I segreti di Torino di Giovanni Arpino

I segreti di Torino UGUALE E DIVERSA LA CITTA OPERAIA I segreti di Torino Un uomo esce di casa, o s'affaccia al balcone, o sosta dietro i vetri d'un bar nell'ombra ambigua dei portici. Tenta di recuperare la propria immagine in quella della città che credeva sua, cresciuta in lui, con lui. Freddamente constata clic Torino è un'altra. La «capitale operaia» ha preceduto la Storia. Deve inventarsela. Qui le centrali del potere antico, fossero la Chiesa o l'industria o i sindacati, hanno mutato il loro volto, sollecitate dalla realtà che le pungola nella ricerca di modelli e valori diversi. Il resto d'Italia 10 ignora, ma a Torino il Futuro è cominciato da anni, con nodi e convulsioni e misteri anche feroci, gente che studia, si arrovella, inventa, tira il carretto o le ideologie, e gente che spara, dilania, deforma e guasta le grigie mappe dell'esistenza, ereditate dai padri. Schegge d'esperienza m'assediano. Quel commissario marsigliese dell'ufficio narcotici, per esempio, che m'accolse dicendo «Lei viene da Torino? Non posso complimentarmi. La sua città è nominata in quasi ogni rapporto che arriva sul mio tavolo»; fino a quella madre che soltanto ieri ha deciso di spedire la figlia non ancora ventenne all'Università di Firenze, non perché sia migliore, ma perché in via Po, dopo le set di sera, una ragazza rischia troppo. E non ho voglia di descrivere i complicati sistemi d'allarme, i cani lupi, gli artifizi delle telefonate di controllo che adottano gli abitanti della collina. Né intendo ricordare i bambinelli della Crocetta, rapinati di paltò, catenine, orologi, da delinquenti sedicenni. Torino è un'altra, il torinese no. Questo dobbiamo pur dircelo. Anche se il tassista si fa cambiare il turno, passando dalla notte alla luce del giorno, anche se da una finestra d'un casamento nella «cintura» un donnone scaraventa un sacco d'immondezza sull'autista de La Stampa e grida: «Ve la insegno io la civiltà», anche se a Porta Nuova, dopo la mezzanotte, i travestiti in minigonna portano in giro le loro facce patibolari, anche se l'ultimo Pietro Micca è grottesco, patetico: lavora a Porta Pila, strappa catene e poi distribuisce una «memoria» contro Pasolini, che lo sfruttò per un film ma lo eliminò durante 11 montaggio. La Torino di Pavese, che le riconosceva un'aria quasi ebbra, esilarante, o di Piovene che la vide ancora popolata da signori accaniti nel lavoro, severissimi eppur traditi da vezzi pudichi, è lontana come quella di Cavour e De Amicis. E' rimasta un osso nel cuore della metropoli d'oggi, un detrito miracoloso, simile alla leggendaria cornea che alberga nel solco coronarico dello stambecco. Libri e fotografie tentano di restituircela, ma noi sappiamo che quella città così ritmata nelle sue geometrie architettoniche e morali è pura astrazione, ormai. Il torinese rimane, invece. Ha trascinato nel suo colossale esodo interno quasi tutto il sacco della pazienza, della pietà, della bizzarria. Ha cambiato mondo e prospettive nel suo girovagare intorno al proprio letto, ma certe stimmate non ha voluto cancellarle. E così la metropoli furente conserva lampi e briciole metafisiche. La piazza di De Chirico non cede al mercato. «Eccoti le chiavi. D'ora in avanti li venderai tu gli orologi», dice un famoso orefice alla moglie sbalordita, nel giorno del suo cinquantesimo compleanno: «Io ho messo su una compagnia di operette. Non so cantare? Fa niente. Sarò il comico, quello che inciampa». E così un uomo posato, senza saper di Gauguin, scopre la sua Papeete battendo i palcoscenici di provincia nell'onda del Paese dei campanelli. Non basta: ogni sera, a Torino, tremila tavoli «ballano», perché la città dai tre fiumi e quindi magica ha accresciuto la sua tendenza per il vaticinio e le allucinazioni. Rimangono e hanno peso le stupende contrazioni linguistiche, le metafore che dal dialetto alla lingua paiono addirittura accrescere la loro carica d'ironia. Questa è l'unica «capitale» al mondo dove si dica: «sciocco come il pane», che è cibo indispensabile e venerato in mille forme. O anche: «sciocco come il domani», mentre l'avvenire urge con formidabili venti nelle costole d'ognuno. E non manca la deformazione più astrale: «mi fai venire il paté d'animo», che significa disgusto, fobia, paturnia, cascar di braccia, e niente ha da spartire col pomposo «pathos». L'autista è felice se gli parli in dialetto, in molti ci si rende conto che un futuro sin¬ daco dovrà essere calabrese, le confidenze sulla campagna, i raccolti, vigne e vino, «entrano» nell'arca metropolitana con una naturalezza che nessuna altra città può gustare. Non è casuale che l'agglomerato umano, così composito, non abbia fornito, in questi anni di civiltà visiva, un film meli orabile, una testimonianza «da guardare», ma solo pagine da leggere. Torino è una cifra che i codici usuali non possono tradurre banalmente. Ogni creatura sa di vivere come elemento inserito in un immenso laboratorio. Chi arriva da fuori, o sprovveduto o anche ricco d'una cultura ormai anchilosata, deve compiere un grosso sforzo per capire: il contesto sociale è febbrile, e quasi sta contraddicendo o ribaltando una famosa osservazione di Piovene, che vedeva i piemontesi «ricchi più d'opinioni che di idee». La Torino che «andiamo vivendo» sa di dover partorire idee, a costo di bruciarle in un crogiuolo contraddittorio e vorticoso. Si è ribaltato anche il rapporto tra capoluogo e province: oggi a Cuneo, ad Asti, non si rivolgono più a Torino con classica deferenza, con quella soggezione che costringeva «le genti dell'oltre Po» a diffidare dei cittadini. Torino, ai piemontesi, ispira pena profonda, un'ansia buia, come il fratello maggiore che improvvisamente piega i ginocchi, o è stordito dal dolore: e intorno lo guatano, attendendo un segno anche minimo di risveglio, un barlume di nuova salute. Perché basta abitare solo a poca distanza per non intendere più i battiti della città, per confondere in un solo frastuono le voci, per interpretare come giostra caotica ciò che, ancora, è movimento vitale. Benché si sia dilatata forsennatamente, Torino risulta chiusa come un riccio, le sue palpit.zioni non smuovono gli echi giusti. Pesano su di lei sia le paure moderne, sia le difficoltà esistenziali, come le immagini acquerellate d'un ieri che non ci illude. Mentre cavalca il suo futuro, Torino è sola, e lo sa. Mi dice il giornalaio: «Certe famiglie si sono messe d'accordo, comperano il quotidiano a giorni alterni e se lo scambiano». Mi dice il macellaio: «Da cinque vitelli sono sceso a tre. Ogni settimana però devo tirare a indovinare. Forse sta già migliorando». Mi dice un insegnante: «Il problema non consiste solo nel parlare italiano a bambini che non lo sanno, ma di seguirli persino quando mangiano. Tutta roba da "caroselli". Sono bambini venuti dal Sud o nati qui ma con famiglie molto chiuse, hanno centomila barriere da superare». Mi dice uno psichiatra: «Le malattie mentali annientano secondo spirali preoccupanti. Gli intossicali da psicofarmaci non li conto più ». Torino gronda informazioni sociologiche, è un'Arca di Noè che naviga alzando tutte le vele, ma spesso i suoi messag¬ gi rimangono inascoltati, e intanto i visceri della città ruggiscono, mangiano rancori, speranze, veleni, progetti. Vado a trovare un vecchio amico inalato. Ride di se stesso, dei proprii guai, con quella punta di astio scontroso che è tipico in certi torinesi, sempre vergognosi quando la salute pericola. Non ha problemi o preoccupazioni derivanti dalla malattia, ma il «tempo perso» lo angustia ugualmente. «Hai un bel ridere, tu», mi rimprovera: «Ma se potessi alzarmi, ti farei vedere. Con tutto il daffare che c'è». E invece so benissimo che se ne starebbe quieto al caffè, disputando con interlocutori casuali delle vicende quotidiane. Lo guardo, in quel suo viso affilato. Perché nessuno è più torinese di lui, una cassa di memorie, dal «café-chantant» alla preistorica Esposizione, dal gergo malandrino alle storie (ieìl'Unpii durante la guerra, dagli inverni in cui cadevano metri di neve, e gli scolaretti costruivano montagnole di ghiaccio su cui scivolare, ai rematori del Po. «Con tutto il daffare che c'è», seguita a ripetermi, lui pensionato. Oltre i vetri, è un vento che pare voglia mordere i comignoli, i profili delle montagne vanno scurendosi in dentature blu. Parliamo di rapine, di individui balordi, di società che vibra tra decollo e assestamento. Parliamo di un uomo che, solo, pochi giorni fa attraversò i corsi, indifferente agli sguardi curiosi, con una corona d'alloro sulla spalla. Aveva un paltò di cammello, depositò la corona al monumento di Garibaldi. Chissà chi, perché. «Ogni parola, un fatto», conclude l'amico, rabbiosamente. Ecco, questo è il segreto di Torino. Nel suo clamore non raccolto, nei suoi silenzi da pagare, la ricerca sta tutta lì: nella parola che valga il fatto. Fa buio, per un attimo sull'alto dei palazzi e di scarnificati alberi il cielo al tramonto acquista una densità che solo Torino possiede, il colore d'un panno come lo si può vedere su antiche pale d'altare. Sento l'amico che brontola: «Dovremmo vivere mille anni. E' troppo interessante. Cosa c'è da ridere?». Fuori, la città digrigna le sue enormi mandibole. Giovanni Arpino

Persone citate: Cavour, De Amicis, De Chirico, Gauguin, Noè, Pasolini, Pavese, Pietro Micca, Piovene