Dimenticato il "Tango,, scopre l'epopea contadina

Dimenticato il "Tango,, scopre l'epopea contadina Intervista con Bertolucci sul film "Novecento,, Dimenticato il "Tango,, scopre l'epopea contadina (Dal nostro inviato speciale) Parma, ottobre. Sull'aia dorata di sole, tra fasci di grano e contadini al lavoro, nel frastuono fumoso e fischiante della trebbiatrice, il figlio soldato avanza lento. Torna dalia guerra con la sua divisa sciupata, con i suoi corti capelli biondi e occhi celesti, con la sua onesta faccia d'eroe positivo. La vecchia madre gli corre incontro, lo tocca con gesti esultanti e timidi, lo guarda con occhi pudichi e innamorati, piange mentre un abbraccio li riunisce: finalmente. Tutto come in un manifesto sovietico, o in un film di Dovzenko? « Come in un film popolare », dice Bernardo Bertolucci. « Dopo tanto Brecht maldigerito e tanto monologare parlandosi addosso, ho capito che la base del rapporto tra spettatore e film è l'emozione, il sentimento. Limitandosi alla razionalità si taglia fuori una fetta di gente troppo grossa: e poi, chi ha detto che la ragione sia più morale dell'emozione? ». Nell'autunno della crisi, il regista di Ultimo tango a Parigi dirige nella campagna padana il film più ricco che sia mai stato girato in Italia, Novecento. Costerà oltre 4 miliardi, forniti dagli americani. Durerà 4 ore, quaranta minuti più di Via col vento o del Dottor Zivago. Lo realizza una troupe di 90 persone, lo interpretano decine di attori internazionali. Robert De Niro e Gerard Depardieu, agrario e contadino dalle vite diverse e parallele, rappresentano la virile coppia di protagonisti che caratterizza la moda cinematografica. Burt Lancaster e Sterling Hayden ne formano un'altra più anziana, destinata a scomparire presto: il patriarca della famiglia ricca s'impicca, il patriarca della famiglia povera muore di felicità nel veder lavorare i padroni, costretti alla fatica dei campi dallo sciopero bracciantile. Stefania Sandrelli e Dominique Sanda ricompongono l'elegante coppia brunabionda de II conformista. Donald Sutherland e Laura Betti compongono un'atroce coppia macbethiana di amanti fascisti. Poco sesso, molta violenza, il tema centrale di Novecento è, dice l'autore trentaquattrenne, « la fine della figura del padrone in questo secolo, il superamento della dialettica padrone-contadino ». L'intenzione è quella di raccontare la Storia: «Non la storia in cornice, che non è interessante: il passato visto alla luce del presente, il passato come strumento di analisi del presente». La vicenda si svolge dall'inizio del secolo a domani, attraverso le prime lotte contadine, la prima guerra mondiale, le battaglie socialiste, il cupo avvento sanguinoso del fascismo, la seconda guerra. Sino al 25 aprile delle speranze di riscatto: quando i contadini occupano la villa padronale e se ne dividono le ricchezze; le donne misurano a gran passi nei prati i confini immaginari di immaginari piccoli poderi finalmente loro; il padrone subisce un pubblico processo popolare, ì fascisti vengono puniti, un ballo sull'aia scandisce al ritmo di velocissime mazurke la felicità della vittoria; ma a sera arriva il rappresentante del comitato di liberazione nazionale, « compagni, la sbronza è finita! », e il giorno declina nell'accorato sfilare dei partigiani che consegnano le armi. Il film termina invece nel futuro: « con un epilogo morale che non ho voglia di raccontare ». Allora, il primo kolossal sulla nostra storia? Un grande affresco della lotta di classe, un politico Via col vento all'italiana? « Dopo Ultimo tango a Parigi » spiega Bertolucci, « ho sentito nostalgia di un film politico e di analisi, come dire?, scientifico-poetica. Fuorviato dalle idee di Pasolini sulla fine della cultura popolare e della civiltà contadina cancellate dal consumismo, pensavo di venire in Emilia a descrivere la campagna come un grande cimitero. Ho scoperto qui che i contadini emiliani hanno salvato, attraverso la politica, cioè il marxismo, tutti gli elementi originari della loro cultura: invece di un rito funebre, ne uscirà una testimonianza di vitalità. Un film popolare ». E cosa vuol dire, film popolare? « L'ambizione sarebbe realizzare un'opera nazional-popolare. Secondo l'insegnamento di Gramsci, seguendo l'esempio del cinema russo degli Anni Venti di Eisenstein, Pudovkin e Dovzenko, o del grande cinema americano degli Anni Trenta-Quaranta di Ford, Hawks e Lubitsch ». Non c'è pericolo che questo compromesso filmico sovietico-americano si trasformi più semplicemente in un polpettone storico? « I rischi si corrono. Si evitano, spe¬ ro. Alimentando le due tensioni, politica e poetica ». La sua corale epopea di campagna è racchiusa in una giornata, appunto il 25 aprile 1945, «festa dell'utopia, giorno in cui tutto è possibile, data che condensa tutti i precedenti umani, politici e psicologici del secolo, che contiene tutto il futuro ». Il passato, rievocato in flash-back, ha l'andamento delle stagioni: la piena estate dell'infanzia e dell'adolescenza, l'autunno-inverno della maturità e del fascismo, la primavera della liberazione. Nel fluire delle stagioni scorrono lirismi e crudeltà, luoghi comuni e bellezze dell'Emilia agreste: il culto di Verdi e l'apparizione delle prime macchine agricole, cavalli chiamati Bakunin e bambine chiamate Osiride o Iside, feste contadine incendiate dai falò e balli sull'aia, l'epica dell'irrigazione e delle migrazioni nebbiose di San Martino, il brutale mattatoio dei maiali d'inverno e l'insaziabilità vorace dei bachi da seta, la fame dei poveri saziata con la polenta insaporita d'aringa, certi personaggi obbligati del repertorio rurale quali la pazza, lo scemo del paese, il gobbo detto Rigoletto, i pagliacci del folclore rusticano, il sentenzioso « vagabondo dallo sguardo ironico». «Per il figlio del padrone », dice il regista emiliano, « la realtà contadina è una dolce estensione letteraria di Virgilio, mentre per il suo antagonista figlio di contadini è dramma quotidiano. Nel film esiste una dialettica tra le due visioni, che finiscono tuttavia con l'unificarsi: i due personaggi sono speculari ». L'eleganza cittadina, la sofisticazione stravagante, i tic mondani e culturali d'epoca sono invece affidati al personaggio interpretato da Dominique Sanda, «bella, sottile e leggera come un verso di Apollinaire »; una ricca nevrotica che dice di se stessa « sono una mammifera di lusso », che scrive poesie futuriste (« brum brum / bram braam / voraaar / prima seconda e terza, udite / le marce più ardite... la quarta mi è antipatica / vecchia grigia e burocratica»), che finirà alcoolizzata. I torbidi viluppi e gli sfrenamenti viziosi del sesso sono impersonati da Laura Betti, Regina. E' lei, insieme all'amante Attila, a vivere la scena più or¬ rischiata descritta dal copione del film, nella quale alle strette affannate e furiose della coppia viene mescolato, spogliato e sodomizzato, un bambino. Ma, molto più del sesso, in Novecento è presente la violenza, fantasma pauroso e incubo reale del secolo, strumento del fascismo. Se, in ge¬ sto di sfida, un bracciante si taglia l'orecchio sinistro col falcetto e lo depone nella mano del padrone, i fascisti danno alle fiamme la Casa del popolo bruciando vivi quattro vecchi, devastano case, si addestrano nei loro giochi crudeli e cretini: sollevare un tavolo coi denti, uccidere gatti spiaccicandoli a colpi di testa dopo averli legati a un albero. Il fascista emblematico del film, Attila, ammazza un bambino spaccandogli il capo contro il muro, infilza una vedova sulle lance d'una cancellata. Spalleggiato dai suoi compagni, impone ai contadini socialisti il giogo dei buoi, li massacra di botte: uno lo strozzano sino a fargli esplodere la faccia e la bocca vomitante sangue, un altro lo impalano con un bastone rovente, a un altro ancora schiacciano il viso con una pietra. Subiranno la vendetta popolare il 25 aprile. Attila e Regina, la coppia fascista sorpresa mentre tenta di fuggire con la bicicletta carica di valigie, viene fermata, malmenata, sfigurata, trafitta con i forconi, lapidata di escrementi, legata sul dorso d'una vacca, rinchiusa in un porcile tra i rifiuti e il lezzo di maiali aggressivi. «Mostrare partigiani e contadini al di fuori dell'oleografia edificante è veramente emozionante », dice Bertolucci. L'impresa Novecento, per molti versi rischiosa, vasta, prolungata in sei mesi di lavorazione, faticosa nella guida di centinaia di inesperte comparse emiliane e decine di attori bizzosi, non spaventa il regista, che la considera « un piccolo film, ma lunghissimo ». Berretto a quadri in testa e mirino all'occhio, Bernardo Bertolucci dirige le grandi scene di massa con la stessa sicurezza disinvolta con cui David Lean passò dagli intimismi di Breve incontro all'epica macchinosa del Ponte sul fiume Kwai o di Lawrence d'Arabia: « Altri miei film erano forzati in una direzione o nell'altra, verso la psicoanalisi o il surrealismo. In questo, mi sembra di avvertire una grande naturalezza ». Di Ultimo tango, il film che gli ha procurato celebrità internazionale, condanne giudiziarie, polemiche astiose, insulti e il titolo di « young cinematic genius », gli importa ormai poco: « Oggi rappresenta per me soltanto la gioia di poter fare Novecento: non so sé, senza quel successo, sarei riuscito a coinvolgere in questa avventura le tre più importanti compagnie cinematografiche americane ». L'erotismo al cinema, poi, l'ha stancato: « Mi sembra polveroso, morto, sorpassato », rinnega, « mi irrita, mi dà fastidio ». Lietta Tornabuoni li regista Bernardo Bertolucci (Foto Uliano Lucas)

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