Varese: una teste riconosce i 4 imputati per terrorismo di Vincenzo Tessandori

Varese: una teste riconosce i 4 imputati per terrorismo Il processo ai fascisti dell'esplosivo Varese: una teste riconosce i 4 imputati per terrorismo Nel negozio, dove è impiegata, comprarono sacchetti di plastica identici a quelli trovati pieni di miscela esplosiva nel bosco di Luino (Dal nostro inviato speciale) Varese, 8 novembre. I quattro «bravi camerati» arrestati a Varese il 28 ottobre non erano solo buoni conoscenti, ma i legami erano molto più stretti sino ad assumere il profilo inquietante della «cellula operativa»: dai loro interrogatori in aula sono venute alla luce molte contraddizioni, i rapporti con altri noti personaggi della «trama nera del terrore». Li hanno inchiodati le testimonianze. La ragazza di 14 anni, impiegata nel negozio di Casciago, non ha avuto dubbi: «Li ho visti più volte, venivano a fare compere e venerdì 25 ottobre acquistarono un numero imprecisato di sacchetti di plastica. Quello più piccolo con gli occhiali, Zani, prese anche un rotolo di nastro adesivo». Nessun dubbio neppure per l'edicolante del paese, Brovedari: «Di Giovanni comprò un cestino per tenere i giornali ed un nastro di scotch». Sacchi uguali furono trovati, poche ore dopo, colmi di miscela esplosiva nella pineta sopra Luino. La dichiarazione ha fatto perdere le staffe ai due imputati fino a quel momento apparsi sufficientemente padroni dei propri nervi. Di Giovanni è scattato, il volto stravolto. Ha urlato alla donna: «Le comunico che la denuncerò per falsa testimonianza». A sua volta Zani la minacciava con una mano. Dunque, il processo per direttissima ai quattro «militi bruni» è ripreso dopo la sospensione di 20 ore decisa dal tribunale. Ancora tranquilli, stamane, Mario Di Giovanni, Fabrizio e Daniele Zani, Armando Tedesco e Silverio Bottazzi. Sono stati fatti dei nomi, e sono nomi che nel firmamento nero hanno precise collocazioni che lasciano intravedere legami fra il gruppo e i personaggi tristemente noti della strategia del terrore. L'ex segretario provinciale della Cisnal, Silverio Bottazzi, è stato ascoltato per primo: ha tentato di prendere subito le distanze dagli altri, ha detto che la conoscenza con Di Gio- 1 vanni e Zani era più o meno casuale anche se risaliva a due anni prima. «Mi hanno chiesto lavoro, non volevano più stare a Milano. Ho dato loro nome e indirizzo di Marcello Mainardi a Lugano». Più tardi, i componenti del gruppo che gravitava attorno al foglio confluirono nel «Mar» di Carlo Fumagalli. Un altro giornale nero veniva stampato nella stessa tipografia bresciana: la Fenice, di cui Giancarlo Rognoni era forse il personaggio più rappresentativo. Rognoni è stato giudicato, contumace, dal tribunale di Genova per l'attentato fallito al treno Torino-Roma. Solo alle 18 si è iniziato l'interrogatorio di Mario Di Giovanni, il transfuga di Piano del Rascino, uomo di spicco della cellula. Lui e Zani non avevano potuto ascoltare l'interrogatorio degli altri due, ma, almeno in apparenza, la cosa non ha fatto mutare la tattica difensiva. Braccia conserte, gambe accavallate, sembra deciso a tener testa alle contestazioni. Sceglie con cura le parole, si fa ripetere la domanda quando ha l'impressione di poter guadagnare tempo. Sa trovare le risposte con linguaggio forbito, usa anche termini giuridici. Esordisce con una spiegazione: «Ero venuto a Varese per cercare lavoro. Mi occorrevano soldi per andare all'estero, fuori dall'Italia e dall'Europa». Non precisa dove. Anche il viaggio in Svizzera, contestato dall'accusa, lo ha fatto in compagnia di Zani: «Cercavo lavoro, dal Bottazzi avevamo avuto il nome di Mainardi, che mi avevano detto, possiede una catena di ristoranti». Naturalmente il nome di Mainardi non gli aveva ricordato assolutamente niente. «Volevo andarmene vìa per cambiare vita. Non potevo più restare a Milano, non volevo pesare alla mia famiglia». Il passaporto? «Lo avevo acquistato per duecentomila lire da un delinquente nei pressi di piazzale Loreto a Milano: il mio me lo avevano sequestrato nel 1971 dopo una rissa con avversari politici, e sulla carta d'identità c'era il timbro "non valida per l'estero"». La stampigliatura era stata posta dopo il suo arresto per resistenza aggravata e adunata sediziosa il 12 aprile '73, nei pressi di piazza Tricolore, dove una bomba fascista uccise l'agente di polizia Antonio Marino. Naturalmente non è andato ad acquistare i sacchetti di plastica nel negozio di via Mazzini né il nastro adesivo. Subito dopo, è stato ascoltato anche Zani. Il tono delle sue risposte è stato identico. Però, pochi minuti più tardi, i testimoni li hanno confutati. Vincenzo Tessandori