Le provocazioni e cabale di Picabia di Marziano Bernardi

Le provocazioni e cabale di Picabia GRANDE MOSTRA ALLA GALLERIA CIVICA D'ARTE MODERNA Le provocazioni e cabale di Picabia Francis Picabia, di sangue spagnuolo-cubano, di nascita francese (Parigi, 1879), nomade per vocazione (parlerà un giorno della necessità di un nomadismo mentale), camaleonte nel regno delle immagini e delle parole, tutta la vita combattuto dal proprio dramma di amore-odio dell'arte fino a ridursi nevrotico, uomo di estreme arditezze e di estreme viltà, comprese quella morale delle avventure coniugali e quella fisica dell'« imboscamento » durante la prima guerra mondiale, fu uno dei massimi esponenti di quel gruppo artistico internazionale chiamato « avanguardia storica » (e la sua morte infatti, avvenuta in età avanzata nel 1953, lo storicizza), cui toccò in sorte di mettere in questione — altri dirà « distruggere » — sul principio del nostro secolo un ordine estetico che bene o male, con alti e bassi, stava in piedi dalle civiltà artistiche dei Sumeri e degli Egizi. Egli appartiene dunque alla famiglia intellettuale dei Duchamp e dei Man Ray, suoi intimi amici, ondeggia fra Cubismo e Futurismo, fra la « Section d'Or » e Dada sempre coltivando un ermetismo addirittura cabalistico, frequenta Breton senza compromettersi, si pone, per l'Orfismo, sotto le ali della chioccia Apollinaire e molto più tardi, per l'Informale, di Michel Tapié profeta di un'arte « autre »; e all'uno o all'altro movimento aderisce di colpo con entusiasmo imprimendogli il segno della propria originalità, arricchendolo d'invenzioni anche più audaci dei modelli da lui accettati, per poi staccarsene subitamente e rinnegarlo clamorosamente, nel timore di restarne prigioniero. Tuttavia — è stato osservato — egli non rientra nel novero degli artisti di nome mondiale più importanti della prima metà del Novecento; resta — ricordò la prima moglie, Gabrielle Buffet, musicista allieva del D'Indy e di Busoni, che tanta influenza ebbe sul marito — una personalità piena di contraddizioni, di voli e di cadute, di coraggio e di debolezza. Le molte facce Si giunge così al paradosso che un suo quadro oggi può valere duecento milioni di lire, ma è molto difficile considerarlo indicativo, più di un altro, più di cento altri, dell'« opera » di Picabia, diversamente da come accade per l'opera di un Matisse, d'uno Chagall, persino d'un Picasso attraverso la necessaria dicotomia critica; e spesso i suoi collezionisti fanatici (ve ne sono parecchi in Italia e particolarmente a Torino) si trovano ad avere una o poche delle facce d'un poliedro che rifletta innumerevoli luci. E ciò perché — ha scritto ora Maurizio Fagiolo dell'Arco — « è stato lui stesso, in una vita di lunghe divagazioni, a spostare il senso del suo lavoro »: che volle essere non la produzione di una serie di quadri (diciamo « quadri » in quanto nel suo caso è spesso arduo poterli chiamare «dipinti»), ma « un metodo di comportamento, una filosofia dell'arte »: un'arte però che intende rimuovere l'attenzione dall'oggetto al soggetto e ai suoi concetti, « dal prodotto al produttore ». I E poiché a Picabia non i i importano le sue opere e gli ! j importa soltanto se stesso, tipica condizione, del resto, | I dell'artista moderno, ed il | suo io muta continuamente I in un alone di leggenda favorita dai suoi famosi afori- , smi, alcuni sprizzanti intui- ; zioni geniali, altri decisameli- | te banali o stupidi, egli ri- ' mane quasi inafferrabile dal pubblico; rimane il destinatario d'una celebre lettera di Man Ray: « Mon cher Picabia, Depuis vos premières oeuvres électroniques vous ètes le peintre le mieux inconnu de votre vivant. Quelle réussite! ». Perciò per dare ai non specialisti la misura di questo illustre « inconnu » è d'importanza europea la mostra di quasi cento opere, pubblicazioni, documenti, fotografie ordinate su tavole didattiche, dedicata a Picabia, già programmata da Luigi Malie e dal compianto Aldo Passoni (alla cui memoria è dedicata), che oggi alle 18 Silvana Pettenatì presenta nella Galleria civica d'arte moderna di Torino. L'ha curata in due anni di lavoro Maurizio Fagiolo, con insuperabile, capillare conoscenza dell'artista, dei vari ambienti culturali in cui visse e lavorò, dei suoi rapporti con gli artisti, i poeti, i letterati, i musicisti, i cineasti che in Europa ed in America lo interessarono, dei quali condivise programmi ed idee o coi quali polemizzò. E tanta conoscenza si riflette nell'esemplare catalogo-monografia redatto dal Fagiolo, ricchissimo d'illustrazioni, un libro che — nella scarsità di letteratura critica su Picabia, quasi nulla in Italia — resta fonda¬ mentale per la definizione sua e del suo tempo. La visita a quest'esposizione è anche istruttiva perché dissipa il vieto pregiudizio che gl'innovatori artistici del nostro secolo abbiano agitato i vessilli della rivoluzione perché avevano smarrito il buon « mestiere » dell'arte tradizionale. Le innate doti pittoriche di Picabia si manifestarono quando a quattordici anni copiò di nascosto un quadro d'un certo valore ch'era in casa sua, mise la copia nella cornice e vendette l'originale all'insaputa di suo padre che, quando dal figlio fu avvertito, esclamò: « Magnifico! tu potresti fare il pittore »; ed il ragazzo rispose: « Perché no? ». Un decennio più tardi dipingeva al modo degli Impressionisti: la Eglise de Moret. del 1904, riprende un motivo di Sisley, e con le sue lievi ombre azzurrino-violacee è difatti un buon quadro impressionista. La rottura con la tradizione avviene quando, già sulla trentina, incontra Gabrielle Buffet, che lo inizia alla musica, e Marcel Duchamp, che dal 1910 sarà il Mefistofele di questo nuovo Faust avido di esperienze artistiche e vitali. L'arte "mentale" Nasce allora la sua « arte mentale », che trova il vertice espressivo nella fase del « meccanicismo », dal 1915 al '22, coincidente con l'adesione a Dada. Anche lo stile — nota Maurizio Fagiolo — diviene « meccanico »; ma la « macchina » di Picabia non è romantica al modo futurista, è fredda, precisa, tagliente al modo di Duchamp (e chi voglia accertarsene con- ! fronti qui alla mostra il qua; dro C'est clair oppure PreI nez garde à la peìnture con j quell'enigmatico Grande Vetro — di cui tanti parlano I con sconfinata ammirazione | senza capirne, forse perché ! incomprensibile, il significato 1 — che troveranno riprodotto | nei particolari nel Marcel Du\ champ di Arturo Schwarz, 1 ora uscito presso l'editore i Sansoni tra i « Maestri del ! Novecento»); è insomma un simbolo, un'astrazione, una ! immagine esoterica del tipo I di quelle che per Man Ray '■ celano la sessualità segreta I delle cose. Ma ciò che non cessa di i stupire, e disorienta, in Picabia è il repentino, febbrile i trasformismo figurale che, al j confronto, fa apparire quello di Picasso un gioco da | bambini. Impegnato a sopprimere con ironia crudele, addirittura con odio non soltanto la pittura ma l'arte intera, all'improvviso la vagheggia e la esalta nelle « Trasparenze » che mostrano quasi in filigrana elementi del Romanico catalano o del Rinascimento italiano. Dipinge la serie dei « Mostri » beffardi e repellenti, e con indifferenza passa a una produzione mercantile bassamente veristica. Sembra che non abbia altro scopo che la provocazione, e ci si accorge che a volte affonda nella tristezza. Nemmeno con questa mostra Picabia allontana dalla sua opera il dubbio di una lucida volontà mistificatrice, di fondo dadaista. Ha egli veramente creduto nell'arte e nella missione dell'artista, o l'ha sacrificata a uno sfrenato individualismo? Marziano Bernardi

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