto importanti. E' cambiata la posizione dell'Italia, non più potenza di media grandezza, ma piccolo Paese che non può difendersi da solo, che deve contare per la propria sicurezza sullo scudo di un supergrande: diviene difficile per i cittadini vedere nell'esercito il presidio dell'indipendenza e della libertà nazionale. Sono cambiate troppo poco, invece, le forze armate: le tradizioni burocratiche, la mentalità della caserma, il costume militare si sono lasciati distaccare sia dalla rapida trasformazione della società, del costume civile, sia dalla profonda trasformazione tecnologica dell'apparato militare. Di questo distacco si ha coscienza, forse in ritardo, al ministero della Difesa; e il generale Viglione, capo di Stato maggiore dell'esercito, nell'incontro della settimana scorsa con la stampa annunciò utili riforme del servizio di leva, illustrando il programma che Andreotti aveva preparato. Sarà un buon principio, se al ritocco degl'istituti e all'aggiornamento tecnico - professionale delle forze armate si accompagnerà una riforma del costume, al vertice e alla base: abbandono d'un certo senso di casta chiusa, minor diffidenza verso il mondo senza uniforme. Ma non si può chiedere soltanto ai militari di fare un passo verso la società civile: tocca ai politici e ai cittadini essere meno distratti verso i problemi delle forze armate. Ci sono tre verità che non dovremmo dimenticare: vivendo in un Paese di frontiera, senza un esercito nazionale saremmo o un Paese satellite, o terra di nessuno; i militari italiani godono tra gli alleati d'una stima che spesso gli è negata in patria; la Repubblica si regge sul consenso dei cittadini in borghese e sulla lealtà dei cittadini in uniforme che controllano le armi. Carlo Casalegno

Luoghi citati: Catanzaro, Italia