I due "peripli" di Salvatorelli di Luigi Albertini

I due "peripli" di Salvatorelli I due "peripli" di Salvatorelli Ottobre 1971: si compiono cento anni dalla nascita di Luigi Albertini. Il Con/ere della Scrii, il suo vecchio giornale (mi avvicinavo all'epilogo della mia direzione), lo ricorda con un elzeviro di Rosario Romeo. Il quotidiano, che ad Albertini deve tutto, struttura, prestigio, efficienza, si era riaperto da non troppi anni, dal 1968, alla confidenza con quel nome, prima sfumato o taciuto o aggirato per non risvegliare, agli occhi della proprietà succeduta ad Albertini, la ferita del 1925, forse più zelo di cortigiani che non richiesta perentoria degli stessi interessati. Romeo è uno storico di intransigenti princìpi morali, altrettanto fermo nelle sue convinzioni quanto forte nei suoi strumenti di lavoro. Nell'articolo, pure ispirato ad un assoluto rigore storiografico, vibrava, o affiorava, una certa vena antigiolittiana, che sembrava inseparabile dallo stesso inquadramento dell'antico, irriducibile avversario di Giolitti. E tale brivido di critica o di insofferenza al giolittismo bastò per farmi arrivare al Corriere una lettera risentita e irritata di protesta e di puntualizzazione da parte di un amico di sempre, di un collega di molte battaglie giornalistiche e culturali nell'arco dell'intero dopoguerra, di uno dei miei primi direttori di collana e poi successivo collaboratore di mie collane storiche, di un uomo che si chiamava Luigi Salvatorelli. «E' stata una cattiva azione — diceva, nella sostanza, Salvatorelli —: le responsabilità di Albertini sono ben maggiori di quelle di Giolitti nell'avvento del fascismo». E quasi faceva carico a me, direttore di un giornale che aveva trovato nella religione albertiniana, pur coi suoi rigori e i suoi limiti, il più alto blasone di nobiltà, faceva carico a me, dicevo, di aver pubblicato quello scritto senza una attenuazione o una distinzione di responsabilità da parte mia... Il «giolittismo» del nostro grande amico scomparso (in questi giorni è un mese dalla morte) aveva veramente qualcosa di peculiare e di inconfondibile, con una punta perfino ombrosa e gelosa. Questo illuminista settecentesco, che obbediva solo al culto della ragione, che aveva combattuto una battaglia memorabile con tro tutti i devastatori irrazionalismi del nostro secolo, poneva una vena di «misticismo» arcigno e scontroso nella fedeltà alle memorie e all'orn bra di Giolitti, fino a sfiorare una punta di intolleranza. Era stato, ancora giovanis simo, nel gruppo di De Loliis e di Italia nostra, neutralista convinto, avversario meditato e consapevole del precipitoso intervento nella guerra del '15 deciso da una minoranza com posita ritmata dalle note del dannunzianesimo più febbrile e frenetico, cadenzate al grido di «Giolitti boche», «Morte a Giolitti». Aveva sofferto, co me tutti gli spiriti più illumi nati della sua generazione, il consumarsi tragico del conflit to come liquidazione di un in tero complesso di valori, del le energie migliori del mondo e dell'etica post-risorgimentali. Aveva dedicato le sue pri me attenzioni di storico a Gio litti, ancora protagonista di storia sia pure in parte soprav vissuto a se stesso, dedicandogli nel 1920 la prima antolo già di discorsi e di scritti. Aveva successivamente fiancheggia to la «restaurazione» di governo del mago di Dronero, nel tentativo, purtroppo falli to, di arrestare la dissoluzione del regime liberale, di neutralizzare insieme la demenza massimalista e la violenza fa scista, sia pure con qualche eccessiva indulgenza all'illusio ne dei «blocchi nazionali», assorbenti, ma solo sulla carta, l'estremismo squadristico. Aveva perfino abbandonato la sua cara cattedra di storia del cristianesimo, conquistata nel 1916 a prezzo di studi se veri e rinnovatori sull'area del le origini cristiane, per fare professione militante di giolittismo giornalistico, quale condirettore della Stampa, durante l'esperienza di Frassati ambasciatore a Berlino. E sulla Stampa aveva continuato a difendere, fino alle estreme possibilità, fino alla svolta totalitaria del 3 gennaio, le ragioni della libertà e le fondamentali ispirazioni di una democrazia aperta al mondo del lavoro, che avevano caratterizzato il suo incontro col vecchio Giolitti, l'unico statista liberale che avesse capito l'ascesa del movimento operaio e il sottinteso conservatore e stabilizzante di un'apertura a sinistra fatta in tempo e senza riserve mentali. Di quella parte centrale della sua vita — storico-giornali¬ sgvstsfRgrncqlz sta, professore-direttore impegnato in un'alta battaglia civile e politica — gli era rimasta come una puntigliosa e intransigente memoria, che assumeva, in tema di giolittismo, toni accigliati e sempre sospettosi (preferii affidarmi al telefono per chiarire l'equivoco Romeo piuttosto che scrivergli una lettera, tale da lasciare un qualsiasi strascico polemico, un residuo anche minimo). Sedici anni prima, avevo corso rischi ben più gravi, quando avevo accettato l'invito suo e dell'amico Nino Valeri a scrivere un libro, su fonti archivistiche, su testimonianze dirette, dedicato a Giolitti e i cattolici. Quattro anni di incontri, di fitti scambi di lettere, di minuziosi accertamenti di questo o quel particolare prima di arrivare in porto, senza urtarne le suscettibilità e senza neanche attenuare il mio giudizio, che differiva dal suo, sulla posizione giolittiana di fronte al patto Gentiloni (giudizio più critico, più riservato delle condiscendenti valutazioni salvatorelliane, ribadite proprio in quegli anni in una polemica con Gaetano Natale). Salvatorelli era un direttore di collezione all'antica, di quelli che rivedevano ogni riga dei propri collaboratori, che controllavano tutto: l'opposto di quanti, alla moda odierna, regalano il proprio nome alle imprese della prevaricante e spesso improvvisata «industria culturale» in cambio di assegni cospicui, proporzionati solo alinerzia propria e all'arbitrio altrui. I rapporti con quest'uomo in apparenza aspro e riservato finivano per essere meno difficili di come una certa leggenda tendeva a far credere. Nel fondo l'uomo, cui la vita aveva riservato tante amarezze e tanti disinganni, era di una bontà rara, pari solo all'intransigente galantomismo morale. Non era rimasto, né tornato, all'Università anche per una certa insofferenza delle camorre accademiche, per una repugnanza istintiva alle oligarchie tendenti spesso a digradare nelle mafie. Amava i giovani, ma detestava il giovanilismo. Era uomo di scuola, ma non si esauriva nella scuola. Quella certa scontentezza, che ì.on scomparirà mai dal suo volto, nasceva da una sua fondamentale posizione che vorremmo definire «originaria», di storico che era anche protagonista del proprio tempo, di commentatore del passato che non rifuggiva mai dall'assumere le proprie responsabilità, e dal pagare di persona, nel difficile o torbido presente. Non a caso la sua storiografia non sarà mai rinuncia all'impegno civile. Altrettanto impegnato come giornalista che come storico: l'uomo che intuì, nelle pagine gobettiane del Nazionai fascismo, la realtà del fascismo come espressione del «quinto stato», come strumento di una esasperata reazione piccolo-borghese dei nuovi ceti emergenti dalla protesta e dalle stesse trasformazioni sociali e psicologiche del dopoguerra. L'uomo che nell'altro volume di Corbaccio di quegli anni, Irrealtà nazionalista (uscito nella stessa collana dove apparvero le ultime pagine di Giovanni Amendola ancora in vita, dove apparve la Battaglia perduta di Mario Missiroli, l'amico fedele — ci correvano due mesi — che lo ha seguito nella tomba ad un mese puntuale di distanza), denunciò tutti i rischi delle degenerazioni del nazionalismo molto prima delle aberrazioni hitleriane. L'uomo e il polemista vigoroso e appassionato che nel secondo dopoguerra, insieme con esponenti della politica e della cultura che si chiamavano La Malfa, De Ruggiero, Vinciguerra, seppe alimentare l'inconfondibile e ricchissima esperienza della Nuova Europa, la rivista che per prima nutrì e propagò l'ideale di una terza forza di democrazia laica contro i rischi, intuiti o intravisti in anticipo, di una grande mezzadria di potere fra i partiti dell'articolo 7 e della riabilitazione concordataria. C'è una frase, in una sua intervista di poco precedente la morte, che è di una chiarezza rivelatrice: «Sì, sono stato giornalista perché avevo precisi interessi di storia contemporanea». Alla fine di questa lunga e operosa giornata, i due peripli fondamentali tornavano ad incontrarsi, a ritrovare un miracoloso equilibrio: Io storico, che sosta sugli antefatti della propria travagliata generazione, e il giornalista che commenta ed inquadra le vicende dell'oggi, con la coscienza dei valori, e dei richiami, che dalla storia discendono. Non solo storico come «profeta del passato», per usare l'immagine di Schlegel, ma come testimone del presente. Non a caso Salvatorelli richiamerà, nel primo numero della Nuova Europa, il detto di Eschilo: «A chi ha sofferto tocca in sorte di comprendere». Giovanni Spadolini

Luoghi citati: Berlino, Dronero, Italia, Nuova Europa