Mentre s'apre il processo Watergate inchiesta sui "doni,, di Rockefeller

Mentre s'apre il processo Watergate inchiesta sui "doni,, di Rockefeller Il Congresso deve approvare la nomina del vicepresidente Mentre s'apre il processo Watergate inchiesta sui "doni,, di Rockefeller Colpo dei nemici? (.Dal nostro corrispondente) Washington, 14 ottobre. La conferma parlamentare di Nelson Rockefeller quale vicepresidente degli Stati Uniti non è più scontata come appariva nei giorni scorsi. La scoperta che il vicepresidente «scelto» (e non eletto, per questo deve avere il « sì » del Parlamento ) avrebbe usato la sua ricchezza per acquistarsi amicizie politiche, « integrare » lo stipendio di funzionari governativi, organizzare operazioni elettorali « sporche » ha sollevato, in un Paese ancora in via di cicatrizzazione dal Watergate, molte perplessità e nuovi sospetti. Nessuno pensa realmente che il Parlamento possa bocciare la nomina di Rockefeller (scelto da Ford il 20 agosto scorso) ma tutti sono convinti che egli « dovrà passare (scrive il "New York Times" con un'ovvia parafrasi del Vangelo) per molte crune d'ago prima di acquisire definitivamente la vicepresidenza ». La prima « cruna » è la stessa commissione senatoriale davanti alla quale « Rocky » ( è il soprannome popolare di Rockefeller)'ha già testimoniato e che si prepara a richiamarlo per un supplemento d'interrogatorio. Improvvisamente, la ricchezza di Rockefeller si è trasformata, come sovente è accaduto durante la sua carriera politica, da un indiscusso «atout» in elemento di sospetto. Dal 1957 ad oggi, dicono le rivelazioni all'origine del «caso», egli avrebbe elargito oltre 2 milioni di dollari (circa un miliardo e trecento milioni) ad amici, giornalisti e soci, alcuni dei quali occupavano già funzioni pubbliche. Danaro dato per interessi personali di «Rocky» o per l'interesse pubblico, si chiede oggi l'America in una domanda niente affatto irrilevante agli occhi della morale politica Usa. Forse, in altri tempi, lo «scandalo» neppur sarebbe nato, ma poiché è il rigore moralistico ad avere portato Rockefeller alla Casa Bianca (provocando le dimissioni di Nixon) è naturale che egli debba rispondere a questo stesso sentimento. Fra le varie accuse specifiche rivolte a Rockefeller, una delle più controverse riguarda un libio su Arthur Goldberg suo avversario nelle elezioni per il governatorato di New York. «Rocky» ha pagato 150 mila dollari, circa 100 milioni, ad un giornalista (Emmeth Hughes) perché scrivesse un saggio «derogatory», diffamatorio, su . Goldberg. Un'azione considerata un «dirty trick», un colpo basso elettorale, della natura di quelli rimproverato a Nixon: Rockefeller ha accettato piena responsabilità per l'operazione (risalente a 4 anni fa) e si è ufficialmente scusato in una lettera inviata al presidente della commissione senatoriale per la sua conferma, la scorsa settimana. Anziché sopire, la lettera ha acceso le polemiche. «Quattro anni — ha detto il presidente della commissione, senatore Cannon — sono un mucchio di tempo per chiedere scusa, davvero troppo», aggiungendo che è sua intenzione riconvocare i colleghi della commissione. Altri senatori sono meno drastici, ma si avverte palese un senso di imbarazzo intorno al caso Rockefeller: il senatore Javits, membro della stessa commissione, ha ad esempio ammesso di avere ricevuto un contributo elettorale da «Rocky» di dieci milioni di lire, aggiungendo di «volerlo restituire» viste le nuove circostanze. E' questo tipo di «donazioni» sospese fra la generosità e l'interesse che fomentano il caso. Ancora: Rockefeller ha riconosciuto di avere «beneficiato» taluni funzionari pubblici, ma solo «per mantenerli nella pubblica amministrazione» e indurli a resistere alle offerte di industrie private. Una spiegazione che può far sorridere e può essere autentica. Confrontando i fatti (le «donazioni») con le conseguenze (il possibile rifiuto della conferma parlamentare) si nota un'apparente sproporzione. Ma occorre inserire la vicenda nel contesto del momento politico americano e della posizione personale di Rockefeller per comprenderne la natura. La coincidenza con il «dopo-Watergate» e l'imminenza delle elezioni politiche di novembre acuisce certamente le proporzioni del caso. I repubblicani, che tornano a sperare dopo essersi liberati di Nixon non vogliono ora portare durante la campagna elettorale il peso di nuovi dubbi sul loro vicepresidente e dunque si affiancano ai democratici nel chiedere «piena luce». In più, lo «scandalo» sembra essere l'ultimo episodio della lotta interna contro Rockefeller. at¬ qrbcemfmr torno al quale esiste uno schieramento compatto di amici fedelissimi e di nemici altrettanto inflessibili. Ciò detto, e nonostante le dure parole del senatore Cannon («se le illazioni saranno confermate dovrò votare contro la conferma») nessuno anticipa un'effettiva bocciatura di Rockefeller in Senato, anche dopo i nuovi interrogatori in commissione. Questo «scandalo delle donazioni», questa «Watergate finanziaria» del vicepresidente sembrano soprattutto l'estremo colpo di coda dei suoi nemici e insieme un piccolo ammonimento dei suoi amici: si vuole fare un po' di paura, insomma, ad un uomo «che fa paura» per la sua potenza economica e politica. Vittorio Zucconi Che rischiano i cinque di Nixon Washington, 14 ottobre. Il « processo Watergate », forse il più clamoroso processo politico della storia americana, è cominciato oggi alla Corte federale di Washington. Di fronte al giudice Sirica sono comparsi i cinque imputati: un ex ministro della Giustizia, John Mitchell, il suo « vice » Robert Mardian, l'ex capo di gabinetto di Nixon, Richard Haldemann, l'ex consigliere presidenziale per gli Affari Interni, John Ehrlichmann e uno dei legali del presidente, Kenneth Parkinson. Contro di loro pendono imputazioni di « complotto per ostacolare la giustizia », « falsa testimonianza », « spergiuro » e pene da un minimo di 5 ad un massimo di 20 anni per i tre accusati principali, Halde¬ mann, Ehrlichmann e Mitchell. In concreto, costoro sarebbero i principali protagonisti, con Nixon, dello scandalo Watergate, coloro che hanno cospirato con il presidente per soffocare il caso e sviare la giustizia. E' il processo a « tutti gli uomini del re », dunque, al quale toglie drammaticità l'avvenuta destituzione di Nixon, ma che resterà nella storia di questo Paese come un avvenimento difficilmente eguagliabile: i cinque imputati erano, solo 18 mesi fa, forse il più potente gruppo di potere politico in America, all'apice di una parabola che oggi li vede sedere, a fianco a fianco, sul banco degli accusati. Tuttavia, sul processo (che Sirica ha cominciato in un giorno di fe- sta nazionale, il « Columbus Day » provocando l'indignazione degli italo-americani per questa profanazione) pesa un'ombra grave: il perdo no giudiziario accordato a Nixon. Comunque si concluda, il giudizio potrà apparire ingiusto: se i « cinque » verranno assolti per avere « obbedito agli ordini » il Watergate si chiuderà senza che una sola delle figure maggiori finisca in carcere. Se verranno condannati, si'vedrà riconosciuta l'esistenza di una « cospirazione » ove il protagonista principale, Nixon, è un libero pensionato e i complici in galera per 5 o ven| t'armi. Ma, a ben guardare, la conclusione è forse meno importante del prologo, per una volta. La dimostrazione che ci viene oggi dall'America, di un Paese capace di processare i vertici della propria classe politica senza timori (e senza incrinature nel « sistema ») va al di là della quantificazione di una sentenza. Singolarmente, tuttavia, al processo mancheranno i due uomini intorno ai quali lo scandalo ha ruotato per un anno: Nixon e il suo implacabile avversario, l'inquisitore speciale Leon Jaworsky l'uomo che ha condotto le indagini, accumulato le prove, portato il caso davanti alla Corte Suprema (vincendolo), poste le premesse insomma al crollo del presidente. Come Nixon, Jaworsky ha dato le dimissioni, due giorni fa, ritenendo ormai completato il suo lavoro con l'allontanamento del presidente e l'apertura del processo ai suoi collaboratori. Sarà un lungo dibattito, per l'enorme complessità e delicatezza della materia. Soltanto per formare la giuria popolare, Sirica ha dovuto lavorare un mese, setacciando i candidati. Molti non erano qualificabili perché già si erano formato un giudizio sulla vicenda leggendo i giornali, altri potenziali giurati si sono autosqualificati proclamandosi contrari al processo, dopo il « perdono » a Nixon. L'accusa (che ha esposto stamane i suoi primi argomenti) afferma di avere le prove della cospirazione politica per soffocare lo scandalo e intralciare le indagini; la difesa replica sostenendo che in primo luogo esistono assai più illazioni che prove, e, in secondo, questi cinque uomini hanno agito su ordini del Presidente degli Stati Uniti dunque convinti di lavorare all'interesse del Paese. v. z.

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