Così i ragazzi di Reggio Calabria scoprono fascismo e Resistenza di Mimmo Candito
Così i ragazzi di Reggio Calabria scoprono fascismo e Resistenza Così i ragazzi di Reggio Calabria scoprono fascismo e Resistenza (Dal nostro inviato speciale) Reggio Calabria, 17 dicembre. Questa è una storia semplice. La storia di come alcuni ragazzi di Reggio hanno scoperto il fascismo e la resistenza. Collocata a Torino, o Milano o Bologna, sarebbe una favola ingenua, una piccola recita dell'assurdo. Qui, è una forte esperienza di vita, un processo reale di apprendimento, che lascia segni di domande inquietanti per chi — scuola, famiglie, partiti, la nostra democrazia — aveva il dovere di trovarvi una risposta. Protagonisti ne sono alcuni studenti dell'Istituto Tecnico « Piria », d'un Liceo Classico e di due scuole di Locri: ragazzi dai 14 ai 18 anni, liberi e vitali come i loro coetanei di Mondovì o Borgo San Paolo, di cui hanno i jeans, gli sciarponi multicolori, le prime barbe incolte. Stamane, alle otto, chi a piedi e chi in pullman hanno invaso i viali del Parco Pentimele, nella lontana periferia della città, dove li case diventano campagna. Dove, tra la strada statale tirrenica e il mare dello Stretto, due lunghi capannoni sinuosi sono colmati dai 250 pannelli della « Mostra dell'antifascismo » organizzata dal Circolo aziendale « La Rosa Bianca » di Torino e portata fin quaggiù per interessamento dei Consigli regionali del Piemonte e della Calabria. Per i ragazzi appare come l'invidiabile sciupìo d'un giorno di scuola, una vacanza di vento e di sole con il piccolo prurito delle curiosità. Accompagnatori obbligati, presidi e professori, impeccabili, dabbene, vivono la loro autorità con austera consapevolezza, distaccati dal branco, ma disponibili ad essere disturbati. Da grandi quadri al soffitto, Matteotti, Amendola, Gramsci, Don Sturzo osservano in silenzio. Il giro è lungo, tortuoso, tra manifesti e bacheche senza fine. Appesantito da un aggeggio gracchiante che gli pende da una spalla, un partigiano giellista è la guida ufficiale. Tutti dovrebbero seguirlo, ma i gruppi si spezzano ben presto. La curiosità dei ragazzi vince la logica preordinata del percorso ufficiale, le discussioni si frantumano in mille dialoghi incrociati che stringono d'assedio qualche professore, davanti alle gigantografie, ai documenti dell'epoca, i giornali clandestini, i cimeli della lotta partigiana e della lunga opposizione al fascismo. Le domande hanno l'ingenuità della scoperta. « Professore, perché i fascisti manganellavano gli operai? ». « Professore, ma Mussolini lì compare accanto al re: erano amici o nemici? ». « Professore, ma chi è questo Gobetti? ». « Professore, ma quel partigiano che parla è un comunista? ». « Professore, ma è vero che questi erano tutti comunisti? ». Le risposte hanno un imbarazzo smozzicato, denunciano l'apprensione della novità. L'altoparlante porta a strappi la voce stridula del partigiano piemontese. Parla di sacrificio, di senso dell'onore, di dignità da riconquistare, dei tormenti e delle sofferenze che sono l'esilio e la vita braccata in montagna. I ragazzi guardano le foto glaciali degli squadristi, la faccia spenta di Dumini, il sorriso stereotipato d'una picco¬ la foto-famiglia che ricorda antichi oppositori clandestini. C'è un distacco freddo, una frattura linguistica tra la fissità delle parole e la realtà delle immagini: il documento germoglia di domande la fantasia degli studenti; non vuole illustrazioni, ma risposte sul prima e sul dopo. Una piccola noia s'aggrappa alla polvere del tempo, che sembra fare storia — cosa passata — la lunga teoria dei pannelli. Poi, all'improvviso, compare Auschwitz. E Mauthausen e Treblinka. I corpi disossati di piccoli ebrei; il sorriso professionale delle SS che con grandi tenaglie trascina verso il forno un cadavere di pelle; le saponette d'uomo, i numeri sul braccio, le montagne d'occhiali e di denti d'oro. La tortura, il suicidio tremila Volts. Qui, i ragazzi si arrestano a lungo. Fanno ressa, non domandano. La drammatica evidenza delle foto se la portano dietro a lungo. E la lettura dei documenti che seguiranno non ha più la stanchezza della ripetitività. Mimmo Candito
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