Governare è scomodo ma è necessario

Governare è scomodo ma è necessario Governare è scomodo ma è necessario In questi tempi difficili, governare è scomodo, ma è pur sempre necessario. O forse non lo è? Ci sembra di notare una sostanziale indifferenza degl'Italiani verso questa crisi ministeriale, che non dovrebbe esserci. Ci si aspetterebbe una grande tensione nel Paese, un allarme, quasi un panico all'idea che al timone non c'è nessuno, proprio nel mezzo di una navigazione tra scogli fitti e pericolosi. Invece il Paese ha l'aria di seguire alquanto distrattamente le consultazioni, i sondaggi, le esplorazioni: forse perché tutto quello che succede ha tanto l'aria del « dejà vu». Viviamo la crisi dell'autunno 1974, o quella del febbraio, o quella rientrata del giugno di questo stesso anno? O magari altre crisi di cui le date ormai ci sfuggono ma che si accavallano runa sull'altra nel ricordo, imprecisamente, sembrandoci in fondo tutte eguali? Quella sulle giunte difficili è una polemica del '74, o del '64? Non parliamo poi della definizione dei rapporti con i comunisti, eterno ritornello delle nostre crisi; mentre a menzionare le riforme si ha l'impressione di recitare litanie. Ne deriva una noia profonda: i partiti di governo dovrebbero tenerne conto. Quando essi sentono la tentazione (e la sentono tutti, a turno) di buttar all'aria ogni cosa e di fare nuove elezioni, dovrebbero riflettere sul dilagante fastidio che tanta parte dell'opinione pubblica prova nei loro confronti: non è questa l'atmosfera in cui maturino cospicui balzi in avanti per i partiti che s'identificano con «il governo». * ★ Forse è dunque meglio fare un altro sforzo per governare, anche se in questo momento è assai scomodo. Lo è a tal punto che perfino i comunisti, dopo mesi che esigevano a gran voce di esser chiamati subito dentro l'area di governo, non appena il governo è caduto e uno spazio s'è fatto si sono educatamente tirati indietro dicendo: noi siamo l'opposizione, governare tocca a voi, fatelo, bene. Ma forse anche il pei pensa segretamente che le probabilità che si ricomponga il centro-sinistra sono poche, che alle elezioni anticipate quindi si arriverà, e che tanto vale tenersi in disparte senza compromettersi, unico partito chiaramente d'opposizione, forse il solo che abbia buone probabilità di sfuggire all'ondata di generale malumore che investe la classe politica. Con i comunisti spettatori, tocca agli altri condurre il giuoco. E per quanto si sia tentati di cedere all'irritazione e di concludere che, se si ha da essere mal governati, tanto varrebbe far senza governo, bisogna pur concludere che il governo può fare danni, ma senza non si può stare. E' vero che industriali e sindacalisti potrebbero anche, a un certo momento, trovarsi quasi nell'obbligo di dare al Paese una politica economica per la parte che li riguarda (ossia una politica dei redditi e degl'investimenti), visto che non c'è un governo per proporla, meno che mai per imporla. Dopo tutto, le grandi cifre, i dati di base della situazione valutaria, le prospettive di sviluppo dell'economia mondiale, le possibilità delle nostre esportazioni, sono tutte cose che anche gl'industriali e i sindacati conoscono; con qualche discreta consulenza da parte di quel cospicuo complesso tecnico-economico che fa capo alla Banca d'Italia e alla Programmazione, essi potrebbero (in teoria) esser capaci di decidere anche da soli, senza assistenze e mediazioni governative, alcuni fondamentali impegni reciproci, in fatto appunto d'investimenti e di redditi, di salari, di profitti e di prezzi. Ma supporre che ciò accada è quasi utopistico, richiederebbe un'atmosfera sociale ben altrimenti distesa, e non soltanto grande immaginazione e buona volontà — che magari ci sono — nei due gruppi dirigenti. E poi mancano comunque, per dar concretezza al dibattito così difficilmente iniziatosi tra i sindacati e la Confindustria, impegni operativi condizionanti che né l'una né l'altra «controparte» può prendere: una fetta troppo grande della nostra economia è dominata da spese, prelievi, iniziative e decisioni pubbliche. La nostra è un'economia di mercato sottoposta ad un regime d'occupazione da parte dello Stato. Ma l'occupante è assente. E poi, come può un'economia cosi bisognosa di aiuti esteri, restare senza governo che la rappresenti? ★ ★ Sicché si torna per forza alla necessità che un governo ci sia: sennonché questa crisi ermetica si muove, al solito, troppo lontana dalle cose concrete e dai problemi reali. Se il tema era politico — l'eterna questione di come vada definito il rapporto con l'ttopposizione convergente» dei comunisti —, si è tentati di dire che l'ha subito accantonato e risolto per tutti l'onorevole Berlinguer, quando ha detto: noi siamo opposizione, e auguri di buon lavoro a voi che siete governo. Ah, ma questo non basta, replicano i «moderati», che non rivogliono il centro-sinistra e sognano nuove elezioni come palingenesi. Essi, però, si ritroverebbero di sicuro all'indomani al punto di partenza, con un po' di deputati de in meno e un po' di deputati pei in più, ma col «centro-sinistra sola maggioranza possibile», e la questione se debba farlo Fanfani o forse Moro o Rumor, e quali rapporti si debbano stabilire col pei, quanta deflazione si debba fare e quante riforme, e così di seguito. Perché, dunque, non affrontare subito i problemi concreti? Hanno ragione i repubblicani, che si tengono accortamente un po' in disparte sui temi politici e invece dicono: il problema è quello della politica economica, questa bisogna definire, i dati ci sono, il quadro internazionale si è un po' chiarito (magari solo nel senso che si vedono meglio i gravissimi rischi che tutti corriamo), quello interno è tempestoso ma le cifre cui riferirsi per decidere una politica ci sono. Quante tasse, quanto credito, quanti aumenti di salari e pensioni, quanta spesa pubblica e in che settori? Ecco i problemi. E in aggiunta a tutti questi, forse più importante di tutti, la questione amministrativa: come tagliar corto alle fatali lungaggini e vischiosità dell'amministrazione pubblica, quali uomini capaci scegliere e gettare nei settori chiave per mettere in moto meccanismi produttivi vitali per lo Stato, come l'edilizia? Se i politici daranno al Paese l'impressione che stanno impegnandosi su queste cose concrete, essi riconquisteranno forse ancora un po' di fiducia e di consensi. Gl'Italiani non ignorano che oggi governare è difficile: lo è in Italia, lo è visibilmente, per ragioni spesso identiche, in molti altri Paesi vicini come l'Inghilterra. Gestire una politica di restrizioni, una frenata dell'economia, è assai più complesso che gestire una politica di espansione. Ai governanti non si chiedono quindi miracoli; non si attendono superuomini, ma soltanto un governo che dia la sensazione di avere una testa, un senso d'urgenza, e la capacità di comunicare col Paese. Purtroppo in questa prima settimana non si è avuta l'impressione che questo impegno per ridare al Paese un governo che governi, realmente ci sia. Si sono viste schermaglie, finte, manovre di corrente, pause magari giustificate, giacché « bisogna dar tempo perché gli animi si rilassino». Ma non si sono rilassati anche troppo? Non è ora invece che i capipartito, che hanno le responsabilità dirette, si affrontino, s'impegnino, si misurino con concreti discorsi sulle cose da fare?

Persone citate: Berlinguer, Fanfani, Rumor

Luoghi citati: Inghilterra, Italia