L'ombra dei maggiori di Stefano Reggiani

L'ombra dei maggiori I GIOVANI DENTRO I PARTITI: LA DC L'ombra dei maggiori L'impegno più attento sembra quello di ricalcare i vizi dei padri, sfruttando il sistema delle correnti, ingaggiando battaglie nominalistiche dalle tribune - Il quadro doroteo del Veneto, con l'eccezione di Venezia (Dal nostro inviato speciale) Venezia, dicembre. « Non imitateci » disse il vicesegretario democristiano Ruffini ai giovani del suo partito. Forse era trafitto dalla sincerità; forse, al contrario, lusingato da una forma di complicità paternalistica, che fa dire per affetto l'opposto di quel che si pensa. Era giugno, al congresso di Palermo del movimento giovanile de: parlasse sul serio o per antifrasi, non lo ascoltarono. Se badiamo ai dibattiti nazionali e al congresso di Sicilia, l'impegno più attento dei giovani democristiani oggi è di ricalcare i visi dei padri, di sfruttare fino in fondo, perfino con un poco di giocosa malizia, il sistema delle correnti; di ingaggiare battaglie nominalistiche dalle tribune e di intrecciare pallidi legami di potere all'ombra dei maggiori. Dalla riunione nazionale di Palermo, che doveva essere un delicato momento di verifica, non è uscita neppure una linea unìvoca pur nel compromesso. C'è un delegato. Pizza, votato dai congressisti, ed un presidente, Astori, uscito dal consiglio nazionale; il primo è dell'Intergruppo (dorotei con alcuni fanfaniani e morotei), il secondo di Forze nuove. A giudizio dei giovani democristiani di Venezia non si è trattato solo di imitazione degli adulti, ma anche di plagio. In un documento denunciano « le gravi pressioni di alcuni noti esponenti del partito che hanno mercificato con l'aiuto di un gruppo di iscritti senza scrupoli il ruolo del movimento e le sue prospettive politiche ». Il "movimento" Siamo venuti nel Veneto per aprire una breve indagine sul campo: i giovani dentro i partiti. Chi sono, che cosa chiedono, perché si iscrivono. Pensavamo di trovare, almeno qui, nel binomio tradizionale dc-Veneto, un primo segno di chiarezza, un avvertimento omogeneo, capace di orientare sveltamente la ricerca. Ma l'ambiguità nazionale s'è ormai sovrapposta alle naturali sottigliezze venete. La regione conta circa venticinquemila iscritti al movimento giovanile de (duecentomila in Italia); fino a due anni fa era in mano alla corrente di sinistra (Forze nuove), oggi compattamente dorotea, se si toglie l'isola di Venezia. Tuttavia non c'è un delegato regionale, ma un commissario siciliano, nominato dal delegato nazionale uscente che temeva le verifiche di potere nel suo collegio. Naturalmente il commissario siciliano non s'è mai visto; ma la situazione di stallo non spiace ai veneti, che stanno preparando con grande cautela, il più tardi possibile, un congresso regionale per trovare un leader. Su questo sfondo grottesco e tempestoso che spazio c'è per i giovani veri, per le nuove leve, per le nuove idee? E poi: ci sono nuove idee? Perché il Veneto, dopo un periodo anticonformista, riflette esattamente la precarietà di forze della de nazionale? I venticinquenni di oggi, che formano il grosso dei quadri, escono dalla provincia, dai paesi, ancora dall'Azione cattolica e dagli oratori; rappresentano la piccola borghesia urbana e soprattutto il mondo contadino. Spesso provengono da famiglie dì vecchia tradizione popolare e democristiana, da forze dell'attuale establishment, e dunque si sentono francamente moderati e prudenti per solidarietà di gruppo. « L'essere dorotei è un carattere naturale veneto » dicono a Vicenza. « L'attuale predominio della nostra corrente è il segno che il consenso si è allargato alle campagne ed il potere è sfuggito alle conventicole di cita». Ma alle spalle di qae- sti venticinquenni c'è un vuoto pieno di incognite. Il reclutamento degli iscritti ha visto da pochi anni disseccate le sue fonti tradizionali. Il canale delle parrocchie è interrotto, anche i giovani preti di paese non riconoscono privilegi alla de e qualche volta alimentano la polemica nei confronti del partito. Dice un delegato provinciale: « Rappresentare il potere rende estremamente difficile il contatto con i più giovani, oggi ». Le strutture dell'Azione cattolica, come la Fuci, più vicine al partito si sono sfaldate; le forze che rimangono sono in posizione di forte contrasto con la de. Afferma il presidente dei laureati cattolici padovani: « I pochi giovani iscritti mostrano un grande disprezzo per la logica dei partiti, non si riconoscono nelle istituzioni, cercano un discorso affine a quello dei gruppi studenteschi». Anche il collateralismo è dunque finito, alla de resta una sola organizzazione fiancheggiatrice, quella dei Coltivatori diretti. E qui spesso si attingono le leve del movimento giovanile; oppure si cerca il contatto attraverso i sindacati e le associazioni di categoria. « A diciassette anni — racconta in modo un poco misterioso un delegato di Padova — sono stato avvicinato, ed ho cominciato ad interessarmi di politica». Avvicinato come? In realtà piuttosto che la vocazione e la chiamata personale (che sarebbe un modo molto veneto di vedere il reclutamento) si usa la sollecitazione degli interessi economici e il vantaggio, apparentemente aborrito, del potere. Il giovane in cerca dì lavoro sa che la de potrà fornirgli una sistemazione in un ente locale, alla Regione, in una azienda municipalizzata, in una banca. Sa che la de nel Veneto può voler dire rassegnazione, ma anche sicurezza, lavoro dignitoso. E' chiaro che questi nuovi quadri avranno tutte le motivazioni, ma non la carica politica, l'ambizione ideale che pure muovevano le generazioni dei padri e soprattutto dei nonni. Perfino la speranza del ricambio nella gerarchia e al vertice sembra esclusa dalla militanza dei giovani de. Allora, il dibattito ideologico s'è spento? Come si giustificano gli iscritti più agguerriti al movimento giovanile? Che dicono i dorotei della loro inevitabile natura? L'ideologia resiste, in modo goffo e pretestuoso, nelle campagne. Qualcuno potrebbe definirla nostalgia di valori. Secondo un iscritto di Verona, « noi non parliamo di cristianesimo e di messaggio evangelico; lasciamo questi temi ai contestatori ». Un delegato di Treviso avverte che il movimento ha bisogno « di una forte ripresa culturale», che «la de deve riaprire le sue scuole ». E aggiunge, in modo disarmato: « Altrimenti la nostra generazione democristiana non lascerà nessun segno nella storia del Paese». Nelle sezioni cittadine, nei convegni interprovinciali la assenza ideologica è coperta dalla polemica interna. I giovani sì rivoltano contro gli stessi vizi che hanno preso dai notabili, il correntismo in particolare, anzi, come dice uno di loro, « la degenerazione correntizia ». L'appartenenza al clan è stabilita fin dall'iscrizione; se il neofita recalcitra o non capisce basta « l'esempio carismatico » dei capi (Rumor prima di tutti, poi Bisaglia) per giustificare l'istituzionalizzazione delle correnti. Solite parole Teorizza un giovane di Padova: « C'è bisogno piuttosto di divisioni ideali che non coincidano di necessità con le correnti tradizionali». Ma in effetti si tratta di altre correnti, come ha dimostrato il congresso di Palermo. A Padova l'insofferenza dei giovani dorotei ha ottenuto di cambiare etichetta: il gruppo non si chiama come nel resto del Veneto « Iniziativa popolare », ma « Proposta giovanile ». Si è messo bene in rilievo durante la campagna del referendum, schierandosi contro le direttive di partito. Ma come sfruttare ora quello slancio genuino? Tutto ricade nelle solite parole, anche se la retorica tradisce qua e là una obliqua consapevolezza. Scrìvono i giovani padovani in una loro pubblicazione che « per risanare il partito bisogna ritornare alle origini », ma che l'impresa è difficile per una grande forza moderata perché « l'italiano medio rifugge dal dibattito politico ». Cioè: delega la protezione dei propri interessi, salvo togliere la fiducia nei momenti di crisi. Altri, più lucido, aggiunge: « Noi giovani dobbiamo pagare gli errori commessi per vent'anni dalla de ». Perché non protestate nei convegni dì corrente? « Se lo facciamo, ci accusano subito di essere di sinistra e ci tengono emarginati». Il delegato di Vicenza è un giovane di venticinque anni, sposato, si chiama Luigi D'Agro, abita a Bassano, lavora a Verona, laureato in legge, laureando in scienze politiche. Domandiamo: « Quando lei arriverà al posto di Rumor, sarà meglio o peggio di lui? ». Riflette intensamente, con agghiacciante sincerità: « Non so; forse mi rivelerò meno aperto e capace di lui ». La carriera di D'Agro, se avverrà, non sarà facile: al recente congresso provinciale della de vicentina i giovani sono stati tolti di lista per far largo al dosaggio interno delle correnti. I posti negli enti locali (assessori, sindaci) sono saldamente in mano alla generazione di mezzo; la campagna per ottenere spazio alle prossime elezioni amministrative non Si rivela per nulla agevole. Alla sinistra Nel quadro doroteo del Veneto, il compito della protesta esplicita sembra lasciato ai giovani veneziani o, meglio, ai giovani della campagna veneta che gravitano su Marghera e sulla città. Qui l'appartenenza al partito è vissuta con più disagio e meno sottigliezza dialettica che nella regione. Cambiano anche gli abiti e la figura del militante. Nelle altre città venete il giovane democristiano ha attitudini insinuanti, tra manageriali e cardinalizie, veste elegante, come un figurino di Marzotto; alla periferia di Venezia si possono trovare le barbe e le giacche a vento. Il contrasto esterno può essere preso come simbolo, con un poco di buona volon- , . ., aerazione» stanno piuttosto 1 sul versante dell Azione cat¬ ta, della situazione nazionale; ma non deve far credere che nel partito arrivino anche le frange della contestazione studentesca. Il liceo e l'università (per esempio, a Padova) hanno una chiusura netta verso le forze parlamentari, e i lucchetti si raddoppiano per la de. Gli studenti di « Comunione e li- tolica. « Il caso isolato di Venezia — spiega Renzo Franzin, del direttivo provinciale — che ha una maggioranza di sinistra è dovuto forse alla posizione della città, agli stimoli culturali del porto e a quelli sociali della sua zona industriale. Noi vogliamo salvare il centro storico, ma garantire il lavoro alla manodopera di Marghera e ai pendolari della terraferma ». E' un vecchio discorso, controverso quanto agli strumenti, che tuttavia ha il potere di infondere una carica di ombrosa aggressività ai giovani democristiani della provincia, di « motivarli » in una misura che il movimento ignora in sede nazionale. Franzin ha barba, giacca a vento e venticinque anni. Avverte: « Non è un problema operaistico. La de ha l'ottanta per cento degli iscritti tra i contadini ». Tace un poco, pensieroso. Poi spiega la scelta, sua e dei suoi compagni: « Noi siamo entrati nella de per la via dell'oratorio. Vi restiamo perché siamo convinti che il partito abbia una funzione storica da svolgere, soprattutto nel Veneto. Vogliamo condizionare la de ad uno stretto dialogo con i socialisti, e garantire il quadro democratico ». Ma a Verona un giovane ci aveva detto: « Il nostro modello è la democrazia cristiana tedesca, ferma al centro ». Mentre il dibattito sta in questi termini, la de dice ai giovani: « Non imitateci », li chiude nell'anticamera dei propri vizi e continua la sua vocazione geriatrica. Stefano Reggiani

Persone citate: Astori, Bisaglia, Franzin, Luigi D'agro, Pizza, Renzo Franzin, Ruffini, Rumor