Pavese per i giovani

Pavese per i giovani "Il vizio assurdo,, al Carignano Pavese per i giovani La vita dello scrittore in una drammatica serie di "flash-backs" Dal confino in Calabria alla camera d'albergo dove si tolse la vita - Lo spettacolo di Lajolo e Fabbri con la regìa di Sbragia Al Carignano, e con grande successo, II vizio assurdo, ritratto o epitaffio di un intellettuale degli Anni Cinquanta di nome Cesare (Pavese). Vogliamo sgombrare subito il campo dalle polemiche che non interessano le migliaia di giovani (e di meno giovani: parliamo anche di chi, come Luigi Vannucchi protagonista dello spettacolo, era sui vent'anni quando Pavese si uccise) che da un anno affollano i teatri dove il dramma si rap- j presenta? Forse basterà os-1 servare che tutti gli amici del-1 lo scrittore hanno naturalmente il diritto di dire come Pavese era per loro e, quindi, di negare che il personaggio della scena assomigli a quello della vita, o del loro ricordo, ma appunto per questo lo stesso diritto va riconosciuto a Davide Lajolo che di Pavese è stato il biografo e dal proprio libro ha ricavato, insieme con Diego Fabbri, il testo messo in scena da Giancarlo Sbragia per gli «Associati». E poi quel che conta, ci sembra, è che il pubblico, il quale di Pavese conosce solo i libri e spesso neppure quelli, assista e si appassioni, come ci ha scritto una spettatrice milanese e come ribadisce lo stesso Vannucchi, ai casi e ai problemi di uno scrittore triste con gii occhiali che è quasi il simbolo di molti intellettuali della sua generazione. Ed è proprio ciò che avviene quando, schivando il pericolo di ridurre lo spettacolo a una conferenza, o magari a una «lettura» come pure è stato proposto, Fabbri e Lajolo puntano su una drammaticità che, tranne i rari casi in cui si cede alla tentazione degli effetti o alla mozione degli affetti, appare autentica e sincera. Perciò lo spettacolo, durante il quale Pavese non è mai nominato, può essere accettato e capito da tutti, e specialmente dai giovani, tanto più che il regista, anzi che evitarli, ha cercato il dialogo e il contatto quasi fisico con il pubblico, sia facendo posto agli spettatori anche sui gradini delle tre tribune che, disposte intorno a una piattaforma centrale, costituiscono lo stringato dispositivo scenico di Gianni Polidori, sia prolungando l'azione su pedane e scivoli che si spingono nella sala e dei quali gli attori, che talvolta recitano anche in platea, si servono per salire e scendere dal palcoscenico. Dalla piattaforma centrale, che schematicamente configura la camera d'albergo dove Pavese si tolse la vita nell'agosto del 1950, l'azione muove a ritroso ripercorrendo per flashbacks la vita dello scrittore, dagl'incontri con la «ragazza dalla voce rauca» (Simona Caucia) al confino in Calabria, dall'amore per una «Simona» (Valeria Ciangottini) che assomma varie donne da lui desiderate, alla disperata passione per «l'americana» (Penny Brown, ma la vediamo soltanto su uno schermo e ne udiamo la voce al telefono), dai colloqui con un suo allievo (Matteo Sbragia), che sarà falciato dai mitra nazisti, e dallo scontro con la madre del ragazzo (una vibrante Valentina Fortunato), all'adesione ad un partito, il comunista, che non sempre, ammette lo stesso Lajolo, riusci a capirlo. Se le donne e il sesso sem brano avere, e in principio davvero hanno, una prepon¬ deranza eccessiva, non vengo-1 no dunque trascurati i proble- j mi artistici, politici ed esi-1 stenziali che tormentarono Pavese e dei quali rimangono ampie e amare tracce nelle lettere e nel diario ai quali Fabbri e Lajolo — il novanta per cento delle battute sono di Pavese — si sono scrupolosamente attenuti. E' vorremmo richiamare l'attenzione dello spettatore sul fatto che si cerca anche di rispondere a una domanda che riguarda molti altri artisti del nostro secolo, Majakovskj per tutti: perché il suicidio come soluzione (o scampo)? Sono domande e problemi j che Ivo Garrani, nel personaggio di Alajmo che potrebbe essere lo stesso Lajolo, coordina e pone con la consueta lucidità e che Paolo Giuranna, ritagliatasi una breve e intensa parte nelle pagine del Diavolo sulle colline, traduce in un delirio numerico prima che «Cesare», chiedendo e offrendo perdono a tutti e raccomandando di non fare «troppi pettegolezzi» (ancora Majakovskj, ma con ironica consapevolezza sottolineata da quell'agghiacciante «Va bene?»), esca di scena e dalla vita. Questo «Cesare» è il generoso e appassionato Luigi Vannucchi, talmente affezionatosi al suo Pavese da non voler rinunciare al lieve accento piemontese sul quale l'ha costruito e che a noi sembra soltanto un tocco in più. Ma per il resto, come già si scrisse un anno fa dopo la prima di Padova, la sua è un'interpretazione di prim'ordine: piuttosto che cercare una rassomiglianza fisica con un uomo che d'altronde non ha mai conosciuto, Vannucchi ha preferito un'aderenza psicologica che gli occhiali, la pettinatura e un certo modo di stringere le spalle e i pugni possono aiutare ma che solo l'intelligenza e la sensibilità dell'attore riescono a cogliere. Alberto Blandi

Luoghi citati: Calabria, Padova