Per le strade di Napoli

Per le strade di Napoli VISITA A UNA CAPITALE DECADUTA MA ANCORA UMANA Per le strade di Napoli E' costruita sul vuoto, può sprofondare da un momento all'altro, ma ogni giorno nascono più di cento bambini - Alla confusione amministrativa nazionale che si aggiunge a quella locale, oppone la vitalità della sua gente, lontana dall'antico folclore (Dal nostro inviato speciale) Napoli, novembre. Un uomo esce dalla nera gola d'un portoncino. E' antico, curvo, con panni decenti. Estrae di tasca due lunghi chiodi, ritrova i buchi abituali nel muro del vicolo. Li infila. Ora attende, la sigaretta disegnata al culmine del suo consunto profilo. Esce una donna, ha due grucce, che vengono appese ai due chiodi. Poi, una sottoveste sbiadita e una giacchetta riempiono, su quelle grucce, lo spazio del muro. Comincia così un nuovo giorno di mercato e congetture sui possibili clienti per Gennaro e Maria De Vincenzi, venditori casuali, legati all'economia del vicolo, quella che Matilde Serao definì una società di mutuo soccorso e Luigi Compagnone infuria a codificare quale scambio di reciproche miserie. Lassù, oltre la strettoia dei tetti, nel cielo squil¬ lante volano nuvole come stendardi. Ero venuto a Napoli per scrutare le tracce mortifere che guastano una capitale amata. Per misurare disperazione e affanni. Per sapere se può accadere qualcosa di brutale, in ribellione e paura civile. Mi dicono: sì, può succedere. Ma mi dicono anche: 'o carro s'acconcia p'a via, il carro trova il suo passo viaggiando, finché muove, finché gli riesce di non sgangherarsi. Le acque del golfo hanno perso la « qualità unica » che fu descritta da Guido Piovene nel suo viaggio di circa vent'anni fa. Non sono « leggere, diafane, quasi irreali, con le navi sospese come nell'aria ». Le pagine che Piovene dedicò a Napoli ci riportano ad un clima persino felice, denso d'ottimismo. Nel suo colloquio con Epicarmo Corbino, l'economista, pur criticando aspramente, gli conìnssava, a prò- posilo di tante spese caotiche o colpevoli, che « a chi fa le tagliatelle casca la farina per terra ». Ora, la farina è cascata tutta? E chi rimescola sul tavolo? «Abbiamo perduto la chiave del cuore segreto napoletano », mormora Michele Prisco: « Qui viviamo il tutto e il suo contrario. Ogni ragionamento può sembrare giusto, ma a Napoli è comunque ribaltabile ». E china la sua dolce testa ritagliata in argento e liscio avorio. Non ha più voglia di parlare, dibattere, discutere, accapigliarsi. « Anche tra noi, quando naufraghiamo in questi discorsi, si finisce col perdere il bandolo », sorride lontano. Bisogna camminare e camminare e ancora camminare per Napoli, come nel bosco buio delle favole, dal « rettifilo » a Toledo, da Fuorigrotta ai fumi flegrei, da Posillipo, dalle controversie intellettuali al problema del collettore che per sedici chilometri incanala sotto l'acropoli e nel mare di Cuma un inferno di liquami. E io cammino e cammino, insieme ad un amico, evitando con l'obbligatoria indifferenza torera le cariche delle auto, a loro volta costrette a funambolismi e gimkane clownesche. E camminando mi sento sempre più una formica, che incontra e annusa, caccia e trasporta, si perde e ritrova sentieri, si dispera e ride, si confonde e inventa prodigi per sé sola. Perché uno mi dice: « Attento, qui bisogna tener salute. I nostri ospedali si chiamano "Dagli Incurabili" e "Pellegrini". Pensaci sopra ». E un altro, con determinata asprezza, sussurra: « La fatica non conosce padrone ». E un terzo, piovendo sapienza, ricorda: « Credi a quello che meno t'aspetti! ». Parole e frane Assediata di concetti, Napoli campa. Si districa tra il compromesso, le tante parole, le frane. E' costruita sul vuoto, può sprofondare ■da un momento all'altro, nelle vie si aprono frane immense all'improvviso, ma tutti seguitano a figliare, oltre cento bambini vi nascono ogni giorno, e tutti soppesano la Morte, che qui è antico spettro di compagnia. Luigi Compagnone alza patiboli metafisici sulle piazze dei suoi romanzi e dei suoi epigrammi, Michele Prisco scruta nelle viscere d'una borghesia che è tuttora ricca, abita splendidi condomini a Posillipo, si raccoglie per deliziosi banchetti all'Excelsior. Ciò che fu greco e arabo, spagnolo e francese e perse gli immemorabili colori nell'intingolo classico della « napoletanità » lo puoi toccare arcora: anche se è nervo che freme, anche se è dolore che si raccoglie nei vicoli, anche se è bocca che si spalanca in un urlo silenzioso. Ma male, invece, inciampare in quelli che sono i « vizi » italiani, ora deflagrati a Napoli per l'eccesso della burocrazia, per il mal impatto con Roma, per lo smarrimento di valori che avevano un senso, in questa metropoli, e oggi risultano lacere bandiere. Rinserrata nel suo castone Napoli era più viva e amara, un tempo: non oggi che si vede travolta dalla confusione amministrativa nazionale, aggiuntasi a quella locale, lenta ma meno ingorda, velleitaria ma priva di brutalità. Nel cortile del Palazzo di Giustizia ecco ì grandi avvocati con il loro seguito di « clientes », debitori e nere donne mogli di pregiudicati, giovani d'ufficio dal passo servile, testimoni disponibili per mille cause. Bisogna passeggiare attorno al quadrato del cortile, per portici rugginosi ove su un banco dorme, antichissimo, un vecchio mendicante dal volto ulissiaco. Due gitane rintanate in un angolo chissà chi, cosa aspettano. Al collega Adriaco Luise che investiga, gli uscieri rispondono, interpretando un suo minimo cenno del mento: « Niente oggi, dottore». Fuori, un giovane fa muovere su e giù una scimmietta tenuta da un leggero guinzaglio. Si sono fermati un corniciaio, due studentesse, un giudice. La scimmietta rotola su se stessa, ma non ghigna, non mostra i denti a chi cerca di divertirla con brevi solletichii lungo il ventre, le minuscole narici. E' lì dal Seicento. E il suo padrone, per giustificarla, spiega all'intorno: « Oggi non tiene l'umore ». Andresti via da Napoli?, domando a Compagnone e Prisco. Mi rispondono di no. Altra capitale umana non esiste, anche se ormai è impossibile abbracciarla per intero, anche se la sua dilatazione ha creato dieci, venti città diverse nella cintura invisibile della « napoletani¬ tà ». Anche se è astruso concepire un « dopo » che sia conseguenza fatata e conclusiva di questo « prima » da cambiare. Ma la gente che ama guardarti, che sì lascia guardare, è ancora grandiosamente composta di individui ben ritagliati nel loro essere. Sotto la funerea scritta murale che sta cancellandosi e dice « Se voti divorzio sei un cornuto », ragazzi di Forcella distribuiscono un loro giornalino estremista e citano Mao come se gli fosse parente. Nel cortile d'un palazzo quattrocentesco a Spaccanapoli, contro un muro possente e un'edera gonfia di splendore v'è una testa di cavallo, residuo di qualche gigantesco monumento equestre. Ha un colore sanguigno, le mascelle nervose. Mi riposo a lungo, guardandola, immaginando chissà quali imperi e glorie rappresentò. Domando a un ragazzo in « jeans » che entra in un antro d'officina, da dove arriva, non lo sa ma aggiunge: « Non vi piace? », ed è preoccupato, quasi mi sembra di leggergli negli occhi: se volete, ve la leviamo. In piccole botteghe, su banchetti improvvisati ma pulitissimi, occhialai e venditori di olive, l'uomo delle caldarroste e verdurieri allineano, vantano, cantano le loro merci, in quelle spirali di vocaboli che sono nenia stupita, compagnia e orologio, perché ogni voce ha le sue scadenze d'orario, crescono e decrescono secondo le abitudini delle massaie, degli scolari che sciamano in strada, degli impiegati. Ma è sempre vita, non argomento di pulcinellesco folclore, odioso agli stessi napoletani, che non vogliono più saperne di Piedigrotte o di feste anacronistiche, e tengono d'occhio la nuova classe operaia, e malgrado quelle scrìtte di « divorzio per cornuti» hanno, almeno in città, votato il loro « sì », seppure a strettissima maggioranza. Nella chiesa di San Gregorio Armeno siedo a rimirar gli ori cadenti, le donne, poche, che pregano davanti all'altare di Santa Patrizia, il cui sangue si scioglie come quello di Gennaro. Grigio e sovraccarico d'ombre, il tempio è governato da un vecchio in papalina, seduto in un canto col rosario. I lumini di Santa Patrizia sono tutti accesi, mi sorprende l'odore di sughero. Scoprirò dopo il perché. Nelle stradine, è già cominciato il Natale, presepi di casette ritagliate nel cartone, cortecce a montagne, cestoni di cavallucci, maialini, pastori, ghirlande di carta colorata. Quasi nessuno compera, ma tutti studiano, mandano a memoria, scelgono, se una mano rovista un po' troppo s'alza un'altra mano, quella del padrone, sovente un giovane artigiano, per significare: sta attento, non cambiare con la tua la mia studiata confusione. Ma il formicolio impone ancora e sempre di camminare. Può servire da pretesto un libro introvabile, come le «Passeggiate campane » di Maiuri archeologo. Potrebbe servire la ricerca d'una bottega di scarpe, perché la mia, quella destra, s'è slabbrata. Camminerò zoppicando fino a sera, attento a non allargare troppo il guasto. Finché scopro che questo procedere sbilenco, anche se fastidiosissimo, è l'unico che mi permette di scoprire, di sposare un marciapiede, una piazza in discesa, le scale. Ed è anche allegria il fatto che nessuno, pur porgendomi attenzione, si impicci del mio guaio. Lo notano, certo, ma io devo pur sentirmi libero di portarlo per il mondo, pensano. E' sempre lotto Vele di galeoni flottano nel cielo del tramonto, impercettibili lumi si accendono nel bosco dei vicoli, ove un'astuzia infinita tesse le trame della sua guerriglia esistenziale, senza vittime perché tutti si è già feriti. Davanti al bar, dove troneggiano i primi due numeri estratti, il 14 e il 41, diversi giovani discutono contemporaneamente, senza rispondersi, di questi temi: il richiamo magico che i numeri esercitano tra di loro, la battaglia che i trafficanti marsigliesi stanno vincendo nei confronti dei contrabbandieri locali, la disparità tra il crimine al Nord e quello napoletano, ove il rapimento è ancora inconcepibile e dove un bambino, una « creatura », mai deve patire. E' uno scambio fittissimo e aggrovigliato di affermazioni, via via più acute. Rara o quasi inesistente la domanda, perentoria l'uscita della parola concepita come idea-guida. Fumano, questi ragazzi, si versano reciprocamente zucchero nelle tazzine del caffè, ma i loro di¬ scorsi fuggono su binari divergenti, ciascuno alla ricerca della propria verità, anzi anticipando la verità con un punto esclamativo che dovrebbe seppellire ogni dubbio altrui. Riparto, zoppicando. Penso al vecchio barone che nel mio albergo, a quest'ora, siede al bar, finge di leggiucchiare i titoli del giornale, si fa elencare minuziosamente la lista della cena, via via negando, come ripete da anni. Sceglierà mozzarella, tutti lo sanno, ma il rituale va rispettato. Tra poco, si avvìerà dal bar alla sala da pranzo agitando un bastoncello leggero, in un rivoltoHo di pensieri che accomunano in unico cespuglio la squadra di calcio, la partenza delle navi, il programma televisivo, la lagnanza sul turismo decaduto. E lo seguirà, barcollando, un vecchio attore americano, Joseph Cotten, che per giorni ho veduto riflettere nel caleidoscopio degli occhi la fuga d'automobili lungo via Partenope. Troppi errori Zoppico e sono felice nella consapevolezza del momento e della nostra età claudicanti. Mi sembra di trascinarmi dietro la città, io tartaruga e lei benigna foresta. Sento il peso degli anni come Napoli lo sente nel suo ventre corroso e intricato. Ma è un peso che dà freddo dolore, non disperazione, perché non moltiplica gli inganni, li inchioda invece in una vetrinetta dove puoi rimirarli e contarli: ecco ogni stimmate, il suo come, quando, perché. Non c'è mistero, solo errori. Umani, firmati, collettivi. Non dipendono da un destino che vogliamo esorcizzare con le nostre ridicole maledizioni. La scarpa ormai rilutta sulle pietre, vorrebbe arrendersi. Quando dal tassista pretendo gli spiccioli del resto perché m'abbisogna l'ultimo caffè, lui rifiuta. Ma scende e dice: « Onore mio sarà offrirvelo ». Sbatte la portiera e ci avviamo al bar. Fa notte. Cerco invano di ricordare il nome di quella potente dama che in accen¬ to tedesco gridava ai suoi dignitari, per incitarli a spegnere i napoletani riottosi: « Casticare! Casticare! ». Non è mai successo altro. Giovanni Arpìno Da intellettuali italiani