Un contestatore della Biennale di Marziano Bernardi

Un contestatore della Biennale LA MOSTRA DI GINO ROSSI Un contestatore della Biennale (Dal nostro invialo speciale) Treviso, ottobre, Poiché quella che si continua a chiamare, ma che non è più. la « Biennale di Venezia », non è altro, in fondo, che una contestazione c una condanna dei criteri che guidarono le precedenti 36 Biennali, quanto mai tempestiva e polemicamente attualo appare la splendida mostra di 100 opere del pittore Gino Rossi (Venezia 1884, Treviso 1947), che Luigi Menegazzi ha riuniti nelle sale della quattrocentesca Ca' da Noal a Treviso, la città dove il grande artista, ricoverato nell'ospedale psichiatrico, morì dopo vent'anni di progressiva demenza. Però era nel pieno delle facoltà mentali quando, nel 1912, scriveva a Nino Barbantini, uno dei più geniali ed animosi uomini che abbiano agito a Venezia per esaltarne i valori artistici antichi e moderni: « Venezia non è ambiente per noi: c'è troppo marcio. Gioca/i un po' da tutti, non intendiamo sprecare inutilmente le nostre energie ». E poco dopo: « il numero di coloro che ritengono insopportabile lo stalo attuale di cose aumenterà sempre. L'ideale sarebbe di coordinare lutto il movimento giovanile italiano, di raccogliere tante belle forze disperse, tante energie che noi ignoriamo ancora ». In che cosa consisteva quel « marcio »? Nell'esclusione, o comunque nell'avara limitazione da parte degli organizzatori delle Biennali, di quel « movimento giovanile italiano » a totale beneficio dei pittori tradizionalisti, si chiamassero Tito o Fragiacomo, Milesi o Beppe ed Emma Ciardi; e tra gli stranieri Anglada o von Stuck, Zu- mlgRp«sPr'ptzOnnzaiMfVrnsnsgdI , loaga o Zorn. Nell'appagamen-1 to del pubblico « borghese » j veneziano ammiratore dei loro | quadri come delle sculture dei | Trentacoste e dei Canonica Nell'aria stagnante che pesava sui Giardini mentre in Italia esplodeva la rivoluzione futurista e di là dalle Alpi si moltiplicavano le correnti innovatrici, dalla Die Briickc al Cavaliere Azzurro, dai Fauves ai Cubisti. * * L'accusa d'un « insopportabile stato attuale » non era interamente giustificata perché le Biennali organizzate dal segretario generale Antonio Fradeletto svolgevano azione informativa tutt'altro che trascurabile in un pubblico vastissimo (proprio in quel 1912 i visitatori furono 431.742). Ma bisogna tener conto dell'amarezza, talvolta della disperazione per tragiche condizioni economiche (« Anche dieci lire hanno un valore, anche cinque, e non mi offendo di niente quando è dato da te o per mezzo tuo », avrebbe scritto tre anni dopo dal suo eremo del Montello Gino Rossi a Barbantini pregandolo di tentar di vendere qualche dipinto affidatogli) dei giovani rifiutati dall'esposizione ufficiale veneziana; perciò, vedendo nel 1920 compromesse anche le mostre di Ca' Pesaro, di essi unica salvezza, rincarava la dose: « Venezia mi fa schifo! ed 10 invece ho bisogno di star lontano dal fango... A Venezia forse non esporrò mai più. Avrò perso un anno. Ma io non ho bisogno di far "carriera" come dicono a Venezia, l'importante è lavorare ». Un anno; e gliene rimanevano per 11 lavoro pochi: prima che il male oscuro che aveva attanagliato la sua psiche forse fin dal giorno che la moglie l'aveva abbandonato, lo confinasse tra i fantasmi del manicomio. Ma dal 1910, l'anno dell'incontro con Barbantini tramite i due quadri inviati alla mostra di Ca' Pesaro e finalmente accettati, Il mulo, « una pittura che non concede niente al piacere di chi l'osserva — ha scritto ora Mencgazzi —... espressione di una vitalità e di una pena urgenti ma soffocate dalla disperata impossibilità di comunicare », e la famosa Fanciulla del fiore, vera e propria squisita «icorik» moderna sospesa a un arco di gusto gettato tra Bisanzio e il Pont-Aven di Gauguin (entrambi i quadri li abbiamo rivisti, affascinanti, qui a Treviso); da quell'avvìo di un'amicizia impareggiabile, testimoniata dal fittissimo scambio epistolare, col nuovo direttore della Galleria veneziana d'arte moderna e organizzatore delle mostre di Ca' Pesaro in giovanile polemica con l'« ufficialità » delle Biennali; anche per Gino Rossi fu un decennio di accanito lavoro, di supreme ambizioni in lotta con la nera miseria, e, vorremmo dire, di disperate speranze: compagni suoi Boccioni, Arturo Martini. Ugo Valeri, Moggioli, Se- meghini, Garbati, Felice ('asolati, e gli altri pittori del gruppo di Burano. Con Gino Rossi a Ca' Pesaro — avrebbe poi ricordato Barbantini — «era arrivala final mente la staffetta della gioventù ». * ★ Sui primi espositori di Ca' Pesaro, rievocati da Guido Pcrocco nell'esaustiva mostra del '58 a Venezia nella Sala Napoleonica, esiste un'ampia letteratura critica che va dal prezioso libro del Perocco si esso, Origini dell'arte moderna a Venezia, 1908-1920 (Editrice Canova, Treviso, 1972, su licenza della Bolaffi, Torino) a Gli artisti di Ca' Pesaro, di Carlo iMunari (Arti Grafiche Manf ri ni, Rovereto-Bolzano, 1967). Vi si devono adesso aggiungere la monografia-catalogo, Gino Rossi, redatta per la mostra di Treviso da Luigi Mcnegazzi (Electa Editrice, Milano, 1974), e due interessantissimi volumi usciti in questi giorni: Colloqui con Gino Rossi (Canova, Treviso), calda, appassionata biografia di I Giuseppe Mazzoni, il meraviglioso « Bepi » per il quale non esiste segreto nei fasti trevigiani; e la raccolta di Lettere di Gino Rossi, a cura di Luigina Rossi Bortolatto (Neri Pozza Editore, Vicenza), che sono, presentate da Giuseppe Marchiori, infaticabile studioso dell'arte moderna veneziana, il contrappunto umano dell'ideale artistico dello sventurato pittore; del quale ancor nel 1933 gli amici non riuscirono a vendere al Casinò di San Remo per 1200 lire un capolavoro come la Testa di ragazza bretone esposta nella mostra di Treviso allestita con la speranza di dare un confor, to al povero demente, e che zs1 soitanto jn questo dopoguer j ra ha preso ji posto che gi; | compete tra j massjnlj maestri | della pittura postra mocjerria Ora dovremmo parlare con adeguato impegno critico della magnifica retrospettiva di Ca' da Moal; ma è ciò che lo spazio concessoci non ci permette di fare. Il lettore s'accontenti dunque d'una sintesi. Sappia che Gino Rossi nel 1907, a ventitré anni, con Ar-| turo Martini già era a Parigi. Qui l'allievo degli scolopi del collegio di Badia Fiesolana e poi dei professori del ginnasio-liceo Foscarini di Venezia (null'altro si sa della sua adolescenza) elegge a scuole il Louvre, il Museo Guimet, il Museo di Cluny, riempie interi quaderni copiando e interpretando pitture e sculture, ceramiche e smalti: di qui il senso di eccezionale consistenza strutturale della sua pittura. Non Io interessano gli Impressionisti: dirà un giorno, nel^ '21, dopo aver meditato sull'esempio di Cczanne nei successivi ritorni a Parigi (« Andare piìi innanzi - ma dipingere come prima di Cézanne è impossibile »): «Non si\ j! costruisce col colore, si cosimi sce con la forma »; lo attirano |piuttosto l'eleganza lineare di jMatisse, il dramma umano e |!stilistico di Van Gogh. Comunque non si capisce l'arte di Gino Rossi escludendo la tappa in Bretagna sulle orme di Gauguin. Sono le direttive eccelse su cui egli lavora. Meno d'un quindicennio di attività tormentosa che ascolta anche, e poi rifiuta, la sirena cubista. Disilluso di tutto nel 1922 scrive: « Ilo finito di essere Gino Rossi » Quattro anni dopo, la demenza. Marziano Bernardi II