Lunga marcia per Arafat di Vittorio Zucconi

Lunga marcia per Arafat Lunga marcia per Arafat (Dal nostro corrispondente) Washington, 12 novembre. Dopo ventidue anni di silenzio (l'ultimo dibattito in assemblea risale al 1952), la « questione palestinese » torna alle Nazioni Unite con il volto di Yassir Arafat, l'uomo che ha saputo emergere come il capo riconosciuto del movimento di liberazione. Il suo discorso, domattina alle 11 (ora di New York) è un avvenimento senza precedenti nella storia dell'Onu. poiché mai il leader di un movimento insurrezionale ebbe il privilegio di parlare dalla tribuna delle Nazioni Unite. Ma l'importanza del suo intervento andrà ben oltre la curiosità storiografica: esso potrà essere un passo fondamentale verso la pacificazione del Medio Oriente, cos'i come un'altra spinta verso la guerra. Nella situazione attuale, ove pace e guerra sono entrambe a portata di mano e quasi equidistanti, una parola può provocare l'una o l'altra. Nel momento in cui Arafat conclude, con l'intervento all'Onu, la lunga marcia verso il riconoscimento e la rispettabilità (dal 1969 è il capo eletto del movimento palestinese), egli si trova di fronte ad una serie di tremende incognite: se aprirà troppi spiragli ad Israele, la coalizione di forze che egli guida, nota comeOlp (Organizzazione per la liberazione della Palestina), rischia di sfaldarsi. Se la sua linea sarà troppo dura, le forze che in Israele (come in Usa) considerano il riconoscimento dell'Olp come un ostacolo alla pace, troveranno conferma al giudizio che si va verso la guerra. Arafat ha ormai dato abbastanza prove di sé quale abilissimo diplomatico per non essere certi che conosce perfettamente i pericoli nascosti nel suo trionfo. Ma egli, così come in buona misura Israele stesso, è condizionato da troppi fattori esterni, è sorretto da troppe coincidenze di circostanze per essere completamente padrone delle sue scelte. Sì sa che vorrebbe incontrare Kissinger. ad esempio, ma non può farlo senza l'autorizzazione del suo stesso gruppo. Sì aggiunge in ambienti americani che oggi potrebbe addirittura considerare il riconoscimento di Israele, se questo muovesse la creazione di uno Stato palestinese, ma ancora egli non può scavalcare repentinamente l'ala più dura La convergenza di interessi j che ha portato all'accettazio- ' ne di Arafat e dell'Olp quali rappresentanti della Palestina (solo Usa, Israele e due nazioni sudamericane votarono contro, all'Onu) è una combinazione strumentale, non il segno di un'alleanza fra le 105 nazioni che votarono «sì» ed i palestinesi. Arafat lo sa, sa di doversi muovere in fretta e, insieme, con equilibrio per prolungare al massimo questa congiuntura internazionale a lui favorevole. Come accade purtroppo da ormai trent'anni, le grandi potenze giocano le loro ciniche partite di « influenza » sul Medio Oriente, lasciando in ultima analisi ad arabi e israeliani il peso delle sofferenze e delle soluzioni. L'Olp stesso appare in una posizione assai delicata: essa può essere usata dagli arabi per dimostrare l'intolleranza di Israele, e dagli israeliani per dimostrare l'impossibilità di una ragionevole soluzione del- i la crisi. Kissinger dice ormai apertamente che. per evitare una guerra, Israele deve decidersi a nuovi sacrifici, e la storia del Medio Oriente ha dimostrato che ogni ritardo serve soltanto ad accrescere il prezzo degli accordi. Ma non è una scelta facile per lo Stato ebraico, che ha pagato gli incubi del terrorismo e la vergogna delle rappresaglie. Due correnti sono ben visibili a Tel Aviv: una, che si può identificare con Dayan, insiste nella tesi che « non vi è spazio per uno Stato palestinese autonomo » (è quanto l'ex ministro della Difesa ripete da alcuni giorni in Usa, dove si trova): l'altra si concentra in quella che i diplomatici definiscono la « formula Yariv ». Nel luglio scorso. Aaron Yariv, ministro israeliano dell'Informazione, lanciò un timido « ballon d'essai» affermando che, se l'Olp avesse riconosciuto Israele e rinunciato al terrorismo, colloqui e trattative dirette con Arafat avrebbero potuto aprirsi. Il discorso del leader palestinese (il cui arrivo a New York è imminente, fra misure di sicurezza eccezionali) sarà dunque un incentivo alle teorie dei « falchi » (già si parla di azioni preventive) o darà una spinta alla formula Yariv, seppure non in termini categorici? MsaD Mentre attendiamo la risposta, sarà opportuno ricordare che una nuova guerra aperta in Medio Oriente potrebbe avere conseguenze ancor più gi'avi del conflitto dell'ottobre scorso. Sarebbe, ad esempio, assai più difficile tenere a bada i « falchi » americani, ansiosi di risolvere una volta per tutte la questione del petrolio, usando Israele come testa di ponte verso i pozzi arabi, e impedire una reazione sovietica. Anche la guerra del Kippur portò, sia pure in modo ancora misterioso, alle soglie della catastrofe con la massiccia mobilitazione di paracadutisti russi e l'allarme atomico americano. Vittorio Zucconi