Come l'opera buffa di Furio Colombo

Come l'opera buffa Giudizi americani sulla crisi italiana Come l'opera buffa Anche ai più attenti, la nostra politica sembra una recita indecifrabile in un pianeta misterioso - Li confonde il continuo distacco tra le parole pubbliche e la vita Ci deve essere un lato comico nella vita italiana. L'ultimo numero di Newsweek usa la parola « commedia » (« comedy ») nel titolo e nel testo dedicato alla nostra crisi politica. Nella lingua italiana « commedia » è una messa in scena. Nell'uso inglese significa che fa ridere. Sono andato a riguardarmi i ritagli di Times e Newsweek degli ultimi anni. Otto volte su dieci un titolo dedicato all'Italia contiene la parola «comedy», oppure «opera». E più spesso « opera buffa » che in inglese si dice come in italiano e significa la stessa cosa perché deriva dal tempo in cui la cultura italiana imponeva generi, definizioni e parole. Mi domando perché trovo la cesa tanto irritante. Sappiamo tutti che il nostro momento è talmente difficile da essere qualche volta indecifrabile e qualche volta tristemente comico. La faccenda delle tremila manette in dotazione alle guardie forestali se non è vera è da depositare subito alla Società Autori per farne un copioncino. Nel cinema siamo stati noi a creare un genere che è fatuo solo in apparenza, detto « commedia all'italiana ». Si tratta appunto di quelle situazioni della nostra vita e del nostro costume che sono ridicole e grottesche ma non tanto lontane dalla realtà. Perché allora appare irritante che lo facciano i colleghi della stampa straniera, e specialmente dei giornali e della televisione americana? La rinuncia Eppure vengono' a visitarci sempre più spesso. A mano a mano che sale la febbre di crisi, le sue crepe, le sue paure, i suoi incubi, sale anche il numero e il livello degli inviati che arrivano per capire. In luglio era comparso all'improvviso Walter Cronkite, il più noto commentatore di una delle tre grandi reti americane (la CBS) e lo si è visto aggirarsi fra le vetrine splendenti di via Condotti in cerca di un segnale. Lui fa televisione, avrebbe avuto bisogno di un fondale adatto a un servizio sulla crisi italiana. E' possibile che sapesse qualcosa di ciò che noi sappiamo adesso, dopo che Andreotti ha consegnato il famoso dossier ai giudici. Ma se n'è andato perplesso, rinunciando al servizio, confessando: « Non saprei da che parte prendere il vostro problema ». Un po' più avanti, nel cuore dell'estate, il serio e scrupoloso corrispondente del Manchester Guardian, che segue da anni la situazione italiana ed è giustamente considerato un esperto, si è visto costretto a organizzare una specie di « cena della crisi ». Erano talmente tanti i colleghi, i capi servizio esteri, i redattori capi venuti in Italia in cerca di notizie che la soluzione migliore era sembrala quella di invitarli tutti insieme, di parlare con tutti. Scena: una terrazza romana di Trastevere. E' sera. Da tutte le finestre aperte si sente una voce che sembra scandire notizie, si vede la luce grigia e bianca dei televisori accesi. Stranamente in questa zona di Roma adatta a soddisfare le brame di colore di ogni turista, c'è un perfetto silenzio. E' il silenzio del tipo « questa calma non mi piace » dei film d'avventure. I corrispondenti, con il piatto di riso al curry, si guardano con disagio. All'improvviso dalle finestre vicine, da tutto il quartiere, da ogni angolo di Roma, come in un gigantesco effetto stereofonico, si sente un urlo, come se una folla di dimensioni indiane si fosse svegliata. Tutti posano i bicchieri e corrono sulla parte alta della terrazza. Eppure le strade sono deserte. « Abbiamo segnato » avverte il cameriere. E spiega che, però, se continua così non vinceremo la coppa. «Valcareggi, è colpa di Valcareggi ». Qualcuno, fra i nuovi arrivati annota quel nome, facendosi dire bene come si scrive, nel caso che sia nella lista del potere, domani. Domani, quando vorrebbero passare alla parte seria del loro discorso, e trovare immagini vere, cercheranno inutilmente contatti con personalità note e ignote, ministri e managers. « Sta in riunione » rispondono dagli uffici. Oppure, dopo due o tre « clic » del centralino, cade la linea. Tornano in albergo e cominciano a dettare il pezzo. Comincia quasi sempre così: « Sembrava un'opera buffa... ». Come se non bastasse, il corrispondente corre il rischio che il suo pezzo non venga mai pubblicato. « Non si capiva niente », gli urla il capo da un suo ufficio remoto. «Vedi se trovi un po' di colore. E' ancora in giro Sophia Loren? ». Gli ultimi a scendere nel misterioso pianeta Italia sono stati Mike Wallace (CBS), Edward Behr (Newsweek) e Marvin Stone (U. S. News and World Report, un importante settimanale economico). Seduto sul bracciolo della poltrona di Gore Vidal, l'intervistatore della CBS continuava a chiedere al celebre scrittore americano che abita in via di Torre Argentina a Roma: « Ma si può sapere perché continui a vivere in questo Paese? Non ti pare una gabbia di matti? ». Non so ancora che cosa scriverà Marvin Stone, e ho detto all'inizio che anche Behr, che pure ha ottenuto una intervista-scoop con Amendola, è caduto nella trappola della « commedia ». Ma mi sembra interessante la risposta di Gore Vidal. « Ho vissuto in Italia — dice Vidal — abbastanza per sapere che questo non è un Paese comico. E' un Paese che si è abituato a nascondere i suoi guai. Un po' lo fa per dignità e per pudore. Un po' per una antica paura. Tu chiedi a un americano: come va? E lui con un sorriso smagliante risponde: benissimo! E più enfasi ci mette più il suo prestigio aumenta. Un italiano nove volte su dieci dirà: si campicchia, da poveri vecchi, tiriamo avanti. Ha paura, non si fida. E poi cerca in una battuta la via d'uscita, per non confrontarsi con la verità. E' una antica paura. Io voglio vedere il momento in cui questa paura si sfalda e tutti cominciano a dirsi a vicenda le cose come stanno, né più né meno ». « E quando è cominciata questa commedia del discorso camuffato? » domanda Mike Wallace. Anche a lui è più congeniale l'immagine teatrale di quella sociologica. Vecchi mali « Io direi con la Controriforma ». E Gore Vidal spiega: « La Controriforma, cioè l'enorme schieramento di propaganda con cui la Chiesa ha cercato di difendersi dalla sfida dei protestanti, ha sostituito al ragionamento la predica. Nessuno crede alla predica ma bisogna farla e bisogna ascoltarla. Col tempo la predica è diventata informazione, giornalismo, comunicato di fonte autorevole, dichiarazione di ufficio stampa, discorso inaugurale, affermazione politica. Ora la predica non è una cosa buffa, anzi è noio¬ sa. Ma bisogna che ci sia fede. Se manca la fede può diventare di una comicità incredibile. Gli italiani mi piacciono perché non hanno la fede, e in questo sono più moderni che in altri Paesi. Ma la loro immagine è deformata perché chi li deve rappresentare continua a fare la predica. E questo dà al P.'.c.e un'aria antica e usata. Io abito nella prima Italia, in attesa che contagi anche la seconda ». Almeno uno dei tanti corrispondenti calati in Italia, Mike Wallace, se n'è andato con una spiegazione. Col tempo gli riuscirà forse di decifrare il mistero di un Paese che oscilla, nella sua immagine pubblica, fra Al Capone e Caruso, oppure fra Mastroianni e Sindona, fra la classe dei nostri prodotti industriali e i discorsi di Gabrio Lombardi. Avrà capito e potrà spiegare ad altri americani che il fascismo nasce nella parte peggiore dell'Italia « usata », e che di vero, nel fascismo, ci sono solo i morti. Il resto è cartone. Col cartone e coi morti si fa un tetro sultanato medio-orientale, tragico per chi lo vive, spaventosamente dannoso per chi ha la disgrazia di trovarselo « amico ». Ma esiste anche il sultanato bonario, senza morti, cupo, bigotto e ateo. Mette un tale imbarazzo che si finisce per riderne. E il rapporto fra noi e gli altri Paesi (i Paesi dove circola una libera opinione, naturalmente) è come l'immagine di un canocchiale rovesciato. Da una parte noi vediamo gli altri chiari, ingranditi, ravvicinati da una rete di informazione che nei momenti di crisi si dilata, fino a occupare tutta la scena. Dall'altra l'Italia si vede rimpicciolita e confusa dalle sue reticenze, dai suoi silenzi, dai suoi comunicati sibillini, da una vita « in chiave » che solo alcuni, fra .gli addetti ai lavori, capiscono. Il male è contagioso e ciascuno diventa reticente. Visti da fuori sembriamo divisi in « clienti » e « ribelli ». Questo è vero soprattutto nei rapporti con l'America. Sembra che sia difficile essere amici leali, rispettosi e rispettati. Gente che detesta il sistema della libertà americana si arruola come si arruolano i capi tribù di un protettorato, sperando che un po' di venerazione porti il diritto ad avere mano libera dentro casa. Gente che ne ha fatto il proprio riferimento culturale profondo prova imbarazzo a dirlo. Eppure un Paese come il nostro, dove il novanta per cento della gente va a votare con convinzione e passione, e riesce a tenere la testa a posto anche in mezzo alla provocazione ignobile delle bombe, non è certo un Paese di retroguardia nella parte libera del mondo. Chi ci guarda da lontano e da fuori, dopo avere superato la barriera del luogo comune, può anche capire che i comunisti non stanno per divorarci. Ma non riesce a capire perché ci vergogniamo di dire che non siamo sul punto di innalzare le barricate o le forche, e lasciamo continuamente circolare, specialmente verso il visitatore straniero, tenebrose allusioni. Questi visitatori possono anche capire che non stiamo recitando un'opera buffa. Ma è naturale che si aspettino un « libretto » diverso, scritto in chiaro e in prosa, dove si smette di parlare nel vuoto, come in una predica o in una bella cantata, e invece di interpretare alternativamente la farsa e l'apocalisse, s: dicono le cose che servono, volta per volta. Chi ha bisogno in un momento difficile di una solidarietà rispettosa deve assolutamente riuscire a presentare con dignità il proprio caso. E perché si veda quanto è diffusa questa dignità nel nostro Paese, bisogna togliere di mezzo il paravento usato e spelato del Paese dell'opera buffa. Furio Colombo