I troppi debiti danesi di Sandro Viola

I troppi debiti danesi S'È APPANNATO IL MODELLO SCANDINAVO I troppi debiti danesi E' la disinvoltura con cui tiene i conti interni ed esterni a distinguere la Danimarca dagli altri Stati dell'Europa del Nord - La crisi economica dell'Occidente ha trovato una società impreparata, fragile e incerta ( Dal nostro inviato speciale ) Copenaghen, ottobre. Succede di lare un po' di confusione, a volte, sui Paesi scandinavi. Di credere per esempio che lo « smorgasbord » (il sandwich « tipetto ». se così si può dire: e cioè una fetta di pane con sopra il companatico, aringa, o carne fredda, o pasticcio di fegato) sia una specialità danese, mentre si tratta d'un uso svedese poi adottato nel resto della Scandinavia. Altro errore comune è credere che norvegesi, danesi e svedesi passino una buona parte del lo¬ ro tempo libero facendo la sauna, ciò che è invece tipico dei finlandesi. Così pure, c'è la tendenza a pensare che tutte le donne scandinave siano molto belle: la verità è che le finlandesi lo sono solo in parte, e le norvegesi addirittura di rado. L'origine di queste confusioni e" evidente: i Paesi scandinavi, tra i gitali usiamo comprendere la Danimarca, posseggono un certo numero di tratti comuni, ed è indubbio (specie se li si guardi con gli occhi degli « europei del Sud ») che si somigliano tra loro. Gover- : ni. o quanto meno tradizio! ni di governo, usciti dal I grande filone socialdemocra\ lieo, sindacati potenti ma ' «moderali», ammirevoli rea' lizzazioni sociali, alti tenori I di vita e altissima frequeni za di suicidi. | Nell'insieme un mondo sei reno (a parte i suicidi), tol ! I lerante e benissimo organiz- i zato, la cui « pace sociale » (sinché è durata, ora ci sono gli scioperi selvaggi e vasti settori della classe operaia si sono avvicinati ai partiti comunisti) faceva gridare al miracolo i politologi « centristi » del decen- ! nio scorso, convinti di tro- 1 I varsì dinanzi al « solo socialismo possibile ». Come staccare la Danimarca da questo sfondo indistinto, in che modo se ne può cogliere — dietro la ragnatela dei connotati comuni alle isole e penisole situate tra il Baltico e il Ma- i re dfl N°rdr ~ l'immagine peculiare? La cosa non e difficilissima: basta tenere a mente lo stato delle sue finanze, l'andazzo un po' troppo spregiudicato (« libanese », come dice un economista tedesco) con cui i danesi tengono i loro conti, interni ed esteri. Ecco: la Danimarca è il più indebitato dei Paesi nordici, anzi — fatto il conto per teste d'abitanti — di tutta l'Europa occidentale. E' ad essa che sono rivolti, sin dai primi Anni Sessanta, i richiami più severi degli organismi economici internazionali (l'Ocde soprattutto, che solo vari anni più tardi avrebbe cominciato a preoccuparsi anche della situazione italiana), l'avvertimento a smettere di contrarre debiti, l'invito ad imboccare la via del risparmio. Richiami rimasti sempre inascoltati, tant'è vero che le cose sono andate peggiorando, ogni anno nuovi debiti, meno risparmi e costi più alti, al punto che solo un ristretto numero di industrie danesi è oggi competitivo nell'ambito della Comunità europea. Già allarmante all'inizio del « fatale '73 » (l'anno dell'embargo petrolifero e dei due aumenti del greggio, il cui prezzo sarebbe risultato a Natale quasi quattro volte quel che era nel gennaio), la situazione danese ha subito un veloce deterioramento con il profilarsi della crisi economica dell'Occidente. Come in tutti i Paesi dove lo spreco era divenuto « una abitudine privata e un sistema politico », il vertiginoso rincaro delle fonti di energia e delle materie prime ha portato in Danimarca un colpo durissimo alle strutture e ai comportamenti economici: e la conseguenza più clamorosa è stata l'offuscarsi, l'indebolimento di quelle caratteristiche di stabilità politica, di consenso sociale e di « sereno umanesimo » che avevano contraddistinto in passato il « modello danese ». Certo, la tempesta economica non s'è abbattuta sulla sola Danimarca, le difficoltà sono oggi generali. Ma con una differenza: in Francia, in Italia, in Inghilterra il « fatale 73 » è sopraggiunto all'interno di società che già s'interrogavano ansiose sui propri assetti, dove il dibattito politico toccava regolarmente i toni più aspri, non consentendo a nessuno l'illusione di vivere nella migliore delle società possibili. Diverso era il clima danese, dove classe dirigente e cittadini vivevano una sorta di euforia vittoriana, la convinzione cioè d'aver realizzato un meccanismo sociale pressoché perfetto. Non era così, e lo si vede adesso. La prospettiva di trovarsi a fine dicembre con 100.000 disoccupati (ciò che equivarrebbe in Italia, fatte le proporzioni, a 1.100.000 senza lavoro), l'aumento dei debiti con l'estero, lo squilibrio della bilancia dei pagamenti, l'inflazione (quasi il 16 per cento), l'ombra che ormai grava sulla credibilità finanziaria della Banca di Danimarca, compongono lo sfondo greve e oscuro (« drammatico », se si volesse usare il linguaggio dei giornalisti stranieri che analizzano le cose italiane) d'un Paese da tempo abituato al pieno impiego, all'idillio sociale e all'abbondanza. Da qui l'ingovernabilità (il più minoritario dei governi conosciuti), l'ondata qualunquista che soffia sulle istituzioni, la spinta irrazionale che fa scendere in strada 50 mila persone (com'è accaduto all'inizio d'ottobre) a manifestare contro la Comunità europea, un fiume di gente ormai certa d'aver trovato la soluzione di tutti i guai danesi nel voltafaccia all'Europa. . La sensazione, insomma, è che questi « sistemi » che sembravano più stabili stiano affrontando il primo anno della « grande crisi » in condizioni di maggiore fragilità, in una confusione di indirizzi, diagnosi, linguaggio quale non esiste neppure in Italia, la nazione che qui si cita come « la più malata » e ormai coi piedi puntati sull'ultima spiaggia. Uno degli aspetti più clamorosi è che il cardine stesso di tutti i Welfare States, e quindi anche dello « Stato sociale » alla danese, vale a dire il sindacato, ha a questo punto perso buona parte della sua saldezza. Come ci dice, senza affatto esagerare, Ib Norlund, segretario del partito comunista, « la linea riformista delle confederazioni sindacali è in piena crisi, e i lavoratori si rendono conto in modo sempre più chiaro che il moderatismo non paga più ». Alla Lo, la maggiore delle confederazioni sindacali, il giudizio di Norlund non viene negato, e solo si cerca di ridimensionarlo: « E' vero: un'ascesa dei comunisti nei sindacati esiste, e molti scioperi vengono ora organizzati senza consultare il nostro direttivo. Ma siamo noi i primi a capire che la linea tradizionale, moderata, non è più sufficiente e che bisogna rivitalizzarla con nuovi obbiettivi e metodi di lotta ». Come si vede, molte cose sono cambiate da quando Emmanuel Mounier rimirava stupefatto queste « società senza conflitti », interrogandosi sull'eventualità che da tanto benessere potesse scaturire — unico incidente possibile — qualche « maladie du bonheur ». Ormai il « colore » scandinavo lascia il posto ai problemi aspri e concreti di tutti. Il centro di Copenaghen aveva visto per anni due soli tipi di manifestazione: qualche protesta di cittadini benpensanti dinanzi ai porno-shops, e le sfilate delle « calze rosse », come si chiamano le femministe danesi, impegnate come dappertutto in uno di questi noiosi « koensrolldebat », il dibattito sul ruolo rispettivo dei sessi. Oggi si può giungere alla soglia dei moti di piazza (come a maggio quando il governo aumentò le tasse al consumo), e tutti sono convinti che se ci saranno le elezioni anticipate il loro svolgimento sarà assai diverso che in passato, e forse porrà problemi d'ordine pubblico che la polizia danese non aveva mai dovuto affrontare. E' da qui, ci sembra, dal ribaltamento di queste situazioni « tranquille » (e non dalle vicende dei sistemi politici «imperfetti» come quello, per fare un esempio, italiano/, che vengono i moniti più seri sulle conseguenze che potrebbe avere in Occidente il prolungarsi della « grande crisi » economica. Sandro Viola

Persone citate: Emmanuel Mounier