Vittoria inquieta per i democratici di Vittorio Zucconi

Vittoria inquieta per i democratici Dopo le elezioni negli Usa Vittoria inquieta per i democratici (Dal nostro corrispondente) Washington, 7 novembre. Mentre gli ultimi conteggi elettorali si vanno esaurendo (vi sono ancora un seggio alla Camera e uno al Senato in dubbio) l'America analizza il voto di martedì e ne è turbata: inviando 292 democratici alla Camera (su 435), 61 al Senato (su 100) e 56 al governo degli Stati, il « Paese reale » ha risposto all'interrogativo elettorale in modo insieme preciso e conjuso. Preciso è il rifiuto della gestione arrogante, disonesta e inefficiente del potere che aveva caratterizzato la presidenza Nixon, rifiuto dimostralo sia con un massiccio astensionismo sia con la punizione dei politici repubblicani legati all'ex presidente. Confuso è invece il mandato per i democratici vittoriosi che si trovano oggi ad avere un gran corpo politico senza lesta (nessuna leadership chiara è venuta alla ribalta) e a dover gestire un trionfo difficile, di fronte ad un elettorato che vuole da loro il rilancio economico e il blocco dell'inflazione, l'aumento dell'assistenza pubblica e il contenimento dell'' tasse. In breve, l'impossibile. Come tutti i voti « di reazione » anche questo di martedì è dunque più chiaro nei rifiuti che nelle indicazioni e ha dimostrato, con un afflusso bassissimo alle urne (58 per cento), die il pericolo di scollamento fra il cittadino e il sistema è reale. V'è un che di artificiale, di inflazionistico nei risultati che rende inquieti i vincitori, ma non allevia la delusione degli sconfitti. I democratici hanno ricevuto un « mandato », ha detto il presidente della Camera, Albert. Ma quale? « Un mandato per una politica economica progressista », risponde il senatore Mondale, leader dell'ala sinistra, « il segno che il partito deve muoversi verso il centro e battere strade nuove » risponde il governatore dell'Alabama Wallace, che dovrà faticare per togliersi l'etichetta di uomo di « estrema destra ». Il partito democratico sente accresciuta la sua inquietu¬ dine dalla convinzione che ora soltanto i suoi errori possono fargli perdere la Casa Bianca, nel '76, controllando ormai l'apparato governativo negli 8 Stati che sempre determinano il risultato finale delle presidenziali. Ma. ad appena due anni da quell'elezione, si trova con almeno 10 potenziali candidati, nessuno dèi quali spicca finora per capacità o popolarità: fackson, Mondale, Strauss (presidente del partito), Bayh (senatore dell'Indiana). Muskie, Udell (senatore, Arizona), l'astronauta John Glena (nuovo governatore dell'Ohio), Brown (il giovanissimo governatore della California). Carey (l'uomo che ha strappalo lo Stato di New York al monopolio dei Rockefeller). E naturalmente Wallace, immobilizzato su una seaia a rotelle dopo l'allentato del 72, popolarissimo e capace di abbandonare i democratici se non avrà la candidatura e presentarsi come « terzo uomo » in grado di raccogliere i voti dei delusi e dei qualunquisti. Con la maggioranza dei due terzi alla Camera e 61 senatori su 100, i democratici sono ora numericamente in grado di « dettare legge » a Washington, anche se hanno fallito l'obiettivo dei due terzi anche al Senato e dunque la (teorica) possibilità di annullare ogni veto di Ford: ma l'« inflazione » del partito ne gonfierà inevitabilmente le contraddizioni interne, che solo la débàcle di McGovern aveva sopito. Dunque ne può paralizzare l'azione, poiché i 292 eletti hanno « corso» con programmi diversissimi e spesso contraddittori. Questo larghissimo spettro di opinioni e di uomini, che ciascuno dei due partiti contiene, è la forza e insieme il limite del bipartitismo americano: esso consente eli recepire istanze diverse che una rigida distinzione ideologica a due non potrebbe accogliere, ma insieme rende rugginosa l'azione legislativa e inesistente qualunque disciplina di « gruppo ». Qui sta il maggiore interrogativo del dopo-elezioni. Se i democratici troveranno una qualche « piattaforma » comune (ed equilibrata) dalla quale agire in Parlamento, il Paese è forse alla vigilia di una lunga parentesi di dominio democratico. Se la lotta per la candidatura al '76, le lacerazioni interne esploderanno, allora il Paese "è alle soglie di una crisi gì ossa, una crisi di sfiducia globale, di cui già si avvertono i segni. E' stato scritto, dal New York Times, che martedì l'America ha compiuto un rituale purificaiorio: bocciando inesorabilmente tutti gli uomini compromessi col Watergate, promuovendo chi si era levato per tempo a chiedere giustizia, il Paese ha chiuso i conti dello scandalo nazionale ed ora vuole azioni in positivo. Ha detto di non credere ai generici programmi fordiani in materia economica, di voler provvedimenti incisivi e di essere pronto anche a qualche sacrificio per salvare il nucleo del proprio benessere dalla minaccia congiunta recessivo-inflazionistica (questo è il senso del voto dei « suburbio » andato ai democratici). La reazione di Ford, dopo il disappunto iniziale (quasi tutti i candidati per i quali si è mosso di persona sono stali sconfitti) è stala un gesto di pace per il partito avverso. Ha chiesto di. lavorare insieme, ha detto di « essere pronto a incontrare il Parlamento anche oltre la metà del cammino ». Così, i democratici si trovano ora prigionieri di un difficile paradosso: se coopereranno con Ford sul terreno economico (e una collaborazione esecutivo-legislativo è indispensabile) rischiano di irrobustire il loro avversario probabile nelle presidenziali. Se dichiareranno guerra, rischieranno di peggiorare la crisi economico-politica del Paese e dunque essere puniti nel '76, così come i repubblicani sono slati castigati martedì scorso. La ricerca di un difficilissimo equilibrio attende questo parlilo, celebre per i suoi squilibri interni. Vittorio Zucconi

Persone citate: Bayh, Brown, Mondale, Nixon, Rockefeller, Strauss