I capi della Fiat di Ferruccio Borio

I capi della Fiat Parlando di fabbrica e società I capi della Fiat I dirigenti, di vario grado, sono circa duemila - Hanno una loro "università", esprimono una nuova politica di decentramento Ho scoperto i direttori Fiat il mese scorso a Marentino, nella scuola - università che l'azienda ha costruito soltanto per loro. Vi soggiornano a turni, per brevi periodi di perfezionamento culturale. Un vecchio castello, «Mon plaisir», trasformato in albergo ristorante con sale per conferenze, teatro, aule per riunioni, dibattiti, studio. E' luogo bellissimo, tra alberi e viali di un grande parco silenzioso. La civiltà nel cuore del bosco; ma in nome del progresso bisogna chiudere gli occhi sulla deturpazione architettonica che ha inserito un anticipo degli Anni 80 nella quadrata armatura del Settecento piemontese. In questo scenario ho parlato con almeno 300 dirigenti, altri li ho incontrati nei loro uffici in corso Marconi, alla Spa Stura, alle Fonderie, nelle officine di Miraflori. Sono circa duemila in tutti i gradi dell'organizzazione. E il mio vrimo pensiero è stato: « Da quasi trent'anni seguo la vita di Torino da tino scrupoloso osservatorio, la cronaca della Stampa; ho visto lo sviluppo della città con ì suoi problemi, adesso giganteschi; ho assistito alle conquiste della Fiat, all'invadenza dell'industrializzazione, alle lotte del lavoro, spesso dolorose, che hanno fatto la storia della città. Ma dei dirigenti Fiat non avevo mai sentito parlare. Salvo gli incontri con i massimi esponenti in qualche cerimonia, non avevo mai avuto la percezione che esistesse una categoria così numerosa e qualificata, se non nell'anonimo posto di responsabilità all'interno della fabbrica ». Altri tempi A questa considerazione mi è stato risposto: «Perché non è venuto a cercarci?». «Dove? Negli stabilimenti? Non vi conoscevo». «Altri tempi; allora era impensabile vedere un giornalista, e anche pericoloso. Tutto classificato, a ognuno il suo compito con una precisa etichetta. Alla Fiat c'era soltanto uno che poteva parlare, e quello pensava anche per noi». Nell'allusione affiorano i sistemi di un governo aziendale che è durato 20 anni: la Fiat del prof. Valletta, inserita nella mentalità dell'epoca, fondata su una struttura verticale, compatta, galvanizzata ogni mattina da iniezioni di efficientismo, purificata ogni sera dalla vernice della solidarietà. Produrre, sfornare nuovi modelli, costruire fabbriche, inondare l'Italia di auto, dare lavoro a 10-20 mila nuovi operai ogni anno, promuovere iniziative come l'apertura di strade e autostrade, non trascurare l'assistenza sociale, dalla Malf (la mutua Fiat), alle colonie per i figli dei dipendenti, alle case di riposo per i malati e gli anziani. E l'intervento, quasi sempre determinante, con tecnici e finanziamenti nelle questioni pubbliche, dalla città alle province allo Stato. Nei settori più diversi le soluzioni risentivano fatalmente delle idee imposte dalla potenza, dal dinamismo e dal prestigio della Fiat. Questo era il simbolo del successo. Non c'è dubbio, il prof. Valletta, infaticabile, aperto al sorriso e alla stretta di mano, era un autocrate, inflessibile sostenitore dei princìpi di gerarchia e disciplina, preoccupato solo delle fortune dell'azienda. Esigeva la massima sudditanza dal suo staff di collaboratori e voleva che il metodo di comando e di obbedienza, fedele e anche grata se possibile, si riflettesse in tutto l'organismo aziendale, rimbalzando di gradino in gradino sino alle squadre delle officine. Con questa tattica ricostruì la Fiat dopo i disastri della guerra, le diede il dominio del mercato italiano, creò le premesse per lo sviluppo multinazionale che ora ha assunto. Pose anche le basi di molti problemi torinesi e nazionali che si sono rivelati negli ultimi anni del suo regno, dal '65-'S6 in poi, e sono esplosi drammaticamente nel '68-'69 con l'autunno caldo e le lotte sinuacali. « Ma ora le cose sono cambiate », ho osservato a un gruppo di dirigenti che mi hanno ricevuto in una sala di corso Marconi. « Sono molto cambiate, ha confermato il direttore dello stabilimento Fonderie e Fucine; se non fossero cambiate, lei non sarebbe andato a Marentino e oggi non saremmo a questa riunione. Un collega mi ha telefonato: c'è un giornalista che vuole intervistarci sui nostri problemi. Io sono venuto perché ritengo utile il colloquio e non ho neppure pensato di dover avvertire il mio superiore diretto. La mentalità è diversa ». Come è avvenuto questo mutamento? Si ricollega a qualche motivo sindacale, ad esempio al '68-'69? La maggior parte dei dirigenti ha risposto: « L'autunno caldo ha avuto certo notevole importanza ma l'evoluzione è cominciata prima. Si può dire che negli ultimi dieci anni abbiamo assistito a una metamorfosi a volte lenta, a volte più rapida, ma sempre progressiva e graduale. Soprattutto è stata sentita come una necessità interiore dei singoli capi e voluta da loro. Ciascuno a modo nostro, chi prima e chi poi, ma è stato un atto volontario. E' una metamorfosi che non può avvenire in virtù di ordini di servizio ». Dove è cominciata, in quali settori si è percepita la necessità del nuovo modo di gestire il lavoro, anticipando l'adattamento a una situazione che si stava evolvendo? Il direttore allo Sviluppo del personale mi ha detto: « Penso che la vera evoluzione si sia iniziata nelle officine, dove si erano vivacizzati una certa cultura operaia e un impatto sindacale. Certo non è stato facile, per qualcuno può anche essere stato traumatico, perché non bastava l'adattamento dell'uomo, bisognava anche cambiare le strutture e queste erano più rigide ». Accenna a qualche errore? « Forse uno dei difetti delle nostre strutture imprenditoriali è di non aver percepito, già negli anni della ricostruzione e durante il boom economico, la crescita dell'uomo, come stava manifestandosi, non soltanto in chiave consumistica, ma anche di maturità. Questa maturità ha portato a esigenze di partecipazione alla vita sociale che è stata la grande pedana di lancio dei sindacati ». Un dirigente di officina della Mirafiori: « Fino al '69 non pensavamo che il conflitto fosse una realtà fisiologica della nostra società. Dicevamo: dobbiamo comprenderci, tutto sommato un punto di incontro si trova sempre, è l'integrazione nell'interesse reciproco, la collaborazione. Invece oggi il dirigente capisce che la conflittualità è una componente delle nostre strutture aziendali e che il dialogo è il mezzo più razionale per gestire questo conflitto, in cui entrambi i partners hanno una loro dignità, una loro ragione d'essere nella moderna società pluralistica ». Un altro completa: «Anzi dalla conflittualità possono nascere spinte innovatrici in tutti i sensi. C'è uno stimolo che dal dirigente si diffonde verso il basso e un altro stimolo che sale dal basso. E se il capo lo riceve e lo vive, ecco che il contributo diventa concreto e il suo ruolo si fa parte integrante del sistema, tanto che può trovarsi a sua volta in disaccordo con la gerarchia che gli sta sopra e comunicare in alto le sue idee. Ossia conflitto significa operare nei due sensi in sede dinamica e non statica. Un dirigente è tale nella misura in cui riesce a gestire il principio della conflittualità ». Il dialogo Tutti i duemila dirigenti Fiat la pensano così? « Un'evoluzione è frutto della cultura e della storia dell'uomo. Questo processo di maturità passa attraverso gli individui; è evidente che i singoli possono reagire in maniera completamente diversa. Certo il dirigente che era abituato ai valori di una scala gerarchica, in cui si sentiva l'alter ego dell'imprenditore, ora ha bisogno di un maggior sforzo per abituarsi al nuovo ruolo che devono avere i capi nell'organizzazione del lavoro ». E' possibile delineare questo nuovo ruolo?- « Un ruolo più autonomo e più centrato sulla professionalità; cioè si è capi per una particolare competenza che ci autorizza a gestire la leadership in un certo posto, più che per un'autorità che cade in assoluto dall'alto. E' il concetto della partecipazione: i dipendenti devono vedere in noi non l'uomo dell'azienda, ma il leader che è disposto al dialogo e che è pronto a essere coinvolto e a coinvolgerli nelle responsabilità del lavoro ». Sul nuovo ruolo anche i sindacati sono d'accordo, ma precisano che la teoria è ancora molto lontana dalla pratica. Ferrari della UH: «Qualcosa è mutato, ma la scelta di fondo è rimasta, cioè una piramide aziendale sempre troppo chiusa sui problemi tecnici, tanto da ignorare certi aspetti umani. La conquista di un più forte potere contrattuale da parte dei lavoratori all'interno della fabbrica ha reso più difficili alcune forme autoritarie, ad esempio spostamenti o licenziamenti di delegati, ma non è detto che questo non si ripeta». Delpiano della Cisl: «La concezione autoritaria e casermistica si è attenuata non per scelta del dirigente Fiat, ma perché sono cambiati i rapporti. Ciò è dovuto alla crescita politica dei lavoratori e alla conflittualità esplosa nelle fabbriche proprio con la presa di coscienza del movimento operaio. Noi siamo convinti che nella misura in cui si modificano in senso democratico i rapporti nelle aziende, anche la società ne risente e ne ha benefici». A Rinaldo De Pieri, direttore del personale Fiat, ho domandato: «C'è stato un cambiamento nella politica del personale e da che cosa dipende?». Ha risposto: «La Fiat sta facendo un grosso sforzo di coinvolgimento a ogni livello. Tutti dicono: bene, dobbiamo essere coinvolti; ma al momento buono non sono poi tanti quelli che accettano. Il dialogo è la ricetta da seguire, però credo che conti molto anche la maturazione delle componenti sociali. Se si pensa che un tale discorso sia valido, la cosa migliore per dirimere i conflitti o per evitarli è parlarne e ragionarci sopra insieme». In sintesi. Qualche anno fa la funzione del capo era quella del controllore sociale. L'azienda non diceva soltanto: tu devi dare questo tipo di prestazione; ma prescriveva anche ì modi in cui darla. Ora si fissano gli obiettivi e ognuno, almeno a certi gradi, li realizza in autonomia conoscendo ì termini e i valori del suo compito. E' la politica del decentramento e soprattutto della fiducia. Ferruccio Borio

Persone citate: Delpiano, Rinaldo De Pieri, Valletta

Luoghi citati: Italia, Marentino, Torino