Con le "streghe,, della crisi di Sandro Viola

Con le "streghe,, della crisi DANIMARCA: SI APPANNA IL MODELLO SCANDINAVO Con le "streghe,, della crisi L'inflazione, i razionalismo - debiti con l'estero, l'instabilità politica compromettono le conquiste del Welfare State e suscitano ventate d'irLa colpa di tutto viene addossata al Mec - Il secondo partito danese è oggi quello che invoca: basta con le tasse (Dal nostro inviato speciale) Copenaghen, ottobre. Se nel giornalismo italiano circolassero sentimenti di rivalsa, un'inchiesta sulla Danimarca — per esempio l'inchiesta che comincia con questo articolo — dovrebbe aprirsi con un grido d'allarme, con una serie di immagini più o meno drammatiche. E' così che fanno da qualche tempo ì giornalisti stranieri, danesi inclusi, che visitano l'Italia: e la loro è ormai una gara severa, un vigoroso rivaleggiare nella ricerca degli scorci più negativi, delle previsioni più apocalittiche, dei giudisi più pesanti sullo stato delle nostre cose. Certo, il panorama italiano si presta ad essere descritto in termini catastrofici. Ma anche negli altri Paesi dell'Occidente, in certi altri Paesi, i segni di decomposizione dei « sistemi » non sono né assenti né meno visibili e inquietanti. L'altra sera, a Copenaghen, 50.000 persone si sono ammassate dinanzi al Folketìng, il parlamento, tra il vecchio mercato del pesce e il monumento equestre a Federico VII, inscenando una impressionante manifestazione contro la permanenza della Danimarca nella Comunità europea. Cinquantamila persone qui sono tante, significano un danese su cento, quindi non sono un semplice « campione » da indagine sociologica, bensì una « massa ». E questa massa è restata lì sotto la pioggia, per oltre due ore, a scandire slogan contro l'Europa, convinta — proprio perché era percorsa da un impulso assurdo, da una ventata di irrazionalità — che tutti i guai danesi discendano dall'essersi messa, la Danimarca, in compagnia di gente che non dà alcun affidamento, come gli europei in genere e gli « europei del Sud » in particolare. No, evidentemente, questo tipo di disturbi psico-sociali non è tanto meno grave dei sintomi di sfaldamento che si colgono in un Paese come l'Italia. Così, visto che non si può scorrere un giornale straniero senza che vi si trovi un accenno allo « sfascio » (parola che nel testo figura spesso nell'originale italiano) del nostro Paese, l'argomento di questi articoli sulla Danimarca dovrebbe essere il « krak » (grafia locale dell'inglese « crack », spaccatura, collasso, bancarotta) di questa nazione tanto a lungo considerata un « modello » politicosociale. Parlare di « krak » non sarebbe d'altronde improprio, né esagerato: la Danimarca è oggi il Paese che — tenuto presente il numero degli abitanti — ha più debiti con l'estero di qualsiasi altro membro della Comunità europea. Comunque, anche a voler evitare espressioni e toni eccessivi (in modo da ribadire che il nostro giornalismo resta uno dei più ben educati nei confronti degli stranieri), una cosa si può dire tranquillamente, non foss'altro perché ce la siamo sentita ripetere più volte dai politici danesi nella stanza da pranzo del Parlamento di Copenaghen: e cioè che «v'è qualcosa di marcio, in Danimarca ». Isolazionismo / danesi hanno fama d'essere i più spiritosi tra i nordici, amanti della battuta — che qui si chiama «snak» —, ed è probabile che la citazione shakespeariana venisse fatta dai nostri interlocutori con intenzione ironica. Ma \ è certo che essa calza perfettamente alla situazione della Danimarca così come si presenta in questo primo anno della « grande crisi » economica dell'Occidente. \ a fi a l à l e a à l , o è , e » , i o e a Fermiamoci un altro momento sugli umori, i pessimi umori, che circolano tra i cinque milioni dì danesi nei confronti della Cee e dei suoi partners. Un recentissimo sondaggio d'opinione ha fornito indicazioni molto chiare: rispetto ai risultati del referendum del '72 (col quale la Danimarca decise il suo ingresso nella Comunità), il rapporto tra europeisti e no si è praticamente rovesciato. Ora il 57 per cento degli interrogati è per l'uscita dalla Cee, il 10 per cento è incerto, e soltanto il 33 per cento pensa ancora che la permanenza nel Mercato comune non sia una pura follia. Questa partecipazione di massa a un problema di politica non « immediata » come l'appartenenza o meno a una comunità economica internazionale, il fatto che decine di migliaia di persone manifestino su di un tema i cui aspetti tecnici esulano dalle cognizioni appunto « di massa ». potrebbe essere assunto come un dato positivo, una prova della maturità del Paese. Ma se si guarda più da vicino all'atteggiamento anti-europeo dei danesi, è.. facile vedere che in esso c'è ben poco di politico (di scelta, cioè, ragionata) e moltissimo di umorale: vale a dire un rigurgito di sentimenti oscuri, di pregiudizi antichi, di nostalgie isolazioniste. Si chiede l'uscita dal Mec per non pagare «i parassiti di Bruxelles », per evitare l'influenza di « modelli di vita stranieri » e quella del « diritto romano », per non subire il « predominio tedesco », per tenersi a debita distanza dal Vaticano (il Paese è al 97 per cento protestante) e dai « pasticci italiani ». Quel che si vuole è invece la riaffermazione dell'« identità danese » (come se il processo d'integrazione europea, piuttosto che languire, fosse davvero avanzato), e dell'« anima scandinava » riaffiorata prepotentemente alla vista della ripresa economica svedese e del petrolio norvegese. Ma queste — per citare ancora Amleto — sono « parole, parole, parole ». Dreyer attuale La vera natura del movimento d'opinione contro la Cee è del tutto irrazionale. Colpiti, come gli altri europei, dalla crisi economica, i danesi tendono a identificare l'inizio della congiuntura negativa con l'ingresso nel Mec. Restii ad accettare quel che sta accadendo in tutto l'Occidente, e disabituati alle difficoltà, essi sfogano lo scontento con gli slogan contro i « parassiti di Bruxelles », obbedendo così a un moto non molto diverso, in fondo, da quello che Cari Dreyer descrisse nel suo memorabile "Dies irae", il film sulla caccia alle streghe nella Danimarca del Seicento. La crisi economica, lo vedremo, coinvolge tutti gii elementi di base del « sistema» o «modello» danese. Ma quel che colpisce subito il visitatore è il nervosismo, il senso di frustrazione che circolano dappertutto, e non investono soltanto la Cee e i partners europei bensì tutti i centri del potere: i sindacati, la classe politica, il governo, la burocrazia. E' stato proprio questo scontento, l'onda limacciosa del qvlptlgcvzvssddrg qualunquismo, che ha dato vita nel dicembre scorso all'attuale Parlamento di Copenaghen, dove undici partiti si dividono i 179 seggi dell'assemblea rendendo ogni giorno incerta, emozionante come una trama "gialla", la vita del governo di minoranza del liberale Poi Hartling, ventidue seggi appena e nessun appoggio sicuro all'esterno. Il governo Hartling è uno dei simboli della Danimarca d'oggi, il ribaltamento della reputazione di stabilità politica che questo Paese, come gli altri scandinavi, s'era acquistata nel passato. Altro che stabilità: in tre giorni trascorsi nel palazzo di Christianborg. dove ha sede il Parlamento (che qui è unicamerale), abbiamo assistito a scene di grande irrequietezza, votazioni ogni volta annunciate come decisive, deputati che correvano al | voto con aria concitata, giornalisti che scommettevano sulla caduta del governo, insomma una turbolenza latina. Socialismi divisi Certo, gli scricchiolii del « sistema » danese vanno inscritti nella crisi più larga dei « socialismi nordici »: anche se qui non sono sempre stati al governo, e spesso hanno governato senza vere maggioranze, i socialdemocratici avevano rappresentato il pilastro della politica danese prevalendo in tutte le elezioni dell'ultimo cinquantennio. Ora hanno il minor numero di seggi mai ottenuto dal 1920, hanno perso l'appoggio totale dei sindacati (il maggiore dei quali, quello dei metalmeccanici, ha deciso qualche settimana fa di finanziare per la prima volta anche socialproletari e comunisti), mentre le divisioni all'interno del partito si fanno sempre più gravi. Che è poi quel che succede in Norvegia (dove Bratteli governa col sostegno dell'estrema sinistra), e in una certa misura anche in Svezia, dove Olof Palme dispone di 175 seggi contro 175. Ma se in Norvegia e Svezia la crisi sembra per ora soltanto di quei « socialismi », divisi come sempre — anche se ormai al limite della lacerazione — tra l'anima «dottrinaria» delle sinistre e i compromessi imposti dalla pratica di governo ai settori « moderati », in Danimarca è in discussione l'intero « modello », il sistema che aveva dato agli abitanti di questo Paese uno dei quattro o cinque più alti livelli di vita di tutto il mondo. Non è certo un caso che in un Welfare State come quello danese, i cui ammirevoli risultati erano consentiti da un meccanismo fiscale severissimo (anzi record: la più forte percentuale di imposte dirette dell'Occidente), si assista al primo, vero trionfo della sub-ideologia poujadista. Il secondo partito al Parlamento è oggi, infatti, il Fremskridpartiet di Mogens Glistrup, che ha nel programma un solo argomento concreto: basta con le tasse. Argomento che non soltanto ha già procurato a Glistrup il 16 per cento dei voti, ma che piazza il partito (secondo i sondaggi d'opinione) tra i due o tre che dovrebbero più avanzare in caso di elezioni anticipate. La « grande crisi » economica dell'Occidente, l'inflazione (15 per cento: la terza, nella Cee, dopo quelle italiana e inglese) stanno facendo vacillare l'intera concezione dello «Stato sociale». «Il fatto», ci diceva Jens Maigaard, deputato socialproletario, « è che i miti hanno vita breve. Il riformismo non può essere portato oltre un certo limite, salvo a essere pronti, poi, per le riforme di struttura. Altrimenti il carico fiscale (il costo cioè dello "Stato sociale") si fa tanto eccessivo che la gente non può più sopportarlo. Ecco, noi siamo a questo punto: abbiamo già ridotto le tasse il mese scorso, e dovremo ridurle ancora. Ma cosa ne sarà allora dei nostri famosi "programmi sociali"? ». Sandro Viola Copenaghen, 1972. Dimostranti contrari all'ingresso nel Mec ■ Oggi vincerebbero il referendum (Foto Grazia Neri) j

Persone citate: Federico Vii, Grazia Neri, Hartling, Jens Maigaard, Mogens Glistrup, Olof Palme