Sanno chi uccise i missini i brigatisti rossi arrestati?

Sanno chi uccise i missini i brigatisti rossi arrestati? Le indagini collegano la base di Robbiano con Padova Sanno chi uccise i missini i brigatisti rossi arrestati? Pietro Bassi, considerato uno dei "cervelli" dell'organizzazione, sostiene di essere estraneo alle Brigate Vertice in procura a Torino con il giudice che indaga sul duplice omicidio nella sede del msi di Padova A Piacenza in un "covo., un nastro con la voce di Sossi Indizi, per il momento lievi, legherebbero i brigatisti rossi catturati a Robbiano di Mediglia con la cellula che il 17 giugno fece irruzione nella sede del msi di Padova. Due uomini, Giuseppe Mazzola, ex appuntato dei carabinieri, e Graziano Giralucci, rappresentante di commercio, vennero freddati a colpi di pistola. Un «nucleo armato» delle Brigate rosse si attribuì con un comunicato la responsabilità dell'impresa, tentando di dare un movente politico al delitto, compiuto con freddo cinismo. Il «nucleo armato» non sembrava avere collegamenti con le altre «colonne»: a lungo gli inquirenti sospettarono trattarsi di un gruppo autonomo che aveva assunto la denominazione di comodo. Oltre alle poche copie del volantino, distribuito a Milano e nel Veneto, non vi erano altri indizi. Furono fatti studi particolari sul testo e sull'impaginazione; sembrò autentico e, d'altra parte, non vi sono state smentite. Ora, nell'« enorme quantità di materiale interessante» trovato nel covo di Robbiano, vi sarebbe una traccia che potrebbe portare al nome degli assassini. Qualcosa di più concreto che non i ritagli di giornale conservati con cura nel ricco archivio dei brigatisti. Parte del pomeriggio è stata spesa, alla procura della Repubblica, dai magistrati torinesi, dottor Caccia e dottor Caselli, e dal giudice istruttore di Padova, dottor Zen, per «fare il punto della situazione». Al vertice hanno partecipato anche i colonnelli dei carabinieri Franciosa, comandante del Nucleo speciale di polizia giudiziaria, e Recalbuto. La discussione è andata avanti ore, gli indizi, che uniscono il duplice omicidio alla «colonna» di Lodi (i Drigatisti arrestati), per il momento sono considerati «insufficienti», almeno per porre il problema sulle competenze territoriali del processo contro le attività delle Br. Dai documenti venuti in mano ai carabinieri e ora attentamente esaminati, gli inquirenti deducono che l'organizzazione non avrebbe architettato un preciso piano terroristico. In serata, dal carcere di Alba, è arrivato Pietro Bassi, detto Pierino, considerato un «cervello» dell'organizzazione sovversiva. Era stato il primo cadere nella trappola tesa dai carabinieri nell'appartamento al terzo piano di Robbiano di Médiglia. Infilata nella cintura aveva una pistola 7,65 col colpo in canna, ma di fronte ai mitra dei carabinieri non tentò reazioni. Media statura, spessi occhiali con montatura di tartaruga, volto da bambino, quasi glabro con una timida peluria sul labbro superiore, vestito con uno spezzato di velluto, giacca verde pantaloni marroni, è apparso teso. Nervosamente portava agli occhiali le mani serrate dai ferri. «Come intende difendersi? » gli ho chiesto. « Anche lei invocherà la convenzione di Ginevra?». Ha sorriso senza gioia: «In questo paese la convenzione di Ginevra non è riconosciuta». «Come considerate la vostra situazione, dopo Padova?». Ha sorriso ancora, più disteso: «Lei parte da un presupposto sbagliato: che io faccia parte di quell'organizzazione. Ma in quella casa potevo anche esserci capitato per errore, perché avevo sbagliato portone». Vincenzo Tessandori tratta di Margherita Cogol, nata a Padova 29 anni or sono e sposata al brigatista trentatreenne. Al momento dell'arresto, al Curcio erano state chieste notizie della moglie. Aveva risposto che non la vedeva da dieci anni. Sembra poco probabile che fosse vero, dato che la donna operava nella stessa organizzazione. Margherita Cogol a Piacenza si faceva passare per una professoressa torinese, dicendo di chiamarsi Gabriella Moroni. Era comparsa qui lo scorso anno, quando aveva acquistato l'appartamento di via Campagna 54 (due stanze più i servizi, al primo piano, su una via adiacente alla circonvallazione e ai raccordi autostradali). L'alloggio lo aveva comperato dagli eredi della precedente proprietaria, Eva Scapucciati ve¬ dpucrrlsdrpspzmvdnacdRpr dova Fantone, deceduta da poco. Asseriva di insegnare in una scuola più vicina a Piacenza che a Torino, per cui la residenza le serviva per ridurre la fatica di «pendolare dell'insegnamento». La sedicente «professoressa» si assentava spesso, per diversi giorni di seguito, ma rimaneva nell'alloggio anche per lunghi periodi. La misteriosa torinese era sicuramente a Piacenza fino a pochi giorni prima dell'irruzione dei carabinieri. La settimana scorsa, ad esempio, aveva pagato all'amministratore del palazzo le spese condominiali: 40 mila lire per le quali aveva ottenuto una ricevuta che è stata poi trovata a uno degli arrestati del covo di Robbiano di Mediglia. Quel pezzo di carta ha portato i carabinieri a Piacenza. Quando sono arrivati gli in¬ a o i l ¬ quirenti, nell'appartamento non c'era più nessuno. Erano rimaste però molte cose: abiti, parrucche, un ciclostile, un grosso schedario con elenchi e fotografie. Tra gli altri oggetti sono saltati fuori i nastri che sembrano diventare uno degli elementi più importanti di tutta l'inchiesta. I nastri sono ora nelle mani della procura di Torino, che coordina le indagini, per cui in proposito sono soltanto rife ribili le voci raccolte. Sono però insistenti le indicazioni secondo cui si tratterebbe della registrazione di interrogatori fatti dalle Brigate rosse al giudice Sossi. La voce del magistrato risulterebbe chiara e perfettamente riconoscibile, mentre risponde al suo inquisitore, la cui voce parrebbe quella del Franceschini. Roberto Ognibene, Pietro Bassi, Pietro Bertolazzi e Manuela Zaini, moglie del Bertolazzi inbd