Il vecchio Berenson fra gli amici italiani

Il vecchio Berenson fra gli amici italiani NELL'ISOLA TOSCANA FORTUNATA Il vecchio Berenson fra gli amici italiani Quanti avranno gustato, tempo fa, davanti al video il documentario sulla vita e sull'opera di Bernard Berenson? Le immagini parevano famigliari: una villa toscana senza grandi pretese (/ Tatti, in quel di Settignano), un giardino terrazzato all'italiana, un paesaggio ben noto: Firenze, i dolci colli fiesolani. Ma il mondo che quelle immagini rievocavano — a cui, per meglio dire, fungevano da scenario — non aveva nulla di consueto. " Un'isola 'fortunata, certo, come altre ce ne furono in passato, dominate dalla figura leggendaria di un saggio: Voltaire a Ferney, Goethe a Wei,mar, Tolstoi a Jasnaia Pollami. Ma chi approdava ai Tatti dalle più remote contrade del globo si rendeva conto subito dell'inconfondibile impronta italiana dell'ambiente e del modo di vivere, modo di vivere che, nel suo rituale ad un tempo leggiadro e rigoroso, molte volte è stato paragonato a quello di una piccola corte del Rinascimento. Vero è che quel rituale si era definitivamente fissato soltanto negli anni del secondo dopoguerra, quando Berenson era diventato quasi l'oggetto di un culto e l'idolo di un certo mondo snob. Ma sta di fatto che a quell'epoca Berenson era ormai vissuto da più di sessantanni in Italia, e tra per le molte amicizie e tra per il semplice fatto di star in mezzo ad italiani, un po' italiano era diventato anche lui. Certo, nella mia lunga pratica di stranieri, non ne ho mai incontrato nessuno che meglio avesse penetrato i nostri meriti ed i nostri difetti, dimostrando senza ritegno una tollerante indulgenza per gli uni ed una schietta .ammirazione per gli altri. La sua conoscenza per così dire dall'interno del carattere italiano gli serviva poi spesso per condire di osservazioni argute 'gli inèvitabili paragoni fra i diversi caratteri nazionali, cui il campionario cosmopolita dei Tatti offriva facile spunto. Ne citerò qui qualche esempio che mi è rimasto impresso nella memoria, da aggiungere alla bella raccolta curata da Umberto Morra, che di Berenson fu per lunghi decenni discepolo ed amico devoto. Il mio primo ricordo è di quasi mezzo secolo fa. Alla vigilia della mia partenza per l'Inghilterra, dove avevo vinto una borsa di studio per Oxford, fu Morra appunto a presentarmi a Berenson che mi avrebbe munito di alcune preziose commendatizie. Questi, al momento di congedarmi, volle darmi un inatteso consiglio. « Si ricordi, giovanotto », disse, « che i rapporti umani sono retti in modo diametralmente opposto in Inghilterra e in Italia. Qui da voi si parte dal basso: pochi le fanno credito subito; incominceranno anzi col sotto valutarla, e toccherà a Lei, partendo da zero, di conquistare poco alla volta il riconoscimento del suo valore. Ma gli inglesi fanno esattamente il contrario. Le apriranno subito un credito, che nel caso suo non dubito sarà generoso. Ma guai a lei se non corrisponderà alle loro aspettative. In Italia le rimarrebbe pur sempre qualche speranza. Là, sarà un uomo finito ». A ripensarci ora, dopo cinquant'anni, non sono ben sicuro che Berenson intendesse biasimare o lodare l'atteggiamento italiano. Ho l'impressione che lo scetticismo e la mancanza d'illusioni degli italiani gli andassero più a genio del paternalismo caritativo degli inglesi. Molti anni più tardi, mi trovavo un giorno a pranzo ai Tatti ed erano ospiti, saliti da Firenze, due illustri studiosi che- molto contribuirono a tener viva la cultura italiana durante i grigi tempi del fascismo: Luigi Russo e Adolfo Omodeo. Erano gli anni in cui Omodeo pubblicava su La Critica i suoi studi su Cattolicismo e civiltà moderna nel secolo XIX, iniziati coll'ampio saggio su De Maistre e chiaramente ispirati alla tesi che il Croce aveva messo innanzi nel 1932 nella sua Storia d'Europa: la tesi dell'inconciliabilità delle « due fedi religiose opposte », quella cattolico-reazionaria e quella liberale. La conversazione non tardò a volgersi sull'argomento di quegli studi, e mi accorsi che Berenson quasi deliberatamente cercava* di punzecchiare Omodeo con vivaci battute tra l'ironico e il bonario, contestandogli come troppo severo e negativo il giudizio sul « tentativo reazionario» che si sarebbe compiuto, e sarebbe fallito, nella cultura francese della Restaurazione. Ma l'intento serniserio e malizioso di Berenson sfuggiva interamente ai suoi due interlocutori, i quali accalorandosi sempre più finivano per innalzare la tesi crociana a canone storiografico ineccepibile sul quale nessun dubbio fosse lecito affacciare. « Questi vostri filosofi! », commentò Berenson dopo la partenza degli ospiti, « questi vostri filosofi meridionali! Voi li dite filosofi, ma filosofi non sono affatto. Sono dei teologi, credenti nel Verbo, e pronti a lanciare l'anatema... ». Se poi la memoria non mi falla, risale pure a quegli anni un altro, e per me dei più penetranti giudizi di Berenson sugli italiani, un giudizio nel quale non è più possibile ravvisare alcuna punta di ironia, ma che testimonia piuttosto un apprezzamento sincero e intelligente di talune nostre qualità natie. Era scoppiato da.poco quello che fu chiamato allora lo scandalo Dossena: si trattava di una vicenda di contraffazione di sculture e di dipinti, in cui dapprima erano state immesse sul mercato fatture « facili » — falsi Della Robbia, falsi Canova — ina poi via via l'ambizione del falsario era cresciuta, fino al punto di produrre, e presentar per autentico, un preteso Michelangelo giovanile. Da ultimo, ia frode era stata scoperta, e l'autore dei falsi incriminato e se non erro messo in prigione. Questo l'antefatto. Poco dopo quegli avvenimenti ero oèp'itó 'per alcuni giorni alla villa Berenson, ed una volta, dopo il pranzo, toccò a me l'onore di esser prescelto per accompagnare il Maestro nella sua consueta passeggiata pomeridiana. Giunti su un poggio da cui lo sguardo spaziava sulla Val d'Arno e sui monti lontani — su quel paesaggio d'una vaghezza impareggiabile in cui molte volte Berenson aveva detto di ravvisare la matrice dell'arte italiana — questi, dopo una lunga e muta contemplazione, mi rivolse improvvisamente la parola. «Quel Dossena», disse, « le vostre autorità lo hanno arrestato c lo condanneranno. Ma io le dico che è un genio. Io so quanta perizia, quant'arte ci voglia per far cader lo scalpello sul marmo all'angolo giusto, per trarre dall'inerte materia la statua viva». Seguì un silenzio imbarazzato: non sapevo cosa rispondere né cosa Berenson si aspet¬ tasse da me. Fu lui quindi a prender nuovamente la parola, uscendo in questa affermazione inattesa: «Già, è proprio questo il guaio con voialtri italiani. Siete troppo geniali, avete troppe doti, troppo talento. Tutto è facile per voi. Ed è per questa ragione che non siete più capaci di produrre vere opere d'arte ». Più che mai mi parve saggio tacere, ed aspettare la conclusione di questo sorprendente discorso. La quale non si fece aspettare. «Bisognerebbe che gli artisti italiani fossero costretti a dipingere o a scolpire colle mani mozze. Allora; e allora soltanto, avendo una terribile difficoltà da sormontare, creerebbero il capolavoro ». Le parole di Berenson non mi si son mai cancellate dalla memoria, anche perché quel « mani mozze » lo disse in italiano mentre correntemente conversavamo in inglese. Ma soprattutto esse mi tornarono alla mente nell'immediato dopoguerra, quando corsero per il mondo con grande successo alcuni film italiani di rara bellezza: Roma città aperta, Paisà, Ladri di biciclette ed altri ancora. Durante il ventennio, il fascismo aveva profuso denaro e favori per l'incremento del cinema italiano. Ma tutto quello che ne era venuto fuori eran film di terz'ordine come quelli dei « telefoni bianchi ». Ora, dopo la guerra, distrutta Cinecittà, gli artisti italiani erano stati gettati letteralmente sul lastrico. Eppure, con in mano la sola macchina da presa, avevano creato dei capolavori. Piccoli, effimeri capolavori, se si vuole. Ma tali da giustificare e da confermare il giudizio, starei per dire la fiducia, che il, vecchio saggio mi aveva un giorno manifestato al riguardo dei suoi concittadini d'elezione. , A. Passerin d'Entrèves